Dacci un segno - I VOSTRI racconti del tavolo

 
 


 

I BAMBINI DI II C sbs SCUOLA SACRA FAMIGLIA MARTINENGO

 

UNA MAGICA AVVENTURA

In un caldo pomeriggio di sole un bambino con gli occhiali a specchio di nome Matteo e il suo amico Ettore passeggiavano allegramente per le vie del paese, cercando un posto in cui giocare a calcio con il loro pallone nuovo di cuoio. Si fermarono in una via abbastanza spaziosa e iniziarono a passarsi il pallone divertendosi molto, ad un tratto il pallone finì contro il vetro della finestra di una casa lì accanto… Era la casa della strega Marilù.

I bambini, vedendo il vetro della finestra frantumarsi, capirono subito di essere nei guai e non sapendo cosa fare rimasero immobili davanti al disastro che avevano combinato perché tutti conoscevano la strega Marilu: era molto severa, soprattutto con i bambini.

La strega, che stava beatamente riposando nel suo lettuccio, si svegliò di soprassalto spaventata dal gran fracasso e affacciandosi alla finestra capì subito che i bambini erano responsabili di tutto quel frastuono. Marilù uscì velocemente dalla casa e arrabbiata com’era decise di punire i bambini con una trasformazione: puntò la bacchetta verso di loro e lanciò il suo incantesimo, ma il piano andò storto e colpì solo il povero Ettore che si trovò in un baleno trasformato in un... cagnolino!

Per fortuna Matteo coraggiosamente prese in braccio il povero cane, che non era un cane, e corse a più non posso lontano da quel postaccio.

Quando i bambini furono abbastanza lontano dalla strega decisero di andare a parlare con la fatina Desy che era proprietaria di un negozio di caramelle, il più bello del paese.

Quando la fatina vide entrare Matteo capì subito che era successo qualcosa, chiese al bambino di raccontarle tutta la storia e in pochi minuti aveva già trovato una soluzione.

La buona Desy infatti andò velocemente nel retro bottega e prese dalla cassaforte un grosso libro di cuoio molto antico, lo sfogliò e trovò l’antidoto adatto: ai bambini serviva la lacrima di un draghetto.

La fatina spiegò ai due bambini che dovevano andare in cerca della lacrima di un drago e farla poi bere al povero Ettore, grazie a quella lacrima sarebbe infatti tornato velocemente ad essere un bambino. L’isola dei dragherei era lontana e per trovare la strada la fatina trasformò gli occhiali a specchio di Matteo in occhiali speciali che proiettavano sulla lente la mappa per arrivare a destinazione. I bambini si misero in viaggio immediatamente e poiché dovevano attraversare un grande mare la fatina prestò loro una barchetta magica e senza pensarci troppo si diressero seguendo la mappa degli occhiali sull’isola.

Dopo a molte ore di navigazione arrivarono finalmente all’isola dei draghetti e scesi dalla barca videro subito una cucciola di draghetto che riposava beatamente su i rami di un albero quando, ad un tratto, si svegliò e guardò un po’ stranita i due nuovi arrivati.

La draghetta era molto dolce e non appena Matteo le raccontò quello che era successo decise subito di aiutarli, purtroppo la cucciola era sempre felice e, nonostante i due bambini cercassero di rattristarla con storie malinconiche, alla poveretta non usciva neanche mezza lacrimuccia.

A quel punto ai due bambini venne un’idea: se non potevano farla piangere di tristezza, allora potevano provare a farla piangere di felicità. Iniziarono subito a fare versacci, boccacce, a raccontare barzellette, a fingere di cadere.... furono così bravi che già dopo qualche minuto la draghetta non la smetteva più di ridere e rideva così tanto che gli occhi iniziarono a lacrimare.  Velocemente Matteo raccolse con il dito una lacrima e subito la diede ad Ettore che all’istante tornò ad essere un bambino.

Per festeggiare il lieto evento la cucciola di draghetto andò chiamare i suoi genitori e tutti gli altri abitanti dell’isola e insieme organizzarono una festa divertendosi tutti molto. Dopo qualche tempo Ettore e Matteo ripresero la navigazione per tornare verso casa felici che la loro avventura si fosse risolta nel migliore dei modi.

Arrivati a casa decisero di passare dalla strega Marilù per porgerle le scuse e provare a fare amicizia con lei, così suonarono alla sua porta e le consegnarono un bel mazzo di fiori e un bel sacchetto di caramelle gentilmente offerte dalla fatina Desy.

I bambini chiesero alla strega di essere più gentile la prossima volta e, forse grazie alle attenzioni che i bambini le avevano rivolto, iniziò a diventare più buona e dal quel giorno Matteo ed Ettore diventarono suoi amici, i suoi primissimi amici!


 


 
 
Viola Paramatti

IIIB  I.C.C Sinopoli Ferrini

 

Ormai era famoso in tutto il mondo animale; tutta Roma parlava di lui: dal Colosseo a Ostia. Tutti avevano il suo nome in bocca.

 Manonèuncane, era tanto conosciuto quanto non considerato, non accettato e allontanato. In realtà la sua storia è comune a tanti, ben più famoso di lui c’è Mowgli, il ragazzo cresciuto dai lupi. Nella lontana Scozia si parla anche di un maiale capace di fare il cane da pastore. Il nostro eroe era semplicemente un gatto dei nostri tempi abbandonato in un secchio della spazzatura sotto le feste di Natale. L’unica “mamma” disponibile trovata dalle gattare di Largo Argentina era una cagnolina con un altro cucciolo in un rifugio. Il gattino cresce così in un mondo di cani; ogni volta che passava qualcuno in cerca di un cagnolino da adottare, vedendolo esclamava: “Ma non è un cane!”

Il gattino si convinse di chiamarsi così; cresceva tranquillo. Manonèuncane, scodinzolava, mostrava i denti e da poco aveva persino imparato ad alzare la zampa quando faceva pipì. Suo fratello venne adottato presto invece sembrava che non ci fosse nessuna famiglia per lui, era stupito perché si era convinto di essere molto simpatico in quanto tutti quelli che passavano vedendolo ridevano. Un giorno anche la mamma venne adottata e Manonèuncane si ritrovò da solo al rifugio. Finché un giorno arrivò un gatto randagio trovato senza un occhio. Manonèuncane rimase meravigliato da questo nuovo ospite che aveva la coda, dei lunghi baffi e le orecchie a punta come lui. Il gatto non aveva molta voglia di fare conversazione così Manonèuncane lo soprannominò l’Orbo. Ripreso dallo shock l’Orbo vide il nostro eroe e gli chiese: “Tu che cosa sei?” e Manonèuncane rispose stupito: “Mi dispiace che ci vedi ancora così male, io sono un cane, che non si vede?” e l’Orbo scoppiò in una grossa risata e gli disse: “Ragazzo a me mancherà anche un occhio, a te però manca il cervello!” Manonèuncane rimase colpito da questa affermazione, e rispose: “Io non ho visto molto il mondo fuori, sono passato dal secchio della spazzatura questo rifugio”

-“Ragazzo non è il mondo che ti manca di vedere devi guardare dentro te stesso per capire chi sei. Ci manca solo che abbai come un cane!”

-“Hai ragione, non sono bravo ad abbaiare, mi sto ancora esercitando”

-“ Smetti di esercitarti allora, prova a fare un miao vedi come ti riesce bene!”

Allora Manonècane provò e gli uscì un miao bellissimo, forte, nitido e spontaneo, proveniente dal cuore. Manonèuncane capì tutto. Capì chi era veramente e non chi credeva di essere. Attraverso le lezioni dell’Orbo imparò ad essere un gatto senza però dimenticare quanto appreso dai cani. Di lì a poco una famiglia si innamorò di un gattino che scodinzolava, e Manonèuncane ebbe finalmente una famiglia. 

 
 


 

Viola Camerelli – Alice Sampaoli – Federico Graziotti
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR)

 

INVENTA UNA STORIA Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda.

Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre…

Giulia uscì dalla sua cameretta e si avvicinò alla tigre e tentò di farsela amica.

La bambina gli allungò la mano e lei si avvicinò.

Giulia la portò nella sua cameretta e le diede un nome, la chiamò Fulmine.

Da quel giorno fu il suo animaletto preferito. La portava persino a scuola e giocavano sempre insieme.

La sua mamma era tanto felice di vedere la  bambina sempre allegra e che cominciava a scrivere testi sempre più fantastici.

Tutta la famiglia fu molto orgogliosa di lei, che aveva cominciato a prendere voti molto alti.

La famiglia però non sapeva che Fulmine era magica, infatti aveva il dono della parola, ma solo per comunicare con la bambina.

 Giulia aveva intenzione di rivelarlo, ma Fulmine la fermò in tempo e la supplicò di non farlo, doveva essere un segreto tra loro due, se lo avesse rivelato l’incantesimo l’ avrebbe fatta scomparire per sempre.

Questa è la storia scritta da Giulia.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

VIOLA BARRACO, 9 ANNI
SCUOLA PRIMARIA DA ROSCIATE BERGAMO CLASSE 4A

 

STORIA DI UN’AMICIZIA MAGICA

Quel giorno faceva un freddo infernale, nessuno sano di mente avrebbe pensato di poter uscire e raccontarlo a breve, considerando che sarebbe rimasto molto a lungo all’ospedale, paralizzato dal freddo. Nonostante ciò, nello spazio angusto tra due case molto alte, c’era un essere vivente, al freddo, che dormiva saporitamente: era un cane.

Dirlo con tanta spontaneità fa pensare che non ci sia niente di strano in un normalissimo cane che dorme nella neve, data la sua folta pelliccia, invece no: quel cane non era un cane normale ... insomma, non era un cane. Sembrava perfettamente a suo agio, eppure tradiva un intenso sguardo di innaturalezza che non avrebbe assunto nemmeno un cane malato, infatti era una strega. La burrasca che era in corso durò circa sei ore e mezzo e quando fu cessata, e il freddo diminuì, una bambina particolarmente eccitata uscì di gran carriera per andare a giocare con la neve. Fu in quel momento che lo vide o, meglio, la vide. Anche lei era una strega: si chiamava Neve. Alla scuola di magia le avevano insegnato a riconoscere i magici trasformati dal loro aspetto, dal loro carattere e dalle loro abitudini. Vedendo lo sguardo inquieto dell’animale, si avvicinò e quello, capendo che era una strega di cui si poteva fidare, si ritrasformò. - Chi sei? -, le chiese Neve, Come ti chiami? -. - Mi chiamo Fiamma - rispose l’altra. - Cosa ci fai tutta sola? -, le domandò Neve. - E’ una lunga storia e ho troppo freddo per mettermi a raccontarla qui fuori -, disse fiamma. Così Neve la invitò a entrare in casa sua e a raccontargliela. Neve apprese che Fiamma era orfana e, dopo averlo chiesto ai suoi genitori, le comunicò che poteva restare. I genitori di Neve erano sempre gentili e affettuosi nei confronti di Fiamma. Tutti i giorni, al ritorno da scuola, Neve insegnava alla sua nuova amica quello che aveva imparato. In breve, le due bambine diventarono amiche per la pelle, non si separavano mai, per questo si consideravano sorelle. A Fiamma piaceva molto la stanza che condivideva con Neve: era grandissima, adornata con decorazioni di ogni tipo: quadri luccicanti, mobili intarsiati nel legno di larice, bellissimi disegni che Neve aveva incantato e abiti che si cucivano da soli. Un giorno, Neve ricevette una lettera scritta tutta svolazzi che diceva:

Cara Neve,
sarei felice se tu venissi a vivere con me per farmi compagnia.
Poichè sono stata informata che ospiti una bambina a casa tua, mi farebbe piacere se invitassi anche lei. Tua zia,
Rodensia.

Neve corse subito a dare la notizia a Fiamma, che fece salti di gioia. - Zia Rodensia abita a Londra -, le spiegò Neve. Il giorno dopo erano in partenza. Arrivarono a casa della zia di Neve poco dopo: era una villa enorme con una fontana davanti. Zia Rodensia si fece raccontare tutto del ritrovamento di Fiamma, poi si rivolse a lei e le fece una domanda che Neve si poneva da tempo: Cosa ci facevi tutta sola? -. - Cercavo un posto sicuro -, rispose Fiamma come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Zia Rodensia ci pensò su e prese una decisione: avrebbe adottato Fiamma. Il giorno dopo lo comunicò alle bambine, che fecero salti di gioia. Si recarono al tribunale per compilare i moduli necessari e alla fine Fiamma entrò a far parte della famiglia di Neve. 

Da quel giorno Fiamma e Neve vissero felici, sicure che avrebbero vissuto insieme tante avventure.

Fine
 



 
Valentino Ripullone, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye 
 

La storia di Giulia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Tutti potevano vederla. All'improvviso dalla finestra del secondo piano urlò un ragazzo e chiamò la madre. Le altre persone, sentendo le grida, uscirono fuori per vedere che cosa stava succedendo: erano tremendamente spaventate dalla tigre. La tigre saltò nel giardino e dalla finestra del primo piano una signora fece cadere una tovaglia sull'erba affinché la tigre fosse intrappolata. La tigre si mosse velocemente e riuscì a evitarla.

Passava in bicicletta un ragazzo seguito da un cane, la tigre vedendoli si mise a inseguirli, saltò per prenderli ma all'improvviso apparve un domatore che richiamò la tigre. Il domatore prese un cerchio infuocato e la tigre ci saltò dentro. Tutti applaudirono il domatore salvatore che ritornò con la tigre al circo dal quale era scappata.

Giulia concluse il compito. La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 
Valerio C., 13 anni
 

Su un’isola circondata da mare tempestoso un bambino con gli occhiali a specchio, da tempo non faceva un pasto completo. Tutto d’un tratto Jim, così si chiamava, si risveglia per via dei morsi della fame ai piedi di uno spettacolo raccapricciante: la sua imbarcazione completamente distrutta che giaceva sulla riva della spiaggia. Il ragazzino di a mala pena nove anni si mise a cercare tra i rottami qualche superstite urlando i nomi dei genitori e delle poche persone che conosceva all’interno della vecchia nave da crociera. Tutto inutile, quel bambino infreddolito, affamato e pieno di tagli era il solo sopravvissuto di quella colossale barca andata a schiantarsi su questa isola. All’improvviso, poco prima di mettersi a piangere, il bambino sentì dei rumori avvicinarsi verso di lui; rumori di passi di almeno una quindicina di persone che correvano. Quando il ragazzo li vide notò che erano molto strani: avevano la pelle di un color tra il marrone e l’arancione chiaro, erano vestiti con pelli di animali come tigri e giaguari ed erano tutti (compresi alcuni bambini), armati di lance in pietra, archi e cerbottane. Questi individui si fissarono per un attimo e poi si avvicinarono al bambino; avevano capito da subito che era messo male e che aveva bisogno d’aiuto così, riponendo le affilate armi, lo invitarono al loro villaggio. Il ragazzino aveva capito che quella era brava gente e che nonostante i loro strani versi e i segni che facevano agitando le mani, c’era da fidarsi. Arrivati al villaggio, al piccolo naufrago brillarono gli occhi, quella piccola città era identica a quelle che si immaginava quando leggeva i libri d’avventura. Le capanne erano costruite su solide pietre, resistenti tronchi di quercia e moltissime foglie larghe come tovaglie ben assemblate; il tutto reso più magico da una ricca e vasta vegetazione e una cascata che terminava il suo corso in un lago non distante da lì. L’unica parola che uscì dalla sua bocca fu “wow”.  Appena giunti presso una grossa capanna sul picco di una verde collina da cui era possibile vedere qualsiasi cosa, un altro di quegli individui invitò solo il bambino ad entrare. L’interno della casa era molto particolare, su ogni piccolo spazio delle pareti erano accasciati sopra delle mensole, tantissimi barattoli contenenti insetti, erbe, spezie cortecce d’albero e minerali di ogni genere. Sopra un tavolino costruito chiaramente per uso pratico e non decorativo si potevano osservare un mortaio e qualche arnese rudimentale simile a quelli di un medico. Jim non capiva; poi però, l’umo che l’aveva invitato ad entrare gli fece cenno di andare nella stanza seguente. Il ragazzo pensoso allora ci andò senza chiedere spiegazioni perché inutile. Giunto sull’uscio della stanzetta al bambino brillarono gli occhi: se pur doloranti e malandati, vide i suoi genitori, che gli spiegarono come furono trovati per primi e soccorsi da questi “Tiwuayani” sì, così avevano detto. A quanto pare erano sulla leggendaria isola di Tiwuacq; l’unica cosa che uscì dalla bocca del ragazzo fu “ma allora siamo finiti nel triangolo delle Bermuda?”. I suoi genitori a quel punto gli spiegarono che erano stati trascinati lì da un uragano e che loro erano gli unici sopravvissuti. Il ragazzo disse che dovevano trovare un modo per andarsene, ma il padre spiegò che l’isola era situata al centro dell’occhio di un enorme ciclone che oltre a renderli invisibili al resto del mondo, impediva a chiunque abitasse sull’isola di uscirne, anche perché le barche più resistenti che avevano erano comunque in legno. Un momento di silenzio… “non partiremo” disse il padre con tono serio. Aggiunse poi che non avendo alcuno che li aspettasse in patria, quella era la loro nuova casa: avrebbero contribuito al benessere del villaggio e dei suoi abitanti e avrebbero conosciuto nuovi amici. Ci volle un po’ per abituarsi ma infondo, al piccolo Jim stava bene…dopotutto ora si sarebbe potuto sentire come gli esploratori dei libri che leggeva.


 


 
Valerio
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. 

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. 

Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. 

Durante la notte, però, una cucciola di drago si addormentò accanto alla fabbrica; ad un certo punto, la cucciola si svegliò e vide la pasta madre seppellita tre metri sotto la coltre di neve, così scavò e prese la pasta madre.

Camminava senza fretta, finché arrivò alla fabbrica, dove, lavorando la pasta con il suo calore, diede di nuovo …vita alla pasta e…al Natale!!!

 La piccola venne, così, ricordata da tutti per aver salvato la festa più importante del mondo…..IL NATALE!!!.


 


 

Valeria Martinelli   IIIB   Sinopoli
 
I RACCONTI DEL TAVOLO Concorso Palazzo Esposizioni

Nello spazio angusto tra due case molto alte, una misera sagoma scura trascinava il suo corpicino ansimante sull’asfalto. Era un bambino. Avrà avuto circa sette anni, poco più poco meno, non lo sapeva nemmeno lui. Nella penombra si intravedeva una figura gracile, capelli sottili, scuri, e pelle bianca. Pelle che quando non era bianca era verde e quando non era verde era viola. Il corpo fremeva, fragile sotto il vento autunnale che sembrava poterlo spazzare via, e tu più lo guardavi più ti convincevi che l’avrebbe fatto, che d’un tratto la corrente si sarebbe stufata di giocare a questo gioco, perché non c’era partita, e lo avrebbe finalmente scaraventato giù dal ponte, mettendo fine alle sue disgrazie. Il ponte quello piccolo e stretto, che collega il mercato alla parrocchia, di cui non c’è fiume che passi sotto che non è asciutto. Un bel posto devo dire. Il bambino era ancora lì, camminava così, che se lo fissavi ancora un po’ avevi l’impressione che fosse fermo. Gli occhi verdi tendenti al grigio sembravano di vetro. Non mangiava da giorni. Era messo male. Davvero male, anche per un bambino di sette anni che non gioca a baseball ma invidia i cani. Fissava un punto, dall’altro lato della strada, c’era un palazzo in costruzione; uno di quelli alti con poche finestre, che a guardarlo da lì sembrava uno scatolone di latta, come quelli che si usavano una volta per i biscotti. C’era un’impalcatura elevata, bella, molto più bella di come sarebbe stata la casa alla fine; era verde militare, e con tutte quelle travi sembrava un formicaio e gli operai formiche. E sotto, sotto ancora agli operai e all’impalcatura passavano le mamme e le mogli, con i cestini del pranzo ricolmi di pane e marmellata e crostini e ciambelline al vino, che passavano dal fioraio spesso e ridevano quasi mai. C’erano gli operai, c’era l’impalcatura, c’erano le mamme e c’erano le mogli, i cestini del pranzo ed il fioraio, e per ultimo, c’era un piolo. Un piccolo, minuscolo piolo che sporgeva alla base dell’impalcatura. Era da cinque giorni che il bambino fissava quel piccolo errore. Ora non c’erano gli operai, solo qualche mamma, qualche fiore e qualche pezzo di pane. Avrebbe potuto solo sfilare quel piolo, e sarebbe stato tutto così facile. Sarebbe caduta qualche asse, nulla di troppo estremo, forse due o tre assi, sarebbero cadute e avrebbero pensato loro alle mamme e ai fiori, lui avrebbe pensato al pane. Aveva gli occhi verde tendente al grigio. Gli occhi di uno che è appena nato. Gli occhi di uno che sta per morire. Sfilò il piolo. Da quel momento non si capì più quasi nulla, c’era qualcuno che urlava, le assi cadevano giù come bombe, qualcuno cadde a terra. Lui correva, correva solo, con tutte le forze che gli erano rimaste, che erano ben poche. Tutto questo per cosa poi, due pagnotte di pane, ne valeva davvero la pena? Si, si la valeva, avrebbe fatto questo ed altro anche per mezza pagnotta sola. Ad un certo punto non riuscì più a distinguere il sotto dal sopra, e cadde a terra, quella che gli sembrava il cielo. Quando aprì gli occhi grigio tendente al verde era in una cella. Era frastornato, ma non molto stupito. Lo avrebbero trattenuto lì per non molto in realtà, ma l’unica cosa a cui pensò fu che se l’avessero fatto uscire, avrebbe fatto qualsiasi cosa per  tornare dentro. Pane, acqua e una zuppa rancida, pensò, guardando il vassoio accanto a lui. In sette anni non aveva mai mangiato tanto in un solo giorno. Non sapeva dov’era, ma pensò forse in Paradiso. 


 


 
Tommaso, 12 anni
 

INVENTA UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”.

A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre affamata che era scappata da un circo, aveva adocchiato dei piccioni che voleva mangiare. Gli uccelli quando si accorsero della tigre volarono via. La tigre saltò in aria per prenderli e precipitò sulla strada dove, nel frattempo, si era radunata molta folla. La tigre era immobile e non sapeva dove andare, quando ad un certo punto arrivò il proprietario del circo che la prese, si scusò e la riportò nella sua gabbia.

Il signore di un primo piano lì vicino si affacciò per capire cos’era tutto quel trambusto. La signora sopra di lui, dal secondo piano sgrullò la propria tovaglia in testa al signore e sul giardino dove in quel momento stava passando un ragazzo in bicicletta. Allora il signore cominciò a urlare e Il ragazzo, ostacolato dalle molliche che gli caddero in testa, cadde dalla bicicletta e venne morso dal cane col guinzaio rotto che lo stava rincorrendo. 

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA A.S. 2020/2021  IIIª MEDIA

Maria Agnese Biju, Amalia Birsan, Eric Birsan, Carmen Colasanti, Chantelle Crisolo, Arianna Cristenco, Giovanni Garcia, Treesa Kalathoor, Elisa Mathew, Davide Oprea, Simone Valori, Andrea Sam Vidal, Callia Gaby Vidal.
 

GIULIA NEL MONDO DI TREB

Giulia, tornata a casa dalla scuola, iniziò subito a fare i compiti e cominciò proprio dal tema fantasy, che gli aveva assegnato la maestra. Spaesata nelle sue idee fu spaventata da Treb, che disse: «Che fai, usciamo a giocare?» Giulia rispose malinconica: «Non posso, devo fare i compiti…» Treb disse: «Ti posso dare una mano?» Giulia rispose felice: «Sì, per favore». Treb allora chiese che cosa dovevano fare e Giulia rispose che il compito era un tema fantasy. Treb disse: «Facile, basta che ti isoli e ti concentri sul testo!» Così Giulia si concentrò e iniziò a scrivere…

Un giorno sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Questo essere vivente spaventava e affascinava al tempo stesso tutti gli abitanti del mondo magico. La tigre emetteva quel caratteristico ronzio, rilassato e sereno, con gli occhi socchiusi, tutti erano certi che la tigre emettesse fusa di felicità, e lo paragonavano a un piccolo gattino. Ma come siamo arrivati qua? Da dove compare questa tigre? Come è iniziata questa storia? Iniziamo tutto da capo! Giulia, una giovane e bellissima ragazza, stava giocando da sola, nel suo piccolo quartiere. Come sempre sola, stava giocando con i suoi amici immaginari, ma quel giorno c’era solo il suo vecchio amico immaginario Treb. Tutti crederanno che avere un amico immaginario è una cosa da bambini, ma non per Giulia, per lei gli amici immaginari erano le porte che la guidavano nel mondo della magia, amicizia e immaginazione. Mentre stava giocando con il suo migliore amico, lei vide un ragazzo in bicicletta che svoltò l'angolo correndo all'impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto. Il ragazzo aveva la stessa età di Giulia, indossava un maglioncino blu e pantaloncini neri con un casco verde in testa. Vedendo la situazione, Giulia cercò di aiutarlo, prendendo il cane e lo accarezzò. Dopo un po’ quei due iniziarono a parlare:

«Perché stavi correndo come un pazzo, di qua e di là?» disse Giulia.

«Ma non vedi, quel cagnaccio mi stava inseguendo, forse mi voleva mordere o ancora peggio…mangiare!»

A queste parole Giulia iniziò a ridere, tenendo in mano il cucciolo e dicendo: «Questo tenero cagnolino, mangiarti?»; e iniziò di nuovo a ridere. Giulia chiese il suo nome, e lui rispose che si chiamava Martin. Si presentarono. Non so come lo intendiate voi, ma a me sembra che loro due avessero fatto amicizia e tutto il giorno parlarono di tante cose e scoprirono di avere tanto in comune e giocarono insieme. Mentre stavano giocando a Mosca cieca, i due si colpirono per sbaglio, e svennero entrambi. Quando si svegliarono, si trovavano nello stesso posto, ma era molto differente da come era prima. Allora sentirono una voce e videro un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli biondi avvicinarsi, lui gli disse: «Nel mio mondo domina l’immaginazione: ogni desiderio degli abitanti si materializza come per magia.  Non ci sono re, nessun presidente, tranne me e a proposito, non ci sono soldi nel mio mondo, tutto è gratis. Ma non ti è permesso avere più degli altri.  Nulla viene rubato, viene solo richiesto e condiviso. Nel mio mondo tutto è come vuoi tu, qui ogni persona si sente come a casa, questo è come un paese delle meraviglie!»

Giulia e Martin ascoltarono con entusiasmo la descrizione di questo mondo del ragazzo biondo. Poi quando finì, il ragazzo biondo disse a Giulia: «Sono felice che tu sia venuta a farmi visita.» Giulia rimase sorpresa e chiese il suo nome.

Il ragazzo disse: «Come non mi riconosci? Sono io, il tuo amico immaginario Treb, il tuo migliore amico, ricordi?» A quel punto Giulia capì che quando era svenuta aveva perso momentaneamente la memoria e subito dopo si ricordò del suo amico immaginario, che gli era stato sempre accanto, che sempre gli dava una mano. Lo abbracciò e gli chiese scusa per non averlo riconosciuto subito. Invece Martin stava lì a guardare e non capiva la situazione. Osservando questo, Giulia presentò Treb al suo nuovo amico Martin. Dopo aver fatto amicizia, Treb mostrò ai suoi amici il suo mondo pieno di magia e felicità. I ragazzini videro molte cose interessanti, tappeti volanti, fatine che volavano sopra di loro, alberi di zucchero filato, farfalline gommose, c'era anche una cascata di succo d'arancia. L'erba era all’ aroma di vaniglia. I fiori al gusto di panna. Gli abitanti facevano tutti parte dell’immaginazione di Giulia. Principesse e cavalieri, eroi e eroine, e molti altri personaggi che Giulia ha incontrato nelle favole. C'erano diversi animali mitici: la Fenice che portava il simbolo di risurrezione. I ragazzi videro anche Pegaso che volava sopra le loro teste. I Grifoni che giocavano a nascondino con i loro padroni. Gli unicorni che si rincorrevano. Treb continuò a descrivere gli abitanti del suo mondo, dicendo : «Ci sono anche animali normali, ma che nel tuo mondo non puoi vedere sulla strada o sugli alberi; sono animali della giungla o quelli che troviamo allo zoo.  Qui invece puoi incontrarli ovunque. Questi animali, che nella vita reale li considerate feroci, in questo mondo sono così buoni e carini che non farebbero del male a nessuno. Sono come dei cuccioli!»

Adesso siamo tornati al nostro punto di partenza. Sul tetto di una casa comparve una tigre. Questo essere vivente spaventava e affascinava al tempo stesso tutti gli abitanti del mondo magico. L'espressione della tigre emetteva il caratteristico ronzio, era rilassato e sereno, con gli occhi socchiusi, tutti erano certi che la tigre emettesse fusa di felicità e lo paragonavano a un piccolo gattino. La tigre iniziò a scendere le scale di emergenza, per arrivare dal suo padrone. Treb la chiamò e la accarezzo sulla testa. Giulia e Martin rimasero sorpresi della tigre domestica, che quasi sembrava un gatto. I nuovi ospiti del mondo magico erano molto impressionati e volevano esplorare di più questo mondo. Tutti e tre hanno visitato i luoghi più belli di questo posto, hanno cavalcato gli unicorni e volato con il pegaso e i grifoni, hanno giocato con la tigre e altri animali. Ma ad un tratto, incredibilmente, Giulia svenne di nuovo, battendo la testa mentre cavalcava un unicorno. Dopo un po' di tempo lei si alzò e si ritrovò a casa sua, dove una voce dolce gli parlava:

«Giulia, hai finito i compiti? Vieni a fare merenda!» era la sua mamma. A quel punto Giulia si rese conto che tutto ciò che aveva vissuto era in realtà un bellissimo sogno. Quando si alzò dalla sedia, era molto arrabbiata, perché tutto quello che aveva vissuto non era reale, ma all’ improvviso vide un casco verde come quello di Martin... Forse non era proprio un sogno, così Giulia, finita la merenda, uscì di casa con un impermeabile giallo e degli stivaloni, perché aveva paura che piovesse.

Mentre svoltò l'angolo incontrò Martin impaurito. 

«Che cosa hai fatto? Sei pallido!» chiese Giulia.

Martin rispose con un tono cauto: «Ho visto un fantasma». 

Giulia preoccupata e allo stesso tempo incuriosita chiese «Dove?!» 

«Dietro la pasticceria del signor Paolo.» Lei fece uno scatto più veloce possibile, arrivata allo svincolo si fermò, con il fiatone, e si affacciò e all'improvviso si trovò Treb davanti a lei in carne e ossa; Giulia sbalordita disse: «Ma che ci fai te qua?», Treb rispose: «Visto che tu sei venuta a trovarmi nel mio mondo, ora sono venuto io, così mi fai vedere il tuo». Così Treb e Giulia iniziarono a esplorare il mondo, iniziarono dalla pasticceria del signor Paolo. Giulia spiegò: «Fa dei dolci buonissimi, ma non è come nel tuo mondo che non si paga». Una volta preso il cornetto Treb fu sorpreso dall’amarena che uscì dal suo interno, così una volta finito Giulia decise di portarlo in piazza, ma per sua sorpresa incontrò sua madre che appena la vide le corse dietro per sgridarla per non aver finito i compiti; fu subito interrotta da Giulia che gli volle presentare il suo amico, ma una volta finita la frase la madre scoppiò a ridere. Giulia preoccupata le chiese: «Ma perché ridi?» Lei rispose: «Ma di che cosa stai parlando, non c'è nessuno!» «Ma come non lo vedi?» domandò Giulia. 

La mamma si preoccupò: «Ma sei diventata matta?!» Giulia corse verso casa delusa e piangendo. Il giorno dopo, triste, andò a scuola con il foglio in mano. La maestra appena lesse il tema fu sorpresa, gli mise subito 10 e Giulia disse: «L’ho fatto insieme a Treb!»

 
 


 

SCUOLA SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA (VIA DEI CARRARESI 3, ROMA)

CLASSE: II MEDIA

MARCO ALBERTONI, GABRIEL ATIENZA, GIULIA BAGLIVO GIADA D’ARTIBALE, VIOLA DI GIOVANNI, DANYLO NAYDA, ELISA NICOLI, CEDRIC VECINAL, ALEXIA WING
 

CONTEST LETTERARIO “I VOSTRI RACCONTI DEL TAVOLO”

IL MISTERO DEL MEDAGLIONE

Nel 1442 in una caverna senza fondo, c’era una creatura che assomigliava a un cane, camminava senza fretta finché vide qualcosa luccicare e fare strani rumori: era un medaglione speciale, lo indossò e si teletrasportò nel 2080. Trovò tutto diverso. Le verdi e odorose foreste erano state bruciate e la natura aveva lasciato il posto ad enormi e cupi edifici che non aveva mai visto prima. In fondo era un semplice cane, cosa poteva saperne del futuro? Incuriosito e spaventato iniziò a gironzolare intorno, meravigliato di quanto il mondo fosse diverso da come se lo sarebbe mai immaginato. Non sapeva di certo cosa lo avrebbe aspettato di lì a pochissimi secondi. All’improvviso infatti, a tutta velocità, sgommando sull’asfalto rovente, gli si accostò una macchina. La portiera si aprì e ne uscirono tre uomini dall’espressione minacciosa: erano tre viaggiatori temporali, inviati al suo inseguimento per impadronirsi del medaglione. Al suo interno infatti c’era un radar che permetteva la sua localizzazione in qualsiasi momento. Quello che però ancora non sapevano è che il cane era in realtà un mini dinosauro mutaforma, costretto a spacciarsi per un docile cagnolino per poter sopravvivere. Approfittando della sorpresa, la creatura scappò via più velocemente che poteva. Tuttavia durante la frenetica corsa, il medaglione si spezzò in due parti. C’era solo un posto dove poteva essere riparato e per fortuna era il medaglione stesso ad indicare la strada da percorrere. Tuttavia, lungo il cammino, i viaggiatori temporali, che non erano di certo restati con le mani in mano, avevano inserito due prove. Mentre stava camminando arrivò a Yothenaim, una piccola stradina buia e tetra, e trovò una trappola che fece uscire da un passaggio segreto un Crogluid, una creatura brutale e spaventosa. Doveva trovare assolutamente un modo per sconfiggerla, era troppo importante riparare il medaglione. La creatura scoprì che il punto debole del Crogluid era l’acqua. Vide un lago nelle vicinanze così ce lo spinse dentro e il mostro evaporò. La prima prova era stata superata e poteva proseguire il cammino. Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che improvvisamente sotto i suoi piedi si aprì una voragine che lo fece precipitare molto in basso, ai piedi di una maestosa montagna. Per scalarla doveva arrampicarsi su dei sassi, ma alcuni erano una trappola sputafuoco. La creatura provò a scalare la montagna ma era impossibile riuscire nell’impresa. All’improvviso il medaglione aprì un passaggio per entrarci dentro. Si ritrovò così in un negozio di oggetti magici dove incontrò un signore anziano. Scoprì che era il creatore del medaglione. Quello che nessuno avrebbe mai potuto prevedere era che solamente coloro che avessero indossato il medaglione con coraggio e tenacia avrebbero potuto incontrare il suo creatore. Una volta aggiustato, il signore decise di premiare la creatura regalandoglielo così che potesse tornare a far visita all’ anziano tutte le volte che avesse voluto. 

 
 


  
SCUOLA SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA (VIA DEI CARRARESI 3, ROMA)
CLASSE: I MEDIA  
STELLA CROTTI, ASHLEY DELA CRUZ, SHANELLE GARCIA, GIANLUCA IANNONE, VITTORIA MISSERI, TRISTAN SANGALANG, JAMIELYN SIBAYAN
 

CONTEST LETTERARIO “I VOSTRI RACCONTI DEL TAVOLO”

LA CUCCIOLA KIRA

C’erano una volta due regni in lotta fra loro per ottenere la supremazia sul pianeta Terra, il regno umano e quello dei draghi. La guerra durò molti anni e gli umani erano sul punto di sconfiggere il regno opposto al loro. Nel popolo dei draghi c'erano tre famiglie e ognuna possedeva un potere specifico: la più maestosa era quella della luce, la più popolare quella del ghiaccio e la più ardente quella del fuoco. Ciascuna delle tre famiglie depose un unico uovo in tre luoghi diversi; quello della luce precipitò in una caverna senza fondo, quello di fuoco nel cratere di un imponente vulcano e quello del ghiaccio negli abissi dell'oceano. Tuttavia l'uovo di luce si schiuse prematuramente emanando un forte bagliore nella fossa senza fondo. In quello stesso giorno un gruppetto di quattro ragazzi andò in escursione vicino alla fossa e ad un certo punto vide dal basso sprigionarsi una luce potentissima. I ragazzi, spaventati terribilmente, scapparono. Tutti tranne Priscilla che restò ferma vicino alla fossa per ispezionare al meglio il motivo di questa forte luce improvvisa. La ragazza curiosa di sapere cosa ci fosse lì sotto scivolò piano piano tra i bordi ripidi della fossa. Una volta raggiunto il punto più basso, vide una cucciola di drago che si nascondeva impaurita dietro un enorme guscio. Il suo manto era arricchito da scaglie lucenti, aveva dei dentini sottili e affilati e degli occhi grandi e profondi da cui traspariva la paura che provava verso la ragazza. Priscilla allora cercò di tranquillizzarla dandole delle leggere carezze con la mano sinistra. La cucciola, capendo che la ragazza non era una minaccia, decise di fidarsi di lei ed iniziò a saltellarle dietro seguendola. Appena uscite dalla caverna, situata all'interno della fossa, Priscilla nascose il drago dentro un velo che trovò impigliato tra le rocce. Una volta arrivati a casa corse nella sua stanza e, togliendole il velo, posò la cucciola a terra per cercare di capire quale fosse il suo elemento. La ragazza provò in tutti i modi a farle manifestare il suo potere ma la cucciola sembrò non voler rispondere a comando. Da quel giorno Priscilla trattò la cucciola come un animale domestico, solo perché le voleva troppo bene per trascurarla, come se loro due fossero unite da qualcosa di inspiegabile e profondo. Le diede anche un nome, Kira. Il giorno seguente, non appena si alzò dal letto, vide che Kira non era nella sua stanza, così andò nel panico finché non sentì dei forti rumori provenire dal suo cortile. Era Kira che mandava segnali di luce in cielo formando delle scritte. La ragazza alzò lo sguardo e vide che erano apparse delle frasi che le chiedevano di portare Kira ad un vulcano di nome Kensusci, situato negli abissi dell'oceano. Lei, una ragazza di 14 anni non poteva certo andare in quei luoghi da sola, erano troppo pericolosi! Kira con i fasci di luce le diceva che in quei luoghi c'erano le ultime uova di drago nel mondo. Priscilla doveva assolutamente trovare un modo per portare le uova da lei. La ragazza pensò che dato che l'uovo di Kira si era schiuso allora c’era la possibilità che anche le altre uova si sarebbero aperte. A quel punto Kira con tutte le sue forze sparò in cielo un raggio di luce fortissimo; aveva la forma di un drago luccicante che volava verso il vulcano e l'oceano. Passò un'ora e il drago di luce tornò con due draghetti sopra di lui. La ragazza felice fece correre Kira con i suoi simili. Dopo due settimane di allenamento i draghi erano pronti a volare verso le loro famiglie. Priscilla era triste e Kira voleva restare con lei ma la ragazza, capendo che era il momento di andare, disse addio a Kira stringendola forte al suo petto. La ragazza allora le diede il velo con il quale la avvolse quando, impaurita e indifesa, l’aveva trovata nella grotta. Kira subito dopo si sentì pronta per volare dalla sua famiglia. Da quel giorno Kira conserva gelosamente il velo che gli diede la ragazza.


 


 
Sara
 

C’era una volta, in una caverna senza fondo, una cucciola di drago che dormiva in un sonno profondo. Si chiamava Anna al padre questo nome piaceva perché lei era dolce come la panna. Riposava beatamente quando si svegliò improvvisamente. Sentì come uno sparo, suo padre le disse che era tornato l’ uomo avaro. La cucciola di drago, infastidita d aquesto suo ritorno, chiese al padre di bruciarlo in un forno. Ma il padre le disse: “siamo draghi per bene noi, se te ne vuoi proprio sbarazzare, devi chiedere consigli ai maghi”. Così la piccola volò fino al caminetto del mago Carletto. Il mago sorpreso le chiese: “Anna! Quanto tempo! Oggi sei venuta con tutto questo vento?”. Ho bisogno del tuo aiuto! L’uomo avaro non ha ancora ceduto! Non lo sopporto, vorrei fargli anche io in qualche modo un torto. Speravo che mi potessi aiutare visto che non hai niente da fare” disse Anna. Il mago ci pensò e gli venne un’ idea dopo un po’: “non ci serve la magia, ho ideato un’ infallibile strategia! È attratto dai soldi. Dobbiamo dirgli che in fondo alla grotta  di soldi c’è ne sono secchi colmi! Lui non sa che laa grotta non finirà. Ma talmente è grande la sua passione che non abbandonerà la sua missione!” Anna la trovò un’idea splendida. Risalì dal caminetto del mago Carletto, lo ringraziò e a casa ritornò. Comunicò l’ idea al padre. Il padre approvò e il piano Anna attuò. Convinse l’ uomo  avaro ad andare sul fondo della grotta e gli disse di stare attento a non prendere una botta. L’ uomo senza farselo ripetere due volte iniziò a correre senza neanche prendere qualcosa da bere. Anna, suo padre e la comunità dei draghi poterono da quel giorno in poi affidarsi alle idee dei maghi.


 


 
Roberta Bonati, 12 anni, classe II media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye

 
Estate sotto terra

Seduto sopra il melo, il ragazzino pensava. Si chiamava Ronald e aveva 12 anni. Era allampanato e aveva degli occhiali spessi e a specchio, rotondi, “come quelli di Harry Potter” commentava sua madre. Aveva i capelli rosso ruggine, ma a lui non piaceva usare l'aggettivo ”rosso”, preferiva che si dicesse “ramato”. Così nessuno lo avrebbe preso in giro chiamandolo ”Pel di carota”. Gli occhi erano di un banale verde-marrone. A Ronald piaceva leggere libri di azione, e aveva sempre la testa tra le nuvole. Forse era per questo che gli piacevano tanto le altezze. Era timido e veniva bullizzato da quasi tutti i suoi compagni, se non ignorato completamente.   

Ronald aspettava. Non sapeva bene chi o che cosa, ma aspettava. L’arrivo di un’avventura forse? Ad ogni modo, sarebbe dovuto scendere dal suo amato albero di lì a poco, visto che era quasi ora di cena. Infatti, dopo qualche minuto…

- Ro-oon! La cena è prontaaaa! - era suo padre.

 Il ragazzino scese con un sospiro dal melo. Oh, quanto odiava quel diminutivo, tratto dalla saga di Harry Potter come anche il suo nome intero. Non lo sentiva suo, come se lo avesse preso in prestito.

A tavola, suo padre lo interpellò:

- E così domani vai alla Baita con il tuo amichetto…

- Sì

- Come si chiama poi? Un nome buffo…

- Trille

- Ah ecco, come la fatina…

- Non TRILLIE o TRILLY, si chiama Trille

- E cosa ci andate a fare, alla Baita?

- Un giro, in bici

-  State attenti, mi raccomando…

A quel punto intervenne la madre, ridendo:

- Ma lascialo respirare, per l’amor del Cielo! Hanno dodici anni, sanno cavarsela!

- Sarà… ma se torna a casa con la testa rotta, io non lo porto all’ospedale.

E così la discussione finì.

Il giorno dopo, puntuale come sempre, Trille si presentò davanti al cancello della casa del suo amico. Trille, un ragazzo abbronzato, biondo e con gli occhi blu, era l’unico amico di Ronald e l’idolo delle ragazze di tutto il paesino. Era alto e muscoloso e aveva sempre caldo (forse perché i suoi erano Norvegesi?). Era sportivo e, a dispetto degli stereotipi, anche il migliore della classe. Non se ne vantava, però, ed era sempre pronto a difendere e ad aiutare gli altri.

- Ciao Ronny! - Esclamò tutto contento quando vide l’amico

- Ciao! Ehy, forte la nuova bici che ti hanno regalato!

Si batterono il cinque e Ronald stava per montare in sella quando, dalla veranda, uscì una bambina di cinque o sei anni, con i capelli di fiamma, che si aggrappò alla gamba del fratello iniziando a strattonarla quasi volesse staccarla:

- Voglio venire pure io! - Strillava - Pure io!

Ronny, imbarazzato, guardò l’amico che gli rispose con un cenno della mano, quasi a voler dire “Lascia fare a me”. E lo fece. Prese in braccio la bambina urlante e la tenne sospesa per le ascelle, guardandola negli occhi. Lei smise di scalciare e il suo volto si adombrò.

- Come ti chiami?

- Ariel

- Non ci credo

- Ti dico di sì

- Vabbè, se vuoi essere chiamata Ariel, ti chiamerò così. Senti, tu non puoi venire con noi oggi, perché tuo fratello e io partiamo per un’avventura. Dobbiamo scoprire se lassù - e indicò la vetta di una montagna - se lassù ci si può abitare o no. Ed è molto pericoloso. Per andarci hanno fatto un concorso di coraggio, e io e tuo fratello abbiamo vinto. Infrangeremmo le regole se venissi anche tu, capito?

Lei annuì, controvoglia.

- Bene, adesso ti metto giù e tu vai a giocare con i tuoi peluches, va bene?

Ronny lo guardava ammirato e un po’ sconcertato: non aveva mai sentito l’amico mentire così. Regolato il problema, i due partirono. Ci misero ore ad arrivare alla baita, per cui ci rimasero male quando, sulla loro roccia del  pic-nic trovarono già qualcuno .

Una ragazzina della loro età con i capelli corti e scuri, vestita con un paio di pantaloncini al ginocchio e una T-shirt blu e rossa, voltava loro le spalle, scrutando l’orizzonte. I ragazzi si avvicinarono.

- Possiamo? - domandò Trille.

Era buffo chiedere se si potevano sedere su una roccia che consideravano come la loro e ben presto si ritrovarono tutti e due a rotolarsi per terra dalle risate. La ragazzina si voltò, stupita, come se li notasse per la prima volta, rivelando un paio di occhi scuri, profondi ed enormi. Contagiata dalle risate, si ritrovò a rotolare anche lei nel prato vicino ai ragazzi. Quando si furono un po’ calmati, si sedettero tutti sulla roccia a gustarsi i panini che si erano portati e a chiacchierare.

- Ma tu chi sei? - Chiese Trille alla ragazzina - Non ti ho mai vista da queste parti.

- Vengo da Londra, ma prima ancora abitavo nel nord Italia. Sono nata lì, e anche i miei genitori. Al momento vivo con la maestra, che si è offerta di ospitarmi finché i miei non compreranno una casa. Sapete, abbiamo già venduto quella di Londra e i miei pensavano di comperare questa. E indicò La Baita.

I ragazzi sgranarono gli occhi.

- Ma come ti chiami? - chiesero all’unisono i tre - E giù di nuovo a ridere.

- Mi chiamo Rona… Ronny.

- E io Trille.

Le labbra della ragazzina si strinsero. I ragazzi capirono che forse avevano toccato il tasto sbagliato.

- Chiamatemi Roby, disse infine lei.

I ragazzi non fecero commenti: come Ronny si era presentato con il suo diminutivo, anche lei poteva benissimo farlo. Ci fu un attimo di silenzio, poi Roby cominciò a raccontare:

- I miei genitori volevano chiamarmi con un nome che avesse come diminutivo Roby. Roberta era il più probabile. Ma mia nonna voleva chiamarmi Berta, mio nonno Betta e via così. Sapete, io di cognome ni chiamo Bertolini… Alla fine, da Roberta si è passati a… promettete di non ridere!  I ragazzi giurarono. Bene, si è passati a Robertina, concluse con un sospiro Roby.

Ronny e Trille  ebbero non poca difficoltà a rispettare il giuramento: Robertina era un nome che non stava proprio bene alla loro nuova amica, figuriamoci Robertina Bertolini. Poi si indignarono: cosa si erano impicciati a fare, i nonni di Roby? E poi, che razza di nome era, Robertina Bertolini? Non avevano saputo trovare niente di meglio?

- Ma cos’è che fissavi, quando siamo arrivati? - Chiese Ronny per togliere la tensione.

- Niente di speciale, solo pensavo che là - e indicò una roccia - che là ci fosse l’ingresso di una grotta sotterranea.

- Be’, a guardare meglio… si potrebbe pensare… andiamo a vedere!

Si alzarono tutti e, correndo, si accalcarono intorno alla roccia. Sotto, c’era davvero un’aperture abbastanza grande perché un ragazzino ci potesse sgusciare dentro .

- Caspita! C’è una grotta lì sotto!

- Prendo la torcia per ispezionare il buco!

Ma la torcia non c’era.

- Devo averla dimenticata a casa!

- Pazienza, tanto non avremmo avuto tempo di esplorarla  a dovere: guardate, il sole sta calando.

Al  che i ragazzi si ricordarono che dovevano essere a casa per l’ora di cena. Si affrettarono quindi a raccogliere le loro cose e a scendere, con Ronny e Trille che portavano le bici a mano.

Lungo il tragitto escogitarono un piano:

- Sentite, chiediamo ai nostri genitori e alla maestra se possiamo fare una gita di due o tre settimane vicino alla Baita; ci portiamo le tende ed esploriamo le grotta. Tanto, ormai siamo grandi, e una vacanza da soli non ci fa male…

Tutti approvarono e approfittarono del resto della camminata per conoscersi meglio. Venne fuori che Roby era figlia unica e che però aveva un gatto, Mao. Ronny raccontò che lui aveva due fratelli maggiori, una sorella maggiore e cinque fratellini minori: due femmine e tre maschi.

- E come si chiamano? - Volle sapere Roby

- Lily, Marcus e Philip che hanno 20, 17 e 15 anni, snocciolò Ronald, poi ci sono io,  Ginevra e  Julian, Anastasia e  George e Dick, di 12, 9, 6 e 4 anni. I gemellini sono pestiferi.

Poi fu il turno di Trille che raccontò di aver avuto un fratello maggiore, André, che però era morto in guerra e del quale conservava un vaghissimo ricordo.

Quella sera, a cena, Ronald ottenne a  fatica il permesso di fare la gita, ma alla fine riuscì a convincere i suoi a lasciarlo andare.

Per Trille fu molto più semplice: gli bastò pronunciare la parola “campeggio” che subito i suoi si dilungarono  in ricordi di scampagnate  e gli accordarono il permesso come se fosse la cosa più naturale del mondo.      

Così l’indomani mattina, si trovarono tutti e tre davanti all’inizio del sentiero che portava alla Baita, con Ronny che quasi era schiacciato dall’enorme zaino gonfio.

- Mio padre ha preparato da mangiare per un reggimento, sbuffò, e poi ho anche coperte e une tenda enorme completa di materassini gonfiabili e fornelletto a gas… per non parlare delle bibite e dei fiammiferi, le batterie della torcia e lo spazzolino da denti…
- Vieni Roby, andiamo a casa e lasciamo lì gli zaini: porta tutto Ronny, rise Trille.
- IO non ho tutta quella roba, solo dei panini che basteranno come massimo per una settimana, una torcia e una coperta.

- Idem

- Ragazzi, potete prendervi qualcosa dal mio zaino, se volete…

Tutti risero e alla fine si suddivisero il peso dello zaino di Ronny, poi si incamminarono.

Lungo il tragitto, i ragazzi ridevano e scherzavano euforici. Dopo tutti i libri di avventure che avevano letto, ecco finalmente che ne capitava una anche a loro.

Arrivati alla Baita, Trille propose di andare subito nella grotta, ma gli altri due gli fecero notare che non era il caso di scendere laggiù nella notte e senza aver mangiato niente. Così decisero di piantare la tenda e di rifocillarsi prima di coricarsi ed accumulare energie per l’esplorazione del giorno successivo.

- Però non so voi, ma a me non piace tanto l’idea di accamparmi vicino a una casa… è come dormire in un sacco a pelo nella stanza dove c’è un letto… - osservò Roby.

- Hai ragione, concordò Ronny, cerchiamo una radura non troppo lontana da qui.

Così i ragazzi lasciarono il sentiero per addentrarsi nel bosco. Dopo pochi minuti di cammino, si imbatterono nel paradiso: il bosco finiva all’improvviso in uno spiazzo di erba morbida, verde e profumata, punteggiata da rocce bianche e chiazze d’edera. Nel mezzo, scintillante e limpido, scorreva un torrente dall’argine di pietra che si allargava in un punto ed era  contornato da una striscia di sabbia da un lato e da scogli bianchi dall’altro. Sembrava abbastanza profondo per farci il bagno. Accanto al ruscello, sull’altra riva, cresceva un arbusto che si sporgeva sull’acqua creando una grotta verde sulla superficie gorgogliante del fiumiciattolo. Come in trance, i ragazzi posarono gli zaini e si avvicinarono al nastro argentato e puro.

- Non so voi, ma io resto qui…

Poi si riscossero: quel posto era fantastico, ma c’era del lavoro da fare. In quattro e quattr’otto, Roby montò la tenda che Trille non era riuscito neanche ad aprire, Ronny raccolse delle pietre e dei legnetti per fare un falò e Trille estrasse dagli zaini le altre cose utili e necessarie. Poi si prepararono i letti con dell’edera mettendo sopra una coperta sottile di protezione e delle coperte più spesse per coprirsi. Inoltre montarono il tavolino e le sedie del papà di Ronny, ma lasciarono nello zaino la cucina portatile completa di forno e frigorifero.

Si sedettero infine stanchi e soddisfatti intorno al fuoco e aprirono le scatole e i sacchetti contenenti il cibo.

- Mmmmh, panini e rouleaux al formaggio, al prosciutto e al tonno!

- Torta salata alla carne, crostata al formaggio, sfoglia all’uovo e pancetta?! Ma quante persone pensano che debbano  mangiare, i tuoi?

- Ve l’ho detto che hanno preparato da mangiare per un reggimento… sarà che sono abituati a sfamare tante persone…

- Cavoli! C’è anche un’insalata di riso, della pasta fredda e dei peperoni ripieni!

- E degli hamburger, con salsa piccante e salsa barbecue

- E piadine, tacos e pizza, focacce e pasta al ragù!

- Cosa attacchiamo per primo?

Alla fine decisero di mangiare la pasta al ragù con una mela per dessert. Terminato il pasto, si sdraiarono sotto le stelle, sazi. Poi entrarono nella tenda e si addormentarono.

L’indomani mattina, alle cinque in punto, tutti i ragazzi si svegliarono. Visto che nessuno riusciva a riaddormentarsi, si alzarono e fecero il bagno nel torrente. Si schizzarono e si divertirono molto, ma poi dovettero uscire dall’acqua perché avevano freddo. Fecero colazione con delle brioches al cioccolato della maestra e una cioccolata calda fatta sul fuoco e poi decisero che era il momento di scendere nella grotta.

- Ci servirà una corda

- Anche due

- E del cibo

- Dell’acqua

- E anche un paio di torce

- È tutto pronto? Bene, andiamo!

E si avviarono verso la grotta. Arrivati all’apertura, Trille volle scendere per primo, ma Roby gli strappò la corda di mano dicendo che era stata una sua scoperta e che quindi doveva scendere prima.

- È tutto buio! Lanciatemi giù una torcia accesa… Caspita! È proprio una grotta! Venite!

-Ecco!

- Wow!!

E l’eco amplificò l’esclamazione di Ronny in modo sinistro.

Il ragazzino rabbrividì. La grotta continuava a destra, mentre a sinistra c’era una parete di terra.  

Chiunque avesse scavato quella grotta, doveva averlo fatto per un motivo preciso. Dovevano scoprirlo!

- Forse è un passaggio segreto!

- O forse è il covo di qualche brigante!

- E se trovassimo dell’oro?

- Sarebbe fantastico!

- È già fantastico!

- Dai, andiamo!

E si incamminarono. Di tanto in tanto c’erano dei bivi e allora andavano sempre a destra per potersi ricordare da che parte andare al ritorno.

Ma dopo ore di cammino, quando avevano già mangiato tutte le provviste e il loro entusiasmo era smorzato, i ragazzi decisero che non era il caso di continuare;

- Torniamo alla tenda, vi prego! - Ansimava Ronny da più di un’ora. Questa volta, però, gli altri due annuirono, stanchi.

- Che delusione, però!

- Già, si direbbe che sia una grotta senza fondo…

- Torniamo

- Sì…

E così si voltarono e proseguirono nel senso inverso.

- Ormai saranno le dieci di sera, sono stanco e ho fame, piagnucolava Ronny.

- E piantala!

Quando aveva fame, Trille poteva diventare aggressivo.

- Piantala tu!

Non litigate, non avete più 5 anni! Sbottò Roby, che era stata zitta per tutto quel tempo.

Anche lei era stanca e affamata, ed era anche molto seccata: aveva scoperto una grotta proprio inutile! Era anche preoccupata: e se le torce avessero smesso di funzionare? E se avessero sbagliato strada? Una marea di domande una più angosciante delle altre le si affollavano in testa. Avrebbe tanto voluto dare sfogo alle sue ansie, ma non le sembrava il caso: c’erano già i ragazzi che facevano i pappamolla, ci voleva pur qualcuno che tenesse in mano la situazione e che avesse un po’ di senno! Però le davano proprio sui nervi, i due piagnucoloni!  

Ma poi tutti iniziarono a sentirsi meglio: riconoscevano le pareti, meno umide e con più crepe,  Roby affermò perfino di aver riconosciuto un buco a forma di banana, cosa che li fece ridere tutti. Rincuorati, i ragazzi passarono l’ultimo bivio correndo. Tutt’a un tratto, Trille si arrestò:

- Stoop! Qui c’è la parete! Il buco dovrebbe essere sopra di noi!

- Cavoli! Fa talmente buio che non si vene neppure il cielo!

- Arrampichiamoci su!

- Ma dov’è la corda? Non l’avevamo lasciata appesa?

In effetti la corda che i ragazzi avevano usato per calarsi nella grotta era sparita…

- Adesso lancio la corda che  non abbiamo ancora usato…

- Aspetta, usa un rampino…

- Hai pure i rampini?!

Beh, almeno tornano utili…

Roby lanciò il rampino, ma questo cozzò contro qualcosa di duro e rimbalzò giù.

- Qualcuno ha chiuso l’entrata della grotta con dei massi!

- Credi che siano dei banditi?

Ronny era terrorizzato. Perché l’ingresso era chiuso? Chi lo aveva chiuso? Certo qualcuno che sapeva che loro erano giù e che li voleva tener prigionieri. Oppure il contrario. Poteva benissimo essere stato un turista che aveva chiuso l’entrata per paura che qualcuno ci cadesse dentro…  I due ragazzi avevano ricominciato a litigare. Roby pensò in fretta.

- Si potrebbe… esordì - I ragazzi si zittirono a metà di un insulto - Si potrebbe cercare di aggirare la pietra…

- Impossibile!

- E come?

- Ascoltate: la parete è di roccia, e noi sappiamo che la pietra che ci sta quasi sopra è larga più o meno un metro, giusto?

- Emmh…

- Se te ne sei accorta tu…

- Siete insopportabili, a volte! Dunque, calcolando che adesso siamo più o meno a tre metri sotto terra e che se scaviamo quasi a metà della roccia, dobbiamo calcolare che dobbiamo scavare di 50 cm a destra e 3 m in alto. Quindi, facendo un rapido calcolo… - Qui Roby si fermò a pensare - quindi dobbiamo scavare un passaggio di 35°! - Esclamò infine. Poi, dando un’occhiata agli amici disse:  - C’è qualcosa che non va?

- No, è solo che pensavo che se mai verrai a scuola con noi, Trille avrà una degna avversaria…

- Sciocchi! Pensate a lavorare!

- Noi?!

- Beh, sì, io sono la mente e voi le braccia, no?

- Ah ah ah , diverteeente.

E i tre si misero al lavoro. I calcoli di Roby erano giusti. Se avessero infatti scavato una galleria meno in pendenza, avrebbero finito dopo ore. Invece, scavando un passaggio ripidissimo, i tre finirono in quarantacinque minuti. Che fatica però!

A mano a mano che si approssimavano alla superficie, dei rumori si avvicinavano, fino a diventare delle voci sommesse, poi sempre più chiare. Erano voci d’uomini, probabilmente due, che sembrava bivaccassero intorno a un fuoco nelle vicinane. I tre riuscivano a sentirne il crepitio.

- Quanto manca, genia? - Domandò Ronny col fiatone.

- A occhio e croce tre centimetri, rispose lei

- Ottimo!

- Shhht! Ascoltiamo cosa dicono!

Dall’altro lato della crosta di terra che li separava dalla superficie, le voci si sentivano ormai parola per parola.

- Ehi John! Passami il vino!

- No Tom, finiresti per ubriacarti!

- E dai, cosa siamo venuti qui a fare, divertiamoci!

- No! Sono io il capo, ricordi? Sono io che ho scoperto la mappa!

I ragazzi sussultarono: una mappa, proprio come in un romanzo!

- Conoscete qualche John o Tom? Domandò Roby.

- No, io conosco tutti in paese, ma c’è solo un nostro compagno di classe che si chiama Tom, che non beve e che ha la voce stridula - rispose Trillle.

Era preoccupato: tempo prima, aveva sentito nominare una mappa che indicava dove fosse nascosto il tesoro del milionario Philip Frederic Thomas Winston, morto anni prima lasciando un’eredità immensa a chi l’avrebbe trovata. Un vecchio squinternato, del quale non era certa neppure l’esistenza. Eppure i due avevano parlato di mappe. Che fosse quella che tutti credevano una leggenda? Trille lesse nello sguardo di Ronny la stessa inquietudine, e decise che era il caso di condividerla con Roby, casomai lei fosse stata al corrente di un qualche pezzo di una qualche storia per completare l’enigma. 

- Roby…

- Eh?

E Trille raccontò le sue paure. Roby ci pensò su e poi disse:

- Sentite, io non so niente di questa storia, ma è evidente che stiamo per finire in un’avventura. Ora sta a noi decidere: o aspettiamo che quei due si addormentino e poi frughiamo tra le loro cose, o saltiamo fuori sfruttando l’effetto a sorpresa, li aggrediamo e ci facciamo dire tutto. Personalmente non credo che la seconda idea sia la migliore: non sappiamo se i tipi sono armati, ma di sicuro sono adulti e potrebbero essere pure adulti massicci, quindi io aspetterei.

- Ottima idea - approvò Ronny, che amava molto di più le avventure vissute in terza persona, piuttosto che quelle che lo riguardavano direttamente. Quanto avrebbe voluto essere rimasto nella sua affollatissima casa, al sicuro e al caldo!

E così aspettarono. Quando alla fine le voci furono sostituite da un russare sonoro e potente, i ragazzi uscirono all’aria aperta, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della notte.

- Forza!  Sussurrò  Roby, perquisiamo i loro bagagli, ma fate silenzio!

- Sì…

Gli uomini erano proprio brutti: uno dei due, il più grosso, aveva barba e capelli ispidi e neri, un nasone arrossato e occhietti porcini e cisposi. Puzzava. L’altro era magro e secco, con un sacco di brufoli pieni di pus, un naso arcuato e appuntito e dei capelli unti e grigi, ma che un tempo dovevano essere stati biondi. I ragazzi storsero il naso, poi si misero al lavoro. Perquisirono ogni tasca degli zaini, gli involucri e persino le calze che indossavano i due omaccioni. Ma niente. Per cui si ritirarono nella tenda, stanchi.

- Per fortuna non si sono svegliati!

- E per fortuna la tenda è ben nascosta dalla vegetazione!

- Di’ un po’, ma tu usi sempre termini scientifici?

- La tenda è mimetica…

- Ma è enorme!

Buonanotte…

E i tre dormirono fino al giorno dopo.

Quanto ai due ceffi, il loro risveglio fu causato da una pioggerellina fitta fitta, insistente.

- Mannaggia a te, che non hai voluto portare una tenda!

- Senti chi parla! La baita è aperta, ma il Signor-non-voglio-attirare-l’attenzione non ha voluto entrarci! Certo, perché nel giardino della baita, di fianco al sentiero, l’attenzione non si attira!

- Se tu avessi portato una tenda!

- Cosa! Adesso la colpa è mia?!

E i due,  pur di non dare ragione all’altro, restarono lì a bagnarsi.

- Almeno controlla che la mappa sia al sicuro!

- Ok, ma il vecchio Winston sa come fare le cose: la pergamena è stata cerata dopo che l’inchiostro si era asciugato, a me mi sa che è al sicuro dalla pioggia.

- Sgrammaticato! Non si dice “a me mi”, ma però per questa volta ti perdono. Ora esegui l’ordine, quante volte devo ricordarti che sono io il capo?!

Tom frugò nelle coperte nelle quali dormivano e tra le quali i ragazzi non avevano osato guardare.

- Ehi John, c’hai tu la mappa?

- Ma cosa ti salta in mente? Certo che no!

- Che strano! Eppure non la trovo…

- Idiota! Adesso la trovo io!

I due uomini si misero a frugare tra le coperte fradice, ma non trovarono niente. iniziavano a inquietarsi.

- Qualcuno è stato qui! Te l’avevo detto di non ubriacarti, vecchio sudicione, ma te niente, e adesso guarda che disastro! Non ti sei svegliato nemmeno quando ti hanno alzato la testa per prendere la mappa!

- Se tu eri così sobrio, perché non ti sei svegliato, te?

- Non si dice “te”, si dice “tu”!

- Anche te l’hai detto!

- Silenzio! Sto pensando! - E John si mise a riflettere:

-  Se della gente è stata qui, deve averlo fatto dopo che ci siamo addormentati, ma prima che iniziasse a piovere, perché sennò verremmo le orme.

- Vedremmo…

- Zitto! Quindi la gente è stata qui tra l’una e le sei di mattina… Ma noi ci siamo addormentati profondamente alle due, quindi sono venti tra le due e le cinque e mezza, perché noi ci siamo svegliati alle sei, quando già il ladro doveva essere andato via da un pezzo…

- Però sembravi scemo, invece…

- Cretino! Non vedi che ormai il ladro sarà lontano! Ed è tutta colpa tua!

Intanto i ragazzi, svegliati dalle grida precedenti, avevano origliato tutto.

- Quindi la mappa esiste davvero!

- E quei due ceffi l’hanno trovata!

- E adesso qualcuno l’ha presa!

- Aspettate! Ronny guardava i suoi amici con gli occhi che brillavano. Ieri notte, quando ho alzato la gamba di quel tipo, Tom, ho trovato tra le coperte una busta. Soprappensiero, l’ho presa. E se contenesse la mappa o un indizio?

- Perché non l’hai detto subito!? Voi maschi non vi capirò mai!

- Dai, aprila!

Ronny prese una busta, normalissima se non  per il fatto che non c’era né mittente né francobollo. Ronny l’aprì con le mani che gli tremavano. Una pergamena cadde dalla busta. Evviva! L’avevano trovata! Sempre con mani tremanti, Ronny raccolse il foglio cerato e lo aprì. Sopra c’erano dei tratti di inchiostro nero e uno rosso, che segnava probabilmente il percorso da seguire. Ronny stava per ripiegarla, sconsolato: non ci capiva niente.

- Aspetta!  - Urlò Roby - Quella sembra la mappa della grotta!

- È vero! Hai ragione!

- Caspita, che avventura!

- Guardate: in questo quadrato in alto a destra ci sono le indicazioni per trovare l’entrata: questo rettangolo  è la baita, questo cerchio è la roccia del pic-nic e quel triangolo è la roccia che nasconde il buco dell’entrata! È cerchiato in rosso!

- Wow! Con questa potremmo orientarci benissimo nel cunicolo!

- Guarda! Alla fine del tratto rosso la caverna si allarga e c’è una X!

- Già, è vero!

Estasiati, i ragazzi non si erano accorti che nella busta era rimasto un foglio. Quando se ne accorsero, capirono che era una lettera. Trille la lesse ad alta voce:

Cari Tom e John,

spero che voi stiate bene. Sarete contenti di sapere che sono riuscita a trovare la mappa nella casa di un antiquariato, a Cardiff. Purtroppo non posso venire con voi, perché mi sono presa in casa una ragazzina londinese, una nuova alunna ( Ronny e  Trille  guardarono Roby, allarmati. Lei era impallidita.) Spero che la mappa vi tornerà utile.

Vostra,

Hanna

- Non è possibile! La maestra, la signorina Lockmeen, non farebbe mai una cosa del genere.

- Ecco perché non voleva mandarmi a fare questa gita!

- Ma come facciamo ad andare nella grotta e a trovare il tesoro?

- Non lo so, per ora restiamo qui nascosti.

- Shut! Arriva qualcuno!

In effetti, dopo poco delle voci echeggiarono nella radura.

- Ti dico che qui saremo più al riparo!

- Io dico di no!

- Zitto! Là c’è una tenda!

- Pfff! Campeggiatori!

- Entriamo a chiedere un caffè?

- Nascondi la mappa, svelto! Intimò Roby dentro una tenda.

Ma Ronny non fece in tempo, perché due secondi dopo, la zip della tenda si abbassava e la testa barbuta di John si affacciò.

- Possiamo? Domandò con falso garbo. Poi la sua faccia cambiò alla vista della pergamena. La pelle divenne paonazza, il naso ancora più grande e la bocca si aprì per lasciare uscire una serie di parolacce e insulti:

- E così siete stati voi! Luridi mocciosi, ve la farò pagare! E adesso ridateci la mappa!

- Mai! - Urlò di rimando Roby, coraggiosamente.

- Ah, è così eh! Bene, allora tenetevela pure, la mappa, ma portateci al tesoro! Così ci risparmieremo la fatica di decifrarla!

- No!

- Ah, sei una ragazzina testarda, eh? I tuoi amici però non sono così coraggiosi… o stupidi.

Infatti Ronny, e persino Trille, stavano tremando dalla paura.

- Vediamo come reagisci di fronte a questa! - E il tipo estrasse un pistola dalla tasca interna del suo impermeabile. Roby impallidì.

- Va bene, vi guideremo nei sotterranei, tanto noi li abbiamo già visitati, ma il tesoro è ancora lì, giuro!

- Lo spero bene, perché se ci state giocando un brutto tiro…

La mente di Roby lavorava in fretta. Se solo ci fosse stato il modo di bloccare quei tipi nei sotterranei… per cercare un’idea, si guardò nervosamente intorno. Lo sguardo le cadde sul tratto rosso della mappa. Bisognava svoltare sempre a sinistra, ma il giro si allungava anche se si faceva destra-sinistra… forse... Era una follia, ma bisognava tentare. Con la scusa di chinarsi ad allacciarsi la scarpa, la ragazzina sussurrò ai ragazzi, ancora pietrificati dalla paura:

- Se faccio o dico cose strane, non reagite. Ho un piano per incastrare quei due e anche la maestra. Mettetevi in tasca dei panini e dell’acqua, ne avremo bisogno.

Trille annuì, poi si riscosse un poco. Ronny era sempre immobile.

- Ehi, Pel di carota, datti una mossa! - Lo schernì Tom.

L’insulto servì a far rinsavire Ronny, che arrossì fino alle orecchie e cominciò a prepararsi.

Quando scesero nei sotterranei, l’ottimismo di Trille era migliorato: aveva piena fiducia in Roby, la quale, invece, era sempre meno sicura: c’erano talmente tante cose che potevano andare male!

Erano ormai cinque ore che camminavano, Roby aveva proibito ai ragazzi di mangiare e permesso loro di bere un solo sorso di acqua. I due uomini erano stanchi, imprecavano, ma non avevano il coraggio di fare del male alla loro guida: avevano il terrore di restare intrappolati lì dentro.

Dopo sei ore e mezzo che camminavano, Ronny era sull'orlo di una crisi nervosa, l’ottimismo di Trille si era smorzato e i due uomini imprecavano sempre di più. Solo Roby sembrava calma, riposata, quasi allegra. Il suo piano stava funzionando alla perfezione! Dopo un’altra mezz’oretta, il cunicolo sfociava nella caverna segnata sulla mappa. Era una caverna scavata nella roccia, normalissima. I due uomini crollarono. Avevano dormito pochissimo e avevano camminato troppo, non avevano mangiato niente e avevano molta sete.

Crollarono esausti per terra, ordinando ai ragazzi di dissotterrare il tesoro.

- Bene! Esclamò  Roby, adesso mangiamo e torniamo indietro, lasciando qua questi ceffi! Scommetto che non si muoveranno da qui!

- Tu sei matta! Geniale, ma matta!

I ragazzi trangugiarono i panini, bevvero l’acqua e in tre ore erano di nuovo in superficie. Bloccarono l’entrata con dei massi e poi filarono giù in paese, intanto che Roby spiegava il resto del piano agli amici.

Arrivati al villaggio, i tre filarono dritti dalla maestra. Entrarono sbattendo la porta e si gettarono, in lacrime  false, contro la maestra.

- Maestra, maestra! È successa una cosa orribile! - Singhiozzò Roby.

- Ditemi bambini, cosa è successo!

- C’era una catasta di pietre…e poi è caduta…sul buco… e poi delle voci da sotto terra…

- Due uomini Urlavano di lasciarli uscire...

- Noi abbiamo provato… ma le pietre non si spostavano… e mamma e papà non ci credono.

- Spiegatevi meglio! Non capisco niente! - esclamò la maestra.

E così Roby raccontò che dei massi erano caduti sopra un buco, nel quale erano probabilmente scesi degli uomini, che avevano gridato per essere liberati, ma che i massi non si spostavano e che i genitori di Trille e Ronny non credevano alla storia.

Così convinsero la maestra ad andare con loro alla Baita. Arrivati lassù, Roby lasciò cadere un foglietto con le scritte “svoltare sempre a sinistra”. Poi Ronny lo trovò accidentalmente.

-  Guardi, signora maestra! Può essere un pezzo di annotazione degli uomini! Magari il buco da su un passaggio… potrebbe seguire anche lei queste indicazioni! - Esclamò il ragazzino con il tono più innocente che riuscì a trovare.

- Bravo Ronald! Seguirò il tuo consiglio, e chissà che io non riesca a trovare quegli idioti di Joh… voglio dire, quei gentiluomini imprigionati là sotto!

I ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa.

- Possiamo venire anche noi?

- No, meglio di no. Potrebbe essere pericoloso.

I ragazzi si fecero l’occhiolino. La maestra scese aggrappata alla corda con la torcia tra i denti, cosa che fece quasi soffocare Ronny e Trille, nel loro tentativo di celare le risate.

Quando la luce della torcia fu scomparsa dalla loro vista, i ragazzi rimisero a posto le pietre e poi si sorrisero.

- Bene! La nostra avventura è quasi finita! Anche se la maestra sa come tornare indietro, non penso che ci metteranno meno di tre ore. Forza, alla polizia!

Quando tre ragazzini senza fiato irruppero nell’ingresso della stazione di polizia, il carabiniere alla reception fu stupito di capire che la richiesta di quei ragazzi era vedere il commissario. Ma la ragazza, che sembrava il capo, era talmente sicura di sé che il poliziotto li accompagnò nello studio del commissario Smith.

Roby prese la parola, salutò rispettosamente e si mise a raccontare. Mostrò le prove e quando arrivò alla parte dell’imbroglio alla maestra, Smith rise. Era proprio un tipo simpatico. Aveva ascoltato con pazienza e attenzione, e si era stupito dell’abilità dei ragazzi. Alla fine della storia, esaminate la lettera della signorina Lockmeen e la mappa che sembrava proprio un pezzo di antiquariato, il commissario pensò che valesse la pena di credere ai ragazzini: se fosse stato uno scherzo, avrebbe saputo lui come sistemarli, i bambini!

Ma non era uno scherzo. La polizia guidata dal commissario in persona salì sulla montagna, e vide subito gli oggetti di Tom e John. Poi i ragazzi mostrarono loro il buco, e insieme scesero nel cunicolo. Roby faceva strada, mentre Trille chiacchierava allegramente con un poliziotto amico di suo padre e Ronny mangiava un panini offertigli da una poliziotta bionda. Incontrarono i malviventi a metà strada. Come aveva previsto Roby, i tre erano stati colti con le mani nel sacco, e non provarono nemmeno a inventare scuse. Hanna si limitò a lanciare un’occhiataccia ai suoi ex allievi mentre il commissario le metteva le manette.

- E cosa ne facciamo del tesoro? - Domandò un poliziotto al suo capo. Il commissario  sorrise ai ragazzi e poi rispose: - Credo che questi ragazzi lo meritino più di chiunque altro, tanto più che sono stati loro a scoprirlo!

E così i ragazzi dissotterrarono l’eredità, se la divisero equamente e diventarono gli idoli di tutti i loro compagni.

La loro vita cambiò: i genitori di Ronny, apprese le sue avventure, diventarono meno assillanti e protettivi, mentre quelli di Trille, spaventati e ammirati, decisero che d’ora in avanti sarebbero stati un po’ più attenti al loro unico figlio.  I genitori di Roby, d’altro canto, acquistarono la Baita e diventarono i maestri della scuola del paese. Ma loro non rubarono mai delle mappe importanti.
 
 


 
 

 


 

RICCARDO PELINI, 12 ANNI
I.C.S. ACQUASPARTA - SCUOLA SECONDARIA I GRADO GALILEO GALILEI
 

INVENTA UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.  Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… 

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”  Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: 

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Poi, come in una giungla, un ruggito. Forse era un leone. Sopra un albero, una scimmietta saltellava su una grande foglia, facendo cadere le goccioline di rugiada che vi erano sopra. Poi, scattante come non mai, un’antilope rincorsa da un feroce lupo.

Giulia lasciò che la penna perdesse lo scontro contro la gravità. Mentre cadeva a terra, lei capiva che Treb aveva ragione. La fantasia, per quanto straordinaria, non è altro che un modo diverso di sognare. Sognare significa guardare il mondo da un punto di vista diverso e più ampio.

Perciò lasciò scrivere la storia al gatto, alla signora, all’urlo ormai scomparso, al ragazzo preda e al cane. Quando avranno finito, Giulia non farà altro che filtrare il racconto che nascerà. Lo renderà più epico, più fantasioso. Infine, l’impulso oculare verrà trasformato in realtà grazie alla mano armata di penna. 

Et voilà: ecco che un mondo di inchiostro si sarà generato su un pezzo di carta che prima era bianco. 

Ma aspettate! Giulia sta tornando a scrivere!

Attenzione! La scimmia, quel dì, sempre scherzosa e ignara del mondo circostante, stava continuando a bagnare di rugiada il terreno.  Ma ecco qui che commette un errore madornale: una moltitudine di goccioline d’acqua si abbatterono sulla tigre. No, non era più una tigre: era una bestia, feroce come il fuoco, scaltra e sfuggente come le ombre, forte come la roccia, ma incapace di fare un salto di tre metri, da una grondaia arrugginita nella giungla ad una foglia che aveva la forma di una tovaglia, per attaccarla.

Non potete immaginare cosa successe dopo…

La tigre fece un balzo, ma cadde e atterrò sul lupo. Erano entrati in un duello aperto. Il premio sarebbe stato l’antilope. Il lupo balzò sulla tigre, ma mentre si stavano azzannando, di nuovo un ruggito. Avete mai sentito dire a un leone “Mamma lasciami in pace ormai sono grande!”? Io no. Nonostante ciò, il tono con cui era stato detto spaventò tutti. Scena ancora più strana è quella che è venuta dopo: i tre sembravano anche arrabbiati con il leone misterioso. Perciò salirono sulla montagna, fino ad arrivare alla caverna da cui proveniva il ruggito. Purtroppo, malgrado bussassero alla porta, l’essere misterioso non la aprì… 

Scusate, meglio dire che non spostò la pietra che dava libero accesso alla caverna.

Giulia continuò a scrivere.

Nelle storie i narratori hanno sempre la panoramica di ciò che accade. Ma siccome io sono alle prime armi, mi limiterò ad inventare come si svolse il combattimento di quei tre.

La tigre bagnata scattò all’inseguimento dell’antilope. Il lupo, invece, iniziò a rincorrere la tigre. Così si sviluppò una spirale animata che si muoveva scendendo per tutto il palazzo-montagna. In tutto questo, l’attenzione della scimmia si concentrò sul gigantesco rumore che facevano i tre. Iniziò a tirargli una moltitudine di cose per farli zittire: bucce di frutta, noccioli di pesca e di albicocca, qualche mollica di pane e dei giornali usati. Non immaginate che baccano si creò! Ma piano piano l’agitazione diminuì, come quando si esce di casa lasciando il fuoco senza brace.

Alla fine, tutti si calmarono e se ne andarono via. 

L’aspetto più importante di questa storia, che è lasciata in sospeso, è l’esperienza che hanno vissuto tutti e cinque. Questa è la vita. È come se ognuno di loro avesse attaccato al proprio corpo un filo invisibile che si allunga ad ogni loro passo. Dovete pensare a come cinque esseri viventi siano riusciti ad intrecciare i fili delle proprie vite con gli altri: in questo modo si è creato un legame che rimarrà per sempre. 

Ecco. Il messaggio è che in ogni nostra azione o esperienza noi stabiliamo dei contatti e dei legami con l’ambiente circostante. Il nostro mondo è ricoperto dagli intrecci di questi fili, che possiamo distinguere soltanto grazie all’immaginazione.

Sembra che questo pomeriggio sia stato superfluo ed inutile per le loro vite, ma non è così: la nostra esistenza è caratterizzata da moltissimi aspetti diversi. E tra loro non ci sono discriminazioni: momenti di felicità e di gloria si alternano a momenti di rabbia e paura, tristezza e vergogna. Ma il bello è che ognuno di loro, poco o tanto importante, rende la nostra esistenza sempre più colorata e complessa. Ogni momento sa lasciare il segno.

È così che Giulia finì il suo testo. Lo dedicò al suo amico immaginario. In quel pomeriggio lei aveva capito molto sulla vita. 

Quando sembra che tutto vada storto… inclina un po’ la testa. Quell’inclinazione è l’immaginazione. C’è bisogno di cambiare il nostro sguardo da “orizzontale” a “obliquo” almeno una volta al giorno, perché sognare significa uscire fuori dagli schemi. Così si cambia il mondo. 

Tutto ciò lo ha raccontato Giulia alla maestra. L’insegnante vorrebbe un autografo dai cinque protagonisti, anche se le basterà quello di Giulia, la pontefice dell’immaginazione, l’intermediaria dei sogni.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 
 


 

Riccardo Brunetta, 9 anni
Classe IVB
Scuola Primaria “G. Pascoli” Bassano  Bassano del Grappa
 

Il regno dei draghi

Sui rami di un albero un cucciolo di drago riposava beatamente, quando vide uno stormo di draghi, scese dall’albero e spiccò subito il volo. Quando li raggiunse avvistò sua madre e le corse incontro velocissimo. Poi, quando fu vicino alla testa, la madre lo vide e disse al capo dei draghi di scendere. Atterrarono sulle montagne del nord che erano invisibili agli umani. Furia Buia, il nome del nostro piccolo grande guerriero del futuro, si chiamava così perché non sputava fuoco ma raggi al plasma. 

Dopo una breve sosta ripresero il volo e si diressero nella regione di Kandrax. La regione di Kandrax era un’isola nel cielo dove gli umani potevano introdursi. Quando la raggiunsero era piena di draghi di ogni dove, cuccioli e adulti. 

Furia Buia fece subito amicizia con un altro draghetto di nome Furia di Fuoco. Era suo fratello. 

Furia di Fuoco si chiamava così perché lanciava fiammate potentissime. Lui e suo fratello giocavano insieme ogni giorno, anche con altri draghetti. Giocavano al tiro al bersaglio e alla lotta. I giorni passavano e i piccoli fratelli erano diventati dei draghi adulti. Ormai avevano delle ali molto grandi e possenti. 

Un giorno un temporale potente gli fece rintanare nelle varie grotte nella regione di Kandrax. Il giorno seguente Furia Buia, Furia di Fuoco e i loro amici andarono a esplorare la montagna della regione di Kandrax. La montagna, in realtà, era un vulcano inattivo da secoli risalente all’epoca dei draghi colossali. I draghi colossali sono draghi giganti e molto rari da avvistare. 

Ma torniamo all’avventura dei nostri amici… Arrivati in cima al vulcano videro un drago colossale che gli disse: “Siete destinati a un grande futuro” e poi scomparve nelle tenebre…

 

 


 
Riccardo, Viola, Caterina

 
STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.  

Durante la notte, proprio nel momento in cui se ne andava con le lacrime agli occhi, la pasta risalì dalla terra. Non aveva il solito colore giallastro, era verdognola con macchie marroni e degli occhi rosso fuoco con sfumature verdi, viola e blu. Era così brutta che era impossibile paragonarla a qualcuno o qualcosa. Era un vero e proprio mostro! E poi sembrava una melma! Da quell'insieme di acqua e farina, sui fianchi, si crearono delle braccia. Da ciò che doveva essere il polso uscì ancora impasto. Contemporaneamente alla creazione del polso anche il viso stava mutando: tutto l’impasto attorno agli occhi si stava spostando creando una bocca dal ghigno malefico, un naso enorme e un sacco di rughe sulla fronte e sulle guance. Poi altra pasta risalì da sotto la fabbrica, spaventosa come la prima. Questa si trasformò prima in un pallone, diventando sempre più grande fino a creare una mongolfiera. Di melme se ne crearono altre 10, 50, 100! Erano tantissime. Gran parte dei mostri andò verso le entrate della fabbrica per creare i panettoni e gli altri salirono su mongolfiere appena create. Non partirono subito, aspettarono l'uscita dei pasticcieri-mostri, poi volarono alti nel cielo fino al centro della città. C'era un via vai di mongolfiere, di pasta madre e di panettoni. Al giovane pasticciere tornando a casa, proprio sulla soglia di casa, cadde in testa un panettone. Aveva lo stesso marchio della fabbrica in cui lavorava, ma era più piccolo dei panettoni che faceva lui. Stava nel palmo di una mano. Tolse la plastica che lo ricopriva e lo divise a metà. Dentro c'era un “nucleo” verdognolo. Si girò, andò verso il marciapiede e guardò in cielo. Un cane molto grosso, correndo, gli rubò il panettoncino e corse via. Il pasticciere ormai stanco dalla giornata lo seguì. Dietro l’ angolo c’era il cane che stava mangiando il tesoretto. Quando il ladruncolo si girò aveva occhi e naso verdi. Il giovane si avvicinò per calmarlo, ma il cane cadde a terra in un sonno profondo. Questa era la prova che doveva fermare quei mini-panettoni e i loro creatori. Anche se era un abilissimo pasticciere, volle chiedere aiuto al padrone della fabbrica, che era suo padre. Gli raccontò tutto e insieme decisero di fermare ciò che creava quegli strani panettoni. Andarono alla fabbrica. Appena arrivati davanti al cancello si nascosero dietro al muretto e, vedendo tutte le melme all'opera, presero un colpo. Al padrone dell'edificio venne un’ idea, entrare o dal retro o dalla botola sul tetto. Entrare dal retro era molto pericoloso, quindi decisero di entrare dalla botola. Il figlio, oltre a essere un grande pasticciere, era un appassionato di droni e aggeggi volanti. Portava sempre con sé il telecomando del suo drone preferito che tirò fuori dalla tasca. Pigiò alcuni tasti e il drone arrivò con un ronzio. Attaccarono delle corde al robot volante e si legarono in vita le altre estremità. Mentre fluttuavano in direzione del tetto erano accompagnati dalla colonna sonora delle urla di paura del padre. Quando toccarono le tegole il padrone si ricompose e notò meravigliato quanto fosse semplice entrare nella sua fabbrica. Sul tetto c’era una botola di legno con una maniglia di ferro. Dopo averla sollevata, entrarono e si ritrovarono in un corridoio molto lungo, con pareti, soffitti, pavimenti e oggetti così bianchi da accecare. C'erano due cartelli, su uno era scritto

”uscita”, sull’altro “centro”. Optarono per andare nel “centro”. Appena arrivarono, un enorme insieme di panettoni era sparso sul pavimento. Nel mezzo c’era una grande macchina da dove uscivano un sacco di panettoncini incartati. Di fianco alla macchina c’era un cubo di metallo con sopra delle leve, completamente circondato da panettoni. Il giovane pensò di spegnere la macchina abbassando le leve con il suo drone. Prese il telecomando e mise in atto il suo piano. Delle melme erano nascoste nella montagna di panettoncini e iniziarono ad inseguire i pasticcieri.

Anche il drone si spaventò e cadde a terra con un sonoro “baam”. Tutti, padri, figli e mostri, iniziarono a correre. L’inseguimento durò per molto, ma le melme furono seminate in un labirinto di corridoi bianchi. Senza farlo apposta finirono davanti ad una porta candita con appeso un cartello “import export”. Proprio il luogo che cercavano. Quando entrarono furono sorpresi dalla vista di quella stanza; pensavano di trovare un sacco di melme, ma c'erano soltanto due portoni sulla parete in fondo e qualche scatolone al centro della stanza.  Nessun movimento. Fino a quando i portoni in fondo alla stanza si aprirono leggermente con un cigolio. Uscì un’enorme melma che guardò prima i pasticcieri poi la stanza. Sembrava che fosse cieca perché, probabilmente, non aveva visto gli inaspettati ospiti che gli passarono proprio di fianco uscendo dalla stanza. Dovevano trovare un modo per impedire alle melme di portare quei panettoncini avvelenati a tutta la città. Attraversarono ancora un paio di corridoi e arrivarono nel corridoio che portava all'uscita. C’era una finestrella dove, per caso, il giovane buttò un attimo l'occhio: c’era una mongolfiera che stava per partire e nel cestello c’era scritto “La mongolfiera del re”. Senza perdere tempo ordinò di saltare all’interno del pallone di pasta madre. Quando partirono si dovettero appiattire per non abbrustolirsi con le fiamme vivaci del bruciatore. Arrivati sopra la periferia della città si decisero a buttarsi in un combattimento con le melme. Le melme dalla paura caddero dal cestello creando dei laghetti di pasta madre sui tetti delle aziende industriali. Il proprietario della fabbrica se la cavava a guidare la mongolfiera e il giovane a osservare dove avrebbero potuto essere le altre melme. Notarono un gruppo di mongolfiere in una stradina. Stranamente solo uno dei tanti mostri stava portando i panettoncini, ma c'erano tanti panettoni davanti alle porte. Al giovane venne un’idea. Chiamò i suoi droni, mentre, il padre, fece degli strani versi per ”contattare” dei suoi vecchi amici. Arrivarono dei giocatori di wrestling in groppa ai droni. Il padre sorrideva mentre il figlio era preoccupato che i droni, sotto un sacco di muscoli, potessero cedere. Era una visione comica, ma non era il momento per ridere e scherzare. Dovevano impedire l’addormentamento di tutta la città. Si divisero: i droni con il figlio e gli atleti di wrestling con il padre, per la sicurezza di quei droni.

Anche divisi lavoravano velocissimamente. I droni mettevano i panettoni dentro grandi sacchi, invece i giocatori di wrestling li spezzavano e toglievano il nucleo.

Stranamente entro la mezzanotte riuscirono a sbarazzarsi di tutti i panettoncini. All’alba del giorno di Natale idroni,  utilizzando dei tubi di aspirapolvere, risucchiarono tutta la pasta madre sparsa nella città. Poi la buttarono dentro i forni della fabbrica dove si trasformò in panettoni salutari, questa volta. Li incartarono e li distribuirono a tutti. Come ringraziamento, il sindaco della città volle dare ai salvatori un allargamento della fabbrica. Il padre, però, decise in andare in pensione e lasciò l'azienda nelle mani del figlio.


 


 

Di Praiseaiyosagie Okunwague
Scuola Secondari di Primo Grado – I.O Carsoli

 
IL PANETTONE E LE MAGIE DEL NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte inaspettatamente, scese un angelo che toccò la pasta madre e la rese magica recitando queste parole: “Con il potere da me conferito, o pasta madre, diventa magica per ogni persona che ti toccherà e che nello stesso tempo crederà nel Natale!”.

Nel lungo andare, passarono giorni e ormai il proprietario della fabbrica, di nome Arnold Smith, aveva già firmato le carte in cui si dichiarava che la fabbrica non fosse più sua; dopo questo fatto, quindi, si trasferì altrove.

Ma, se la sua fabbrica aveva chiuso, ce n’era un’altra, quella dei dolci allo zenzero, che stava facendo molti soldi: i dolci allo zenzero erano ovunque.

In quei giorni, vicino alla fabbrica di panettoni gironzolava una bambina che amava curiosare. Un giorno, dal momento che la fabbrica era ormai abbandonata, insieme con i suoi amici andò ad esplorarne l’interno. Si divisero la struttura in piccole frazioni così da sondarne ogni angolo. A lei spettò il primo piano. Lo esplorò tutto. Ad un tratto, vide qualcosa per terra illuminarsi; si chinò e scoprì che era solo una moneta da 10 centesimi. Ma, poi, rialzandosi, dritto davanti a sé, vide un'alta cosa illuminarsi: credeva fossero altri 10 centesimi, ma, invece, trovò una pasta illuminata. Allora, per lo stupore e la meraviglia, la prese con sé, e decise di tenerla, come un segreto da custodire in silenzio senza metterne al corrente i suoi amici.

Tornata a casa, scoprì che era già pronta la cena. Mentre era seduta a tavola, la bambina si accorse che i suoi genitori non erano contenti, quindi, per rompere quel gelo, chiese loro come fosse andata a lavoro e i genitori risposero un po’ affaticati e svogliati: “Bene figliola, ma questo lavoro è molto impegnativo e non ci appassiona sempre…”. Allora subito la figlia capì  che la fabbrica di panettoni, che era il luogo del loro vecchio posto di lavoro, mancava loro molto. La bambina, poiché il discorso era avviato, emozionata, tirò fuori la pasta madre che aveva con sé e disse che l’aveva trovata sotto la fabbrica. Chiese poi ai genitori se la vedessero illuminata e loro, sempre molto tristi, risposero di no. La bambina rimase scioccata. Nella sua mente vorticavano mille pensieri. Dopo cena andò subito a letto perché il giorno seguente aveva deciso che avrebbe perlustrato la zona della fabbrica un'altra volta. Mentre dormiva, le apparve un angelo che le disse: “Se terrai con cura la pasta madre, avrai tante soddisfazioni. Mi raccomando, promettimi questo: che crederai sempre nel Natale!”. Lei rispose convinta con un tono da vera avventuriera: “Si, lo farò!”. Dopo l’accaduto, andò dai genitori e disse: “Mamma, papà: credete nello spirito del Natale?” e loro risposero con in bocca un pezzo di dolce allo zenzero: “Non tanto. Abbiamo qualcos'altro a cui pensare, cara.” Ma lei, convinta di ciò che faceva e dell’obiettivo da raggiungere, non si arrese e continuò: “Mamma, papà: facciamo l’albero di Natale! Facciamolo insieme”. I genitori risposero che non avevano voglia, né interesse, ma lei insisté:” Fatelo per la vostra unica figlia!”. Così si convinsero e fecero l'albero con tante luci, palline e decorazioni varie. I genitori, dimenticando le preoccupazioni degli adulti e riscoprendosi bambini, si divertirono moltissimo e piano piano, dedicandosi a realizzare quelli che erano i simboli del Natale, cominciarono a vedere la pasta madre illuminarsi. Era il segno che la bambina aspettava! La figlia, dopo tutto questo, chiese un unico favore ai genitori: “Per favore, con questa pasta magica potete farmi un panettone, proprio come facevate una volta a lavoro?” e i genitori, contenti, risposero di sì. Lo realizzarono ma questa volta aggiungendo l'amore del Natale che avevano acquisito. Fecero quindi un nuovo tipo di panettone che chiamarono “Pandoro” e lo dedicarono alla figlia. Lei, mangiando questa squisitezza, ebbe un'idea: disse ai genitori di spendere i risparmi accumulati per il suo futuro scolastico per riniziare la loro attività di pasticcieri di dolci natalizi. Loro, all’inizio indecisi, ci pensarono un po’ e poi dissero: “Ok! Lo faremo per te”.

E così aprirono un di nuovo la fabbrica, vendendo sia pandoro che panettone.

Scoprirono che, ogni volta che una persona del mondo credeva nel Natale, la pasta madre si moltiplicava: quindi, avevano pasta madre infinita! Dopo l'apertura, scoprirono, inoltre, che sul piano economico mondiale avevano superato in dolci distribuiti e venduti la fabbrica dei dolci allo zenzero. E così ebbero finalmente una famiglia felice, con un lavoro felice, ingredienti fondamentali per poi avere una vita perfetta, cioè… felice!

Con questo racconto abbiamo imparato che il Natale, il giorno della nascita del Signore, è quel giorno in cui possiamo e dobbiamo stare di più in famiglia per accudire l’amore reciproco con l’aiuto e la solidarietà.


 


 

Paloma Bertoncello, 9 anni 
Classe IVB Scuola primaria “G. Pascoli” Bassano del Grappa
 

C 'era una volta sui rami di un albero un bambino con gli occhiali a specchio, riposava beatamente quando sentì un rumore che proveniva da un cespuglio dietro l'albero, il bambino si avvicinò al cespuglio, controllò e si accorse che c'era una piccola creatura. Era di un colore violaceo, il bambino prese la creatura e la portò a casa. Pensava che sua madre non gli avrebbe mai fatto tenere la creatura allora la mise dentro una scatola e la nascose nell'armadio. Si chiese cosa mangiasse, gli venne in mente che da qualche parte avrebbe dovuto avere un libro che parlava di tutte le creature del mondo. Trovò la pagina giusta, il nome preciso era Ocxamy. Il libro diceva che la creatura si cibava di insetti e piccole piante. Passarono gli anni, il bambino con gli occhiali a specchio era ormai diventato un ragazzo anche l'Ocxamy cresceva sempre di più. 

Un giorno però la creatura non entrava più nell'armadio. Così il ragazzo fu costretto a prendere una decisione molto triste: decise di portare la creatura nel posto dove l'aveva trovata, ossia nel bosco vicino a casa sua. Prese la bicicletta e l'agganciò a un vecchio carretto, fece salire la creatura e la copri con un telo. Partirono per il bosco, arrivarono, al ragazzo cominciò a far scendere  qualche lacrima e  gli disse: "Verrò a trovarti tutti i giorni dopo la scuola" e dopo un minuto sparì nel fitto bosco.


 


 

Pablo Cacace, 9 anni
Classe IV B Scuola Primaria “G. Pascoli” Bassano del Grappa
 

Giulio e il mondo magico 

Giulio era un bambino avventuroso e coraggioso, aveva sette anni e viveva in un paesino vicino al mare con mamma e papà. Giulio indossava un cappello di lana e degli occhiali a specchio molto buffi, ogni volta che andava in passeggiata col suo cane di nome Dragon. Un bel giorno di sole Giulio andò in passeggiata in centro col suo cane, a un certo punto, gli venne fame; in fondo alla strada vide un negozio di caramelle e decise di andarci. La proprietaria del negozio era molto misteriosa, gli aveva raccontato un sacco di storie fantastiche finché era rimasto lì e, alla fine, prima di salutarlo gli aveva regalato un sacchetto di caramelle dicendo erano magiche. Giulio incuriosito le mangiò subito e finì catapultato assieme a Dragon in un mondo magico! Dragon il suo cane era diventato un cucciolo di drago e per i due comincio un’avventura indimenticabile! Pensate che erano diventati amici di un unicorno e una ciambella che aveva gambe e mani proprio come lui. Sapete come li avevano conosciuti? Li avevano conosciuti durante un’avventura bellissima quanto importante. l’avventura consisteva nel prendere la pietra lunare per il sindaco che era ammalato, essa si trovava nella cima del Monte Luna. Partirono subito a passo svelto e la loro avventura cominciò. A metà strada conobbero il Signor Ciambella, con il quale si fermarono a fare una bella chiacchierata. Lui era molto simpatico proprio come Giulio, erano molto simili e diventarono grandi amici. Il signor Ciambella chiese a Giulio se poteva unirsi a loro ed ovviamente lui disse di sì! I tre ripresero il cammino; erano quasi in cima ma la strada era bloccata da massi e sassi enormi come elefanti. Ad un certo punto, comparve un unicorno, era spettacolare. Il Signor Ciambella lo conosceva, quindi lo presentò a Giulio e Dragon. I quattro diventarono amici per la pelle, ed a Giulio venne un’idea geniale per superare gli ostacoli: il Signor Ciambella salì in groppa a Dragon e Giulio sopra l’unicorno. Spiccarono il volo sorvolando i massi, raggiunsero la cima in un batter d’occhio e presero la pietra lunare. Tornarono a gran velocità dal sindaco che grazie ai poteri magici della pietra guarì. 

Alla fine della storia il nostro protagonista fu proclamato dal sindaco il protettore ufficiale della città magica. 

 


 
classe 3 A della scuola primaria di Volargne ( IC Dolcè Peri)
 

Inventa una storia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere…

Un giorno sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era possente con delle grandi zampe, il pelo striato, nero e arancione, luccicava al sole. Sembrava molto curiosa di esplorare il tetto della casa.
La tigre si aggirava fiutando l'aria e ad un tratto sentì un buon profumino di costine. Guardò in basso e vide un signore che grigliava della carne in giardino. Così la tigre con un balzo afferrò le costine alle spalle del signore e se ne andò con la pancia piena. Quando il signore si voltò per cuocere delle salsicce, si accorse che mancavano metà costine! Si guardò attorno incredulo e intravide la coda della tigre! Cercò di raggiungerla ma in quel momento passò nella via un ragazzo che correva all'impazzata in bicicletta inseguito da un cane. La tigre vide la scena e presa dal suo istinto predatore, con un salto scavalcò il cancello e si lanciò all'inseguimento.
Il signore della griglia, sorpreso e confuso, portandosi le mani alla testa
urlò: -Una tigre ha rubato il mio pranzo!- A quelle parole sua moglie al secondo piano iniziò a gridare.
Una signora al primo piano, scuotendo la tovaglia, non si accorse del mattarello che cadde proprio ai piedi del signore della griglia il quale, arrabbiato per non aver mangiato, raccolse il mattarello e uscì inseguendo la tigre. La signora al primo piano, gelosa del suo mattarello, scese le scale e corse dietro al suo vicino.
Così il ragazzo in bicicletta si trovò inseguito da un cane, da una tigre, da un signore con un mattarello e una signora con lo sguardo piuttosto infuriato. Girato l'angolo, quei bizzarri corridori, passarono davanti all'entrata dello zoo "Parco Natura Viva". Il custode del parco si accorse della tigre scappata. Iniziò a tremare e a sudare freddo e preoccupatissimo gridò: - Oh no, la mia tigre Laila! Devo assolutamente catturarla! -  così salì sul suo monopattino elettrico e con la strada in discesa si unì velocemente alla corsa.
Il ragazzo, il cane, la tigre Laila, il signore della griglia, la signora del primo piano e il custode in monopattino correvano all' impazzata e non si accorsero della macchina della polizia parcheggiata a lato della strada. I poliziotti, stupefatti, accesero la macchina e con la sirena altissima partirono a tutta birra per fermarli.
 I “corridori” correvano così veloci che non si accorsero di essere entrati in una gara di corsa campestre. Superarono gli atleti professionisti e in lontananza scorsero il traguardo. Il ragazzo in bicicletta vide il nastro rosso, tentò di frenare ma tutti i suoi compagni di corsa gli ruzzolarono addosso alzando un gran polverone e… vinsero la gara! 
Il pubblico applaudì con entusiasmo.
Arrivò a premiarli, con una coppa d'oro, il presidente della corsa. A quel punto la polizia lasciò perdere e decise di non multare nessuno.
Finalmente tornarono a casa: il ragazzo fece amicizia con il cane, la tigre Laila tornò allo zoo con il custode e il signore della griglia decise che avrebbe invitato tutti per una buona grigliata. La signora del primo piano, tutta contenta, tornò a casa per sfornare i suoi deliziosi biscotti.

Giulia era molto soddisfatta e ringraziò il suo amico per i consigli.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

Ottavia Briganti, 8 anni
classe 3A Scuola Primaria “F.lli De Carli” di Tiezzo I.C. “Novella Cantarutti”di Azzano Decimo (PN)
 

                                                              L'INCONTRO

In una caverna senza fondo un bambino con gli occhiali a specchio camminava senza fretta finché sentì un verso, simile a quello di un pipistrello, così si spaventò e voleva scappare, ma non poteva: era in trappola.

 L'entrata era sparita, e la cosa si stava avvicinando a lui sempre di più, poi urlò “Restituiscimi quello che mi hai rubato”. Il bambino con gli occhiali a specchio era sorpreso, ma sempre più spaventato, poi si fece coraggio e finalmente chiese “cosa?”. La cosa sempre più infuriata disse “il mio riflesso”, allora il bambino capì cosa voleva la cosa, ma non sapeva come fare per ridarglierla...  “Scusa. Non volevo far male a nessuno” disse il bambino con gli occhiali a specchio, la cosa si riaddolcì un secondo, ma poi diventò di nuovo seria, arrabbiata e malinconica, e disse “Lo so. Dopo tutto sei un bambino, ma adesso, senza il mio riflesso nessuno può vedermi, e nemmeno tu”. Il bambino con gli occhiali a specchio annuì, poi la cosa aggiunse “Secondo me non avrebbero dovuto inventare gli occhiali a specchio”, il bambino annuì di nuovo.

 Allora i  due si incamminarono in quel buio fitto, all'improvviso videro una lucina “sono fiori di luna” spiegò la cosa, mentre il bambino iniziò a prendere simpatia di quella cosa, anche se non sapeva cosa fosse, ma era sicuro che l'avrebbe scoperto... Anche la cosa iniziò a prendere simpatia per il bambino, anche se involontariamente gli aveva preso il suo riflesso rinchiudendolo nei suoi occhiali a specchio, e diventarono amici.

 Mentre camminavano spensierati ridendo e parlando, il bambino con gli occhiali a specchio si ricordò del riflesso e anche la cosa se lo ricordò e insieme, nello stesso momento, dissero “Oh no, mi sono dimenticato il riflesso”. Scoppiarono a ridere, poi il bambino disse “Tu sai come iniziare la nostra ricerca?” “No, ma so che sono nei tuoi occhiali” rispose la cosa. “Questo lo so anch'io. Purtroppo” dichiarò il bambino con gli occhiali a specchio, sconsolato.

 Poi però gli venne un'idea: scaraventò i suoi occhiali a specchio e ci saltellò sopra finché si sgretolarono e degli occhiali rimasero solo briciole. “È semplice” disse il bambino d'un tratto. “Grazie, ma ora co...” la cosa non riuscì a finire la frase, quando il bambino si trovò davanti una bellissima civetta che fece uno strano verso in segno d'affetto e volò via.  É stata una bellissima avventura, pensò il bambino.


 


 

Il vecchio Bil di 

Nicola Palmisano, 10 anni

 

Il sindaco del paese era salito sui rami di un albero per riflettere, era in crisi perché il vecchio Bil, uno dei più cattivi fuori legge del far west, uno che rubava il denaro di tutti i negozi era tornato in città.

Il sindaco chiamò Pasquale, un suo caro amico e questo lo aiutò a scendere dall’albero.

I due andarono nella locanda chiamata “Il terrore del far west”, dove incontrarono il vecchio Bil.

Il vecchio Bil sfidò ad un duello il sindaco, dando appuntamento su un’isola circondata da mare tempestoso.

Per raggiungere l’isola il sindaco navigò per giorni senza mangiare e pensò che se avesse visto un cucciolo di drago lo avrebbe fatto al forno con le patate.

Arrivato all’appuntamento vide il vecchi Bil che riposava beatamente sotto un albero e russava.

“Bil, Bil è il tuo momento” gridò il sindaco.

Bil si svegliò e camminando senza fretta andò verso il sindaco, con la pistola carica e funzionante. Il sindaco ebbe paura ma si fece coraggio…

Bill sembrava perfettamente a suo agio, eppure scoppio in lacrime e disse che non avrebbe più rubato ai negozianti del paese, lo aveva fatto solo per attirare l’attenzione della proprietaria di un negozio di caramelle di cui era innamorato.

Il sindaco ne uscì vittorioso e il vecchio Bil promise di non rubare più e dichiarare il suo amore alla signore delle caramelle e vissero tutti felici e contenti.
 
 


 
Niccolò 8 anni
 

Il popolo dei Corvacks

In una caverna senza fondo nello spazio angusto e ripugnante, un’ombra spaventosa avanzò nell’oscurità. Nella casa accanto un ragazzo di nome Jack Ormson era ormai a letto da molte ore ignaro del pericolo immane, infatti quell’ombra era una creatura molto pericolosa  chiamata  Corvacks ed era golosa di carne e sangue umano. La mattina dopo Jack camminava senza fretta finché uno fruscio attirò la sua attenzione.  Quando Corvacks passò si sentì un freddo innaturale, disumano e le piante si seccarono però Jack non sentì niente e disse “Bah, sarà stata la mia immaginazione”. Poco dopo Jack era quasi arrivato a scuola ma stranamente quella mattina si trovava a disagio, non perché l’altro giorno aveva preso un brutto voto ma perché… non lo sapeva neanche lui il perché, proprio allora, ma proprio allora notò un corpo umano disteso a terra, si avvicinò e… gli scappò un grido di terrore! Quel  bambino era morto! Era un bambino con gli occhiali a specchio, capelli neri ed occhi verdi e, per di più aveva appena circa  sette anni. Jack, corse subito ad avvisare i genitori e il Tenente Giorgio Shellow della polizia, poi si rifugiò in camera sua ragionando sulla morte di quel bambino. “L’assassino non può aver ucciso quel bambino prima delle 7:30 ma chissà per quale motivo era a scuola così presto?”. Jack il giorno dopo fece colazione un po' più tardi del solito perché aveva rimuginato tutta la sera del delitto commesso la scorsa mattina. Proprio allora notò sul tavolo il “Startown journal” il giornale della città, che, infatti si chiama Startown. In prima pagina c’era un titolo stampato a caratteri cubitali. Il titolo era:

“Secondo omicidio in due giorni. La polizia brancola nel buio”. “Ancora!!” urlò Jack. Quando lesse l’articolo scoprì che la vittima era stata Natasha Gringold. Era stata trovata verso le due di notte dai vicini Greta e James Auros. La strategia che aveva seguito l’assassino/a è chiara: entrato dalla finestra del soggiorno, lasciata aperta per distrazione da Natasha Gringold, per poi arrivare nella camera da letto e assassinare nel sonno Natasha Gringold. Però era il metodo usato che era strano. Natasha Gringold non sembrava morta con un colpo di pistola o pugnalata ma sembrava dissanguata. Il che era molto strano visto che nessun essere vivente riesce a succhiare sangue. Dopo quel fatto Jack decise di lavorare in proprio. Mentre andava a scuola si ricordò di un particolare importante: anche Antony Christ sembrava dissanguato e pure smangiucchiato ma non erano denti umani o animali. “ Dopo, per prima cosa andrò dal Tenente Shellow e gli chiederò di farmi vedere i corpi delle vittime del cosiddetto “mostro” poi andrò dal miei amici Chris Flystorm e Anna Moor e gli chiederò se possono aiutarmi con il caso a cui sto lavorando” pensò Jack mentre si incamminava verso scuola. “Potrei vedere i corpi dei defunti Tenente Shellow?” chiese Jack appena arrivò al commissariato. “Certo ma perché vorresti vederli, Jack?” gli chiese il Tenente Shellow. “Perché,” rispose Jack “ho deciso di indagare da solo a questo caso che nessuno riesce a risolvere” rispose Jack con un’aria molto decisa sul volto. “Ma… perché ti senti così deciso a risolvere questo caso?” chiese il tenente. “Bé in verità non lo so. E come se avessi un  legame brutto, molto brutto con l’assassino che ha ucciso queste due persone innocenti. Ah, vi ho mai detto che sono orfano?”. Jack rispose alla domanda del Tenente Shellow e contemporaneamente fece una domanda.  “No, veramente?” “Sì.” ”“Bah, sei strano ragazzino ma mi stai simpatico quindi vedrò di accontentarti.” “Grazie tenente” disse Jack. “Di nulla” disse il tenente accompagnandolo verso la scientifica. I corpi erano distesi su dei lettini operatori e gli esperti li stavano esaminando. “Potrei vederli?” chiese Jack. “Ma certo” rispose il tenente. Jack si avvicinò e notò su tutti e due i colli, dove i denti dell’assassino erano stati affondati nella carne, del terriccio color bordeaux e lo prese senza dare nell’occhio poi lo messe in un sacchetto. “Trovato nulla di interessante?” chiese il tenente. “Ehm….no, niente” mentì Jack. “Adesso devo andare” disse. Incamminandosi verso la casa di Chris, Jack pensò che Chris e i suoi ordigni tecnologici potessero aiutarlo. Mentre la mamma di Chris apriva la porta della casa, Jack urlò “Chriiiis, sei in casaaaa?” “Bah, sarà nel suo laboratorio” disse Jack scendendo con le scale che portano verso la cantina. Appena finì di scendere le scale gli apparì un mondo fantascientifico: esperimenti di ogni tipo, lampade fluorescenti e tante altre cose. “Ehilà, Jack!” “Ciao, Chris. Ti spiegherò il motivo della mia visita appena arriverà Anna. La chiameresti per favore?” chiese. “Certo.” Cinque minuti dopo arrivò Anna, quando Jack spiegò loro la situazione Chris e Anna accettarono subito di aiutarlo. “Mhhh… vediamo un po' questo terriccio” mormorò tra sé e sé Chris quando prese il sacchetto fra le mani. Poi si avvicinò a un microscopio digitale, sopra mise il terriccio e guardò attentamente dentro la lente. “Questo terriccio si trova solo nelle cave di marmo, qua a Startown c’è solo un posto che corrisponde a questa descrizione. Sapete quale?” chiese Chris. “La caverna accanto alla casa di Jack!” risposerò in coro “andiamoci subito!” esclamò Jack. “Va bene. Ma almeno armiamoci” disse Anna. Poco dopo i  tre amici marciavano verso la grotta. Quando ci entrarono Jack si sentiva perfettamente a suo agio, eppure aveva una strana inquietudine buttata addosso. Quando arrivarono al centro della caverna iniziarono a sentire uno strano sibilo sinistro. Verso le otto di sera Corvacks sbucò fuori. Era alta come un uomo adulto la sua pelle era olivastra e al posto dei capelli aveva dei corvi che gracchiavano continuamente. Appena Corvacks saltò fuori dalla penombra Jack urlò: “Ma che diavolo? Attenti ragazzi!” ma non li avvisò in tempo. Corvacks si era già avventata su Anna, che la scacciò con un colpo di fucile ma Corvacks, velocissima si avventò su Chris che non veloce come Anna, non riuscì a sparare e quando finalmente Corvacks lo lasciò giaceva a terra morto, dissanguato e mezzo smangiucchiato. Jack spinto dalla rabbia mirò con il suo fucile verso Corvacks, però Corvacks avvertendo il pericolo disse “Zurai-moon” e si aprirono tanti portali da cui uscirono altrettanti Corvacks. Anna e Jack decisi a vendicare Chris si aprirono un varco fra i molti Corvacks. Arrivati al Corvacks originale lo prenderono per la gola e gli dissero: “Pronuncia le tue ultime parole.” “Tu sei Jack Ormson?” chiese il Corvacks. “Sì” rispose Jack. “Ascolta bene: sono stata io a uccidere i tuoi genitori.” E queste furono le ultime parole del Corvacks. Subito dopo che il Corvacks pronunciò queste parole le dita di Jack premettero sempre di più sulle arterie del Corvacks finché si afflosciarono e il Corvacks cadde a terra morta. “È finita” disse Anna a Jack. “Sì, è finita” e là, proprio in quel momento si baciarono.


 


 

Milena Cajozzo, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye 
 

La storia di Giulia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Essa guardava una vecchia signora mentre scuoteva un tappeto magico sul terrazzo. Vedendo la tigre la vecchietta urlò di spavento. Giulia guardò da un’altra parte della finestra e vide un ragazzo in bicicletta che svoltava l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un leone scappato da uno zoo. Poi Giulia riguardò dov’era prima la tigre e vide che era diventata un gattino. Infine notò che tutto era stato trasformato: il tappetto magico in tovaglia e il leone in un cane col guinzaglio rotto.

Giulia consegnò il suo compito alla maestra e la sua storia fu un successo: prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 
Matteo, 13 anni

 
Tanto tempo fa in un luogo oscuro a tutti c’era una caverna, ora starete pensando che ne avete viste moltissime di grotte ma aspettate e vedrete, in cui viveva una creatura, ora starete pensando ma ne ho viste molte di creature ma aspettate e vedrete, anzi un uovo, non dirlo di nuovo… lo so già che hai visto delle uova, fammi finire!

Non si può avere un minimo di tranquillità di questi tempi. Vabbè dicevo in quest’uovo c’era un drago, lo so benissimo che non esistono per questo ho detto che nessuno conosceva quel luogooooo!!!!!!!!!! Calmiamoci, questo drago cresceva di giorno in giorno diventando sempre più grande, ora che ci penso forse era una femmina, non mangiava mai dormiva e si riposava dalla mattina alla sera e diventava sempre più grande, enorme, granorme, enonde, va bè avete capito che era gigantesco. Un giorno, si alzò in volo e andò posarsi sopra un ramo così fine che neanche da 1 metro sarebbe stato possibile vederlo ma non si ruppe, e rimase li per giorni finché una mosca si posò sul suo naso. Con una mossa da ninja aprì la bocca e… la lasciò andare come se avesse voluto ucciderla ma qualcosa glielo avesse impedito.

La mosca continuava a ronzarle intorno per ore e lei continuava ad aprire la bocca senza ucciderla cacciarla o chissà che. Continuarono così per ore finché ad un certo punto uscì dalla bocca del fuoco; ora finalmente era chiaro doveva imparare a “sputare” fuoco.

 


 
Alunna: Forte Matilde

Classe I G  I.C.R.Giovagnoli Via Ticino 72 Monterotondo
Prof.ssa Valentini Alessandra  Prof.ssa La Loggia Luigia.

INGREDIENTI:

  • Nello spazio angusto tra due case molto alte
  • La proprietaria di un negozio di caramelle
  • Camminava senza fretta, finchè

 

UNA CARAMELLA PUO’ FARE MIRACOLI 

Nello spazio angusto tra due case molto alte, la proprietaria di un negozio di caramelle camminava senza fretta, fino a quando incontrò, in una stretta via, un ragazzino con capelli tutti arruffati, una maglietta strappata, senza pantaloni e con solo un sandalo, sporco e rotto. Pareva strano, stava seduto a terra, nascosto dietro ad un cassonetto. La negoziante di caramelle, Denise, una donna sulla quarantina, dallo sguardo dolce e profondo, decise di avvicinarsi al bambino strano. Fin da subito lui non aprì bocca, fino all’arrivo di un gruppo di ragazzacci più grandi di lui, vestiti con indumenti eleganti e di marche costose che lo presero per un braccio in modo violento e lo trascinarono in un angolo appartato della via. Denise intervenne senza esitazione strillando ai bambini e per far fare la pace con il gruppetto, offrì a tutti delle caramelle. I ragazzi dopo aver finito di mangiare, scapparono senza neanche ringraziare. La venditrice provò a parlare con il bambino ma lui teneva sempre la bocca sigillata e lo sguardo basso. Fu tutto inutile e allora Denise si incamminò per raggiungere il suo negozio. Il giorno dopo, percorrendo la stessa strada, la donna incontrò nuovamente il bambino nello stesso punto. Quel giorno cominciò a darle qualche piccola informazione. Lei venne a sapere, quindi, che si chiamava Nasir e veniva dalla Nigeria, un paese in guerra. A quel punto le venne un dubbio però: dov’era la sua famiglia? La donna riuscì a convincere il ragazzo che, ad ogni caramella che riceveva, rispondeva con un’informazione. Così, nel giro di pochi giorni, caramella dopo caramella, Denise riuscì a scoprire molto del misterioso Nasir. Egli era migrato in Italia con un barcone per via della guerra nel suo paese di origine, insieme alla sua famiglia che però poi, non avendo i soldi per nutrirlo, decise di abbandonarlo per strada al suo destino. Era parecchio che stava lì, quasi un mese, e ogni giorno veniva quel gruppetto di ragazzacci a picchiarlo e ad insultarlo per il colore della pelle. Il dì seguente però, Denise, percorrendo sempre la stessa identica strada, non trovò più il bambino. Panico! Cominciò a chiedere a

tutto il paese di Nasir, ma ogni concittadino rispondeva con indifferenza. Dove era andato a finire? Era scappato? La famiglia era tornata a prenderlo? La donna non ragionava più e presa dall’ansia e dalla stanchezza, ad un certo punto cadde a terra. Al suo risveglio notò una faccetta, simile a quella del ragazzino...aspetta, ma era proprio Nasir! Denise subito cominciò a fare mille domande, e lui, spaventato, si mise a piangere. Raccontò che quel gruppo di ragazzi lo aveva portato in un casolare abbandonato e il più grande della banda aveva cominciato a picchiarlo violentemente. Questo spiegava tutte le ferite che aveva sul corpicino. Lei, molto arrabbiata per l’accaduto, decise di andare a fare la denuncia alla polizia, ma anche lì l’accoglienza fu freddina. “Ma su signora, sono cose che accadono tra coetanei di quella età, e poi, il ragazzo di colore li avrà provocati e loro avranno avuto pure ragione a difendersi!”. Denise, a quella risposta, andò su tutte le furie e decise di portare Nasir con sé, nella grande casa della sua famiglia, in modo da poterlo proteggere da persone razziste. C’era un problema: i parenti della donna non gradirono l’ospite. Non ce la faceva più, era delusa da tutti, nessuno voleva il bambino solo perché era di un altro Paese e praticava una diversa religione. Era stanca di tutto questo, ma non poté fare niente. Dal giorno seguente, ogni mattina, continuava a passare per la stessa strada, per controllarlo e dargli un sacchetto di dolciumi, nuovi vestiti, dell’acqua, pane e frutta fresca e, soprattutto, un po' di amore materno. Denise decise di acquistare una piccola casa tutta sua con i suoi risparmi e di portare Nasir a casa. Stavano bene insieme, erano sereni, ma un giorno qualcuno bussò alla porta. “Ma chi può essere a quest’ora Nasir? La vicina che si lamenta delle nostre risate rumorose?” Il bambino corse ad aprire la porta, ma si trovò davanti i servizi sociali. “Cosa volete da me?!” strillava il bambino mentre tentavano di prenderlo. “Andatevene via immediatamente, lasciate il mio piccolo”. “Signora, stia calma. Lei è stata denunciata per detenzione indebita di minori. Per di più è un bambino nero, magari è uno zingaro. Vogliamo solo proteggerla, quindi ora ci dia questo bambino, non si sa mai, potrebbe anche derubarle casa”. “Togliete le mani da Nasir! Lui è buono! Sono tutti buoni! Quelli lì, come li chiamate voi, sono umani proprio come noi! Non è il colore della pelle, o la città da cui si proviene a determinare la personalità di ognuno di noi quindi, ora, togliete quelle manacce dal mio piccolo!”. I due assistenti sociali, non curandosi della donna portarono via Nasir. Denise urlò così tanto da perdere la voce e pianse tutta la notte. Denise nei giorni seguenti cercò di vedere il suo amato Nasir. Ormai era scomparso, nessuno sapeva dirle niente di lui, per tutti era come MORTO. Denise però non si arrendeva, lei sapeva che era vicino, da qualche parte, impaurito. Lei era stanca di tutto l’odio che vedeva nelle persone e decise di scrivere una pagina nel giornale del paese che un suo caro e vecchio amico giornalista le pubblicò. “E’ stata una banale caramella che mi ha fatto conoscere il mio Nasir. Grazie ad una caramella ho conosciuto quel magnifico piccolino intelligente e gentile. Le persone lo odiano per il suo colore della pelle, per il suo Paese di provenienza. Ma lui è un essere innocente. Dovete smetterla! Tutti siamo esseri umani, abbiamo emozioni, tutti abbiamo il diritto di vivere in pace. La scorsa settimana i servizi sociali sono venuti a casa mia a portarmi via Nasir. Ora non so dov’è ,ma so anche che lui è tanto spaventato. Quindi, voglio chiedere a tutte le persone che stanno leggendo questo articolo e che hanno un cuore, di aiutarmi a ritrovarlo e di aiutarmi a mettere fine a questo odio verso le diverse civiltà”. Questo scrisse Denise, pian piano conquistò il cuore di una bella squadra di amici e sostenitori con cui, nei mesi a seguire, riuscì a vincere la battaglia dell’indifferenza e delle leggi ingiuste. Quando riuscì ad incontrare di nuovo Nasir, lo trovò di nuovo ammutolito come il primo giorno, dimagrito e spaventato dalla solitudine senza amore in cui era piombato un’altra volta. Era insieme ad altri bambini della sua stessa provenienza, ma non riusciva a liberarsi dalla paura dell’abbandono. La donna, insieme ai suoi sostenitori, riuscì a prendere in affidamento tutti quei bambini, ricevette dei soldi grazie alla beneficenza ricevette dei soldi ed aprì un centro di accoglienza. Certo, per lei non fu facile, ma venne aiutata da tanti suoi concittadini che le donarono soldi, cibo e vestiti ed anche dalla sua famiglia che prima le era ostile. Si comprò un’azienda ormai andata in disgrazia e ci fece costruire una struttura in cui, tutti i bambini poveri, si sarebbero potuti rifugiare. Nella città trovò un maestro e un dottore. La fece diventare una scuola, un ospedale e allo stesso tempo un luogo in cui i bambini potevano seguire le loro passioni e divertirsi. Passati anni ed anni i ragazzi si costruirono una bella famiglia e ottennero un lavoro. Nasir seguì la strada della madre e, dopo la laurea a pieni voti, costruì altri centri di accoglienza per bambini poveri e

rifugiati politici da paesi in guerra. Divenne famoso nel mondo. Un giorno però, mentre stava con i ragazzini in giardino a giocare a nascondino bussò qualcuno alla porta. “Fatimah vai tu!” Gridò Nasir. “Ma chi sarà mai…” Pensò tra sè e sè. “Papà! Chi è questo omone alto e robusto sopra ad un cavallo? Ho pauraa!!” Gridò il piccolo. “Chi siete?!” Domandò subito Nasir. “Buonasera. Lei è per caso un certo Nasir? Bè suppongo di sì, la via era questa…” “Come fate a sapere il mio nome, il mio indirizzo!??” Si innervosì. Chi erano quegli uomini. Cosa ci facevano a casa sua? “Abbiamo una lettera da parte del re della Nigeria per lei. Gliela lasciamo.” “Una lettera da parte di chi? Un re? O Dio mio. Arrivederci e grazie per la consegna! Scusi la mia scortesia”. “Stia tranquillo maestà. Arrivederci” Maestà? Perché lo chiamava così? Nasir cominciò a leggere: “Buonasera Maestà. Abbiamo scoperto che il principe Nigeriano Nasir III della dinastia Niakatè svanito trent’anni fa è proprio lei. Nessuno ha mai smesso di credere che lei fosse vivo. Finalmente investigatori internazionali hanno scoperto tutto l’accaduto. Una famiglia povera e di malviventi ha deciso di prenderla per chiedere il riscatto, ma sono dovuti fuggire improvvisamente dalla Nigeria perché perseguitati e così in seguito hanno preferito abbandonarla. Le hanno sempre mentito su tutto per tenerla buona ed evitare rischi di fuga! Ma la triste verità è che lei è stato rapito! Solo recentemente siamo venuti a sapere che lei è stato salvato da una donna di nome Denise. Volevamo donarle una grande ricompensa per il suo gesto, ma siamo venuti a sapere che ormai non c’è più… Con questa lettera, le volevamo comunicare che lei è il principe Nigeriano scomparso trenta anni fa.” Dalla lettura di quella lettera Nasir rimase sconvolto. Rifletté giorni e giorni, ma alla fine decise di non partire e di non tornare al suo paese di origine, anche se lì lo avrebbero ricoperto di ogni ricchezza. Il suo posto ormai era un altro, era quello che il destino quel giorno aveva riservato per lui. Il suo dovere era quello di continuare il sogno e la battaglia di Denise, era di lottare contro il razzismo e l’indifferenza delle persone, era di aiutare i bambini poveri come era stato lui un tempo. 

Prese una caramella, come faceva ormai ogni sera, la mangiò chiudendo gli occhi  rivide Denise, sentì la sua voce , le sue carezze e gustando tutta la dolcezza della vita vissuta andò a letto sereno. 
 



 
Martina, 13 anni
 

Paola, una ragazza sveglia, proprietaria di un negozio di caramelle, riposava beatamente sul divano dopo una lunga giornata di lavoro. 

Ad un tratto si svegliò. 

Non era più sul suo divano ma dentro una caverna. 

Era buio. Si sentivano solo le gocce dell’acqua cadere ripetutamente sulle rocce. Faceva freddo. 

Disse: “c’è qualcuno?”

Nessuna risposta.

Così dovette cercare la via di uscita dalla caverna.

Si mise a camminare. Non vedeva nulla.

Allora si mise a pensare alla sua vita. 

Quante cose erano andate storte. Quanti sforzi aveva fatto per raggiungere i suoi obiettivi.

Quante difficoltà aveva attraversato. Erano pensieri insistenti…

All’improvviso Paola vide una luce fioca, poco lontana. Così si diresse verso di essa.

Dentro la caverna si era creato un piccolo laghetto. 

Paola si specchiò ma, invece di vedere il proprio riflesso, vide la Paola del passato. La Paola spensierata. La Paola che aveva 14 anni e non pensava ai soldi che non bastavano per arrivare a fine mese. Per pagare l’affitto del negozio, i costi per le caramelle e tutte le altre spese.

La Paola che passava i pomeriggi con le amiche. Che spesso a pranzo andava dai nonni. La Paola che si divertiva a cucinare biscotti nel tempo libero. 

Le fece strano rivedere sé stessa, del passato. Felice e bella. E non preoccupata e affaticata come oggi.

Incuriosita chiese, specchiandosi nel lago: “sei la me del passato… parli?” Dopo pochi secondi la giovanissima Paola rispose di sì e chiese lei chi fosse….

Così iniziarono a parlare.

La Paola di una volta aveva pensieri leggeri, pieni di stupore e di allegria. La Paola di oggi era consapevole e profonda, ma preoccupata e pensierosa.

Le mancava il passato, quando i nonni erano ancora vivi. E quando era circondata solo da amici e da persone che le volevano bene.

Dopo una lunga conversazione, Paola si chiese: “forse se mi tuffo nel lago posso tornare ad essere la Paola del passato, la Paola spensierata dei 14 anni”.

Era molto combattuta sul da farsi. Ma poi si decise e si tuffò.

Perse i sensi….

Ma poi si risvegliò sul divano del salotto. 

Era solo un sogno!
 

 


Maria Valentini, 10 anni
I C Francesco d’Assisi

INVENTA UNA STORIA

IL TEMPIO DEI RUBINI DANZANTI

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.                                                                

Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, seguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: "Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante."

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a

scrivere:                                                                                              

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. 
Questa aveva il pelo azzurro e le strisce blu e uno zaffiro in mezzo alla fronte: non una voglia, ma una pietra materiale, blu e splendente ; stava lì da quando la creatura era nata. 
Come c’era finita la tigre in cima ad una grondaia, vi starete chiedendo: ebbene, era in grado di teletrasportarsi, grazie alla sua gemma magica, da un luogo all’altro e in qualunque momento. La grondaia dove stava in equilibrio era quella della panettiera, la signora Edna Ashton-Meier, quindi immaginate che  il felino stesse per prendere cibo.
La signora, che stava uscendo sul balcone a prendere una boccata d’aria, gettò lo sguardo verso l’alto e cacciò un urlo assordante, quando vide quella creatura feroce sopra la grondaia di casa sua!                                                       

"Andiamo, Libera! Non infastidire la povera signora Ashton-Meier, non ti ha fatto niente di male!" la chiamò una voce femminile.                                                            

La panettiera guardò la proprietaria di quella voce in maniera furiosa, squadrando prima lei e poi il suo essere affamato di pane.                                                         

"Allora, Diana! Quando ti deciderai a dire a quest’essere che non si infastidiscono le persone per mangiare? Capisco un neonato, ma una tigre… ah, ti ricordo inoltre che la tua cara amica Nadya deve pagare le novanta pagnotte che si fa mettere da parte per la comune!" urlò Edna, inferocita più di un leone.                                                                         

Ok, scommetto che ora vi state chiedendo due cose: chi è questa ragazza, Diana? E la tigre… è sua?

Diana aveva i capelli lunghi, castani e ondulati, il naso carinissimo, gli occhi grigi che mostravano a tutti che quella ragazza era la reincarnazione del coraggio; era alta e magra e il suo sogno più grande era quello di diventare una guerriera in grado di combattere con spade infuocate e di avere superpoteri. Indossava una t-shirt bianca da chissà quanto tempo (che comunque lavava sempre), dei jeans e calzava delle Sneakers un po’rovinate.

Viveva in una comune abbandonata con ottantanove ragazzini, ognuno dei quali svolgeva un compito e faceva parte di un gruppo: Le Pulitrici dovevano fare le pulizie e lavare gli indumenti al fiume che scorreva oltre la foresta, I Robin Hood dovevano andare nei negozi e rubare viveri... Questa banda di ragazzini era comandata da Nadya, chiamata da molti Sovrana.

La tigre era sua più o meno da sempre, o almeno si ricordava di avercela da quando era nata. Il suo nome l’aveva scelto proprio lei. Quel nome le ricordava un fiume che scorreva impetuoso e visto il colore del pelo del suo “animale domestico” era perfetto. 

Avevano un legame speciale, quelle due: la ragazza voleva bene alla tigre ed era l’unica persona al mondo ad essere in grado di addestrarne una anche se, in alcune cose, Libera non l’ascoltava.                                                                    

"Non sono ancora passati i tuoi amici che vengono a prendere il pane, ho osservato. Vuoi prenderlo tu o vuoi che li attenda?" chiese Edna Ashton-Meier.                               

"Sì, meglio che li attendiate, signora Ashton-Meier. Friedrich si arrabbia moltissimo se non porta a termine il suo compito, perché è innamorato di Nadya e vuole fare colpo su di lei" disse in modo spiritoso la giovane.

La panettiera fece un sorrisetto ironico e trattenne a stento le risate e, proprio in quel momento, arrivò Friedrich. Aveva un ciuffo di capelli biondo grano, aveva gli occhi azzurri e profondi come il mare, il naso aquilino, la corporatura magra ed era dell’altezza giusta per la sua età. Indossava una t-shirt con Bruce Springsteen e degli shorts in jeans corti e, da una vita, girava a piedi scalzi.
"Ehi, togliti di torno! Cedi la merce se la vuoi passare liscia, altrimenti Nadya ti mette al fresco coi topi!" minacciò.

"Friedrich, ti conosco da quando sono nata: vuoi che non sappia che non sopporti che gli altri membri degli altri gruppi della comune ti freghino il pane! Vero, signora Ashton-Meier?" disse Diana.

"Concordo con Lady Tiger! Puoi prendere il tuo pane, sai che non lo cedo a nessuno e lo tengo in cassaforte fino al tuo arrivo!" confermò la panettiera.                                           

"Sì, ma voi sapete che nel mondo ci sono tanti ragazzini ricchi, viziati e stupidi che ci fregano il pane da sotto il naso! Non sopporto che i ricchi rubino le cose appartenenti alle persone con meno soldi o, come le chiamano i Figli dell’Oro, le poor people" spiegò il ragazzo.

"Friedrich ha ragione. Signora Ashton-Meier, perché non proponete al sindaco di impedire le cose che fanno i ragazzini ricchi? Dovrebbero pagare una multa di ben quattrocentomila euro!" propose Diana.
"Sì, magari mi credessero! Io, che fino a quando me l’hai fatto notare tu, scacciavo sempre i bambini poveri che chiedevano un pezzo di pane e l’elemosina! Figurati se mi crede, quel vecchio spilorcio!" sospirò la panettiera.

"Voi tentate, che non si sa mai! Chissà, magari vi darà un’altra opportunità!" la incoraggiò Diana.
Il coraggio era il suo maestro di vita, la cosa per cui viveva, la sua musa, la sua ispirazione, la sua qualità più potente… era tutto per lei, lei che sognava di diventare una guerriera dotata di poteri sovrumani che utilizzava una spada vinta in battaglia, piena anch’essa di magia…

Alla comune, l’aspirante guerriera incappò in Nadya in persona. Era alta e magra, gli occhi azzurri, il naso aquilino e i capelli lunghi e rosso fuoco. Indossava una tunica nera e in pochi avevano visto la sua faccia, poiché lei andava sempre in giro con una maschera bianca.              "Qual buon vento ti porta qui, Lady Tiger? Friedrich mi ha riferito tutta la conversazione che avete fatto con quell’odiosa della panettiera. Hai avuto una bella idea, è vero, ma l’hai proposta alla persona sbagliata. Non l’ho mai vista cedere i suoi amati soldi ai ragazzi di strada. In più, con loro si è sempre comportata male, quindi non sperare che ti accontenti" disse Sovrana.

"Probabilmente la tramontana, eh, eh! E tu non sperare troppo che la panettiera non mi accontenti! Com’è il tuo rapporto con quel ragazzo?" chiese la ribattezzata Lady Tiger.

"Basso. È simpatico ma non provo veramente nulla per lui, tranne un leggero sentimento di amicizia. Quando si arrabbia con me tratta male gli altri, chissà per quale motivo…"                                                                 
Diana trattenne un sorrisetto divertito e riuscì nel suo intento.

"Ah – aggiunse Nadya – c’è posta per te. Stamattina qualcuno ha bussato alla nostra porta e ha lasciato un pacchetto con una lettera allegata, ma del mittente nessuna traccia. Tieni."

Alla giovane guerriera venne consegnato un pacchetto avvolto in una carta regalo azzurra con stelle argentate ed un fiocco in tinta unita pieno di fronzoli, grande come un libro. La busta sembrava bruciacchiata e il suo sigillo di acquamarina raffigurava una rosa.                                                    

Diana ringraziò ed andò in camera sua, dove aprì la busta.

Che bella grafia aveva colui o colei che l’aveva scritta!

Ciao, Diana!  Io mi chiamo Erenide e sono la regina del

Regno Selenico, il luogo che dovrai salvare dalle grinfie del terribile Daemonium, il Mago del Fuoco. Durante il tragitto per salvare questo regno dovrai compiere alcune missioni e ritrovare i Quattro Talismani di questo territorio, combattendo come la guerriera che vuoi diventare. 

N.B.: Nella scatola ci sono un libro, la Chiave del Regno Selenico forgiata da Selene, un membro dei Malachitiani, i saggi del mio regno e le Gemme Sacre che dovrai utilizzare non appena verrà il momento.  Il libro si aprirà quando scoprirai qualcosa di nuovo e comparirà un settore dedicato a quella scoperta.  
Erenide

"Non ci posso credere! Io diventerò una guerriera! Una vera guerriera coraggiosa che combatte per difendere dimensioni parallele!" esultò la ragazza, stringendo a sé quel pezzo di carta che per chiunque sarebbe stato insignificante.
Non perse tempo e scartò il pacco, decise di conservare la carta stellata assieme alla lettera. Dentro c’era il libro, la cui copertina raffigurava una mano bianca aperta e, sopra

di essa, c’era lo stesso simbolo del sigillo che chiudeva la busta, ma anche una scatoletta marrone avvolta da un nastro bianco: sicuramente era la custodia della Chiave del Regno Selenico e le Gemme Sacre.                                        

“Gemme… Sacre… chissà quali sono!” pensò Diana.   In quel preciso istante il libro si illuminò e si aprì alla primissima pagina: parlava proprio di quelle Gemme.

Le Gemme Sacre, in lingua Malachitiana Saecras Jema, sono le sette pietre magiche che rappresentano i Sette Animi Nobili del Regno Selenico. Esse sono: 

  • Granito, rappresentante l’amore
  • Acquamarina, rappresentante la calma
  • Topazio, rappresentante i sentimenti
  • Quarzo Rosa, rappresentante la libertà
  • Perla, rappresentante il servizio
  • Rubino, rappresentante la malignità
  • Opale, rappresentante la bellezza

Tu, Diana, sei l’Animo Nobile dell’Acquamarina. 

La ragazza era affascinata da quelle parole: lei rappresentava la calma, aveva dei poteri probabilmente legati all’acqua… ma non aveva idea di quale fosse il suo nemico. Il libro girò le pagine e, dopo averne superate circa una cinquantina, si fermò. Mentre queste giravano, Diana si accorse che erano tutte… bianche! Perché?

Avrebbe risposto a quella domanda, ma non in quell’istante.

Ora era più importante scoprire qualcosa sul nemico.                       

Quando il Regno Selenico nacque, ci fu una specie di Big Bang: una massa di magia VagaVa nello spazio. Non appena troVò il punto doVe creare l’esplosione, si diramò: una massa creò il Regno, l’altra… un essere malVagio, fatto di fuoco e di odio, Daemonium. Sentitosi trascurato dalla Vita e dagli abitanti del Regno Selenico, questi decise che si sarebbe vendicato. Così, una notte, andò al magnifico palazzo di cristallo bianco di Erenide e rubò i Quattro Talismani che nascose in quattro territori di quel regno.                                                                      

Egli è uno dei Sette Animi Nobili e nessuno dei restanti, sicuramente molto più puri, è mai riuscito a rendere questo cattivo più buono e a riportare al loro posto i Talismani che mantengono l’armonia del Regno Selenico.
"Trascurato. Come hanno fatto i miei genitori con me, credo. Non so se li ho mai avuti o se sono nata, come Daemonium, da un secondo Big Bang" disse a voce molto bassa, più di un sussurro, la ragazza.
"Ora devo solo girare quella chiave… un momento, vediamo com’è fatta!" aggiunse, quindi aprì la scatoletta che le sembrava molto raffinata.                                                      

La chiave era d’oro e raffigurava sempre la rosa e, attorno ad essa, c’erano delle piccole conche: magari era a quello che servivano le Gemme Sacre! Esse avrebbero attivato la magia che avrebbe permesso a Diana di andare a combattere nel Regno Selenico, che lei stessa doveva salvare!                 

"Libro incantato, dimmi: in che modo devo mettere le Gemme Sacre nella chiave, sempre se lì le devo mettere?" chiese al tomo, sicura che avrebbe ricevuto una risposta.     Ma non successe niente, nemmeno un misero indizio scritto su un altrettanto misero post-it.

Tornò alla primissima pagina del libro e la osservò bene:

doveva partire dal Granito e doveva concludere con l’Opale. Ecco spiegato il motivo per cui il tomo non avesse aperto bocca (anche se non ce l’aveva): la soluzione ce l’aveva sotto il naso o, ancora meglio, sotto agli occhi!

Guardò la chiave per qualche secondo… una conca si era illuminata, quella in cima. Poi s’era illuminata quella sotto, sulla destra. La prima corrispondeva al Granito, la seconda all’Acquamarina. Diana prese le gemme e le infilò una ad una, ordinandole come nel libro. Quando tutte le Gemme Sacre vennero infilate, la chiave si illuminò e sopra di essa comparve una scritta per nulla fantasy, anzi, più fantascientifica:

BRAVA! HAI COMPLETATO LA PROVA! ORA GIRA LA CHIAVE ESATTAMENTE NEL PISTILLO DELLA ROSA E POTRAI ENTRARE, FINALMENTE, NEL REGNO SELENICO.

VELOCE, TI ATTENDIAMO!

La giovane guerriera si guardò attorno un’ultima volta: avrebbe abbandonato per sempre il luogo in cui era cresciuta, il suo ruolo, le persone che le avevano tenuto compagnia, che l’avevano sgridata, maltrattata e, altre volte, mandata a letto senza cena, al massimo con un po’di pane raffermo. Be’, quello davano da mangiare a coloro che non eseguivano gli ordini, non rispettavano Nadya e il capo del loro gruppo.  Diana afferrò la chiave e la girò al centro del simbolo aureo. Una luce accecante invase il dormitorio e lei, assieme alla chiave e al libro, scomparve.

Daemonium, nella sala del trono dalle pareti in rubino, stava istruendo la sua schiava prediletta, Morgana, su come ostacolare Erenide e creare nemici che avrebbero messo in difficoltà la sua allieva, scatenando terribili battaglie. Morgana, l’Animo Nobile della Perla, agitò i lunghi capelli bianchi e cominciò a danzare leggiadra, aggraziata e tranquilla: sapeva già quali passi doveva fare per creare il primo nemico di Diana.                                                          

Davanti a lei comparve una figura olografica immobile e, ai suoi lati, una serie di bottoncini raffiguranti delle parti del corpo: occhi, bocca, naso, capelli e l’icona di una maglietta, una con l’immagine di un pugno che significava “poteri” ed una con uno scettro. Doveva creare l’avatar del nemico, che lei stessa avrebbe gestito.                                                        

Venne fuori un uomo arabo con gli occhi marroni che emanavano uno scintillio maligno, alto e meno muscoloso di un culturista. In testa aveva un turbante bianco con un rubino: il logo di Daemonium. Indossava un gilet azzurro con ricami blu, una maglia color porpora e dei pantaloni rossi, con la stessa fantasia della maglia. I suoi poteri erano quelli di scatenare tempeste di sabbia e di utilizzarla per creare scudi, armi, scariche e sfere. Era furbo, strategico e forte, ma di livello uno, diciamo. Ciò significava che era il meno forte dei quattro cattivi da creare con gli ologrammi, ma qualche strategia ce l’aveva. La sua arma magica era fra quelle: con essa poteva creare persone di sabbia e di potenziare i suoi superpoteri, rendendoli quindi più letali. L’altra arma era Morgana in persona: lei sarebbe andata, vestita di volta in volta diversamente, ad aiutarlo: avrebbe creato altri avatar e li avrebbe controllati mentalmente.  

"Come lo chiamerai, servetta prediletta?" chiese quell’essere nato da un secondo Big Bang. "Lo chiamerò Saendorium! Sì, sì, suona bene come nome per un nemico che ha il potere di utilizzare la sabbia a suo piacimento! Presto, grazie a me, riuscirete a dominare il Regno Selenico, ad uccidere Erenide e Selene e a fare di loro quello che avete sempre voluto fare: trasformarle in astri grandi quanto un granello di Yunaemis!" rispose la serva.                                                                                      

La sua armatura, verde acqua scuro con dettagli d’argento puro e una ninfea verde chiaro al centro, scintillava come gli occhi di Saendorium, i suoi occhi verde acqua erano chiusi e la sua corona d’oro con una perla in centro luccicava. Da quella gemma, riusciva a tirare fuori la sua Spada della Saggezza, la quale le consentiva di lanciare scariche, sfere e scudi di luce.

Diana vagava nello spazio: era una cosa impressionante. Migliaia di piattaforme, ognuna con un territorio sopra, stavano attorno a lei, probabilmente per essere visitate. Erano collegate da scale di cristallo bianco con ringhiere d’oro e quella più in alto, nonché quella più vasta, brillava di una luce arcana e bianca: sicuramente c’era il Castello di Erenide, sempre se un castello ce l’aveva. Quello appena meno vasto, invece, aveva una specie di tempio verde acqua ed emanava un fumo azzurro intenso: secondo la ragazza, quello era il luogo in cui i Saggi si radunavano per organizzare guerre, scoprire cose, creare teorie e giochi e, a volte, ospitavano Erenide, la perfezione. Solo una di quelle magnifiche terre brillava di rosso ed emanava un fumo dello stesso colore: sicuramente era il primo fra i quattro territori che doveva visitare. 

Dal nulla apparve Libera: obbligò la sua padrona a saltarle in groppa e la tigre corse: sapeva la direzione da prendere ed era quella che immaginava anche la Guerriera dell’Acquamarina. Il suo animale da compagnia fece una cosa assurda: le parlò e le disse quali erano i suoi poteri e le descrisse il territorio: come si chiamava, quale nemico avrebbe affrontato lì… questo genere di cose, insomma. "Questo è il Crystal Saendoric, il Territorio dei Topazi. Dovrai affrontare Saendorium: lui può utilizzare la sabbia a suo piacimento. Non è molto forte, è un nemico di primo livello, ma può potenziare i suoi poteri facendo roteare il suo scettro d’oro. Non so dirti se questi è un avatar creato dalla serva di Daemonium, Morgana, che lo può fare, oppure se è una persona materiale, come te. Pronta a combattere?" disse.                                                             

"Certo, ma… come faccio ad evocare i miei poteri? Sono una guerriera da pochissimo tempo e già pretendi che sappia lanciare incantesimi?" rispose Diana.

"Pensa a che genere di attacco vuoi lanciare, per esempio un uragano acquatico. La tua mente ti suggerirà di fare un movimento, in questo caso roteare, si impossesserà del tuo apparato locomotore e te lo farà fare, riuscendo nell’attacco. La mente di un guerriero non può sbagliare, tranne nei casi di quarto livello, ossia l’assoluta debolezza per l’eroe. Durante questa battaglia non ti potrà succedere, te lo assicuro!" rispose Libera.

"Quale fra i Talismani devo recuperare?"                               

"Visto che è la capitale, diciamo, della regione di Thopaxius, dovrai recuperare l’Orecchino dei Sentimenti: non appena sconfiggerai Saendorium comparirà davanti a te quell’oggetto ed avrai dieci secondi per prenderlo. Fatto ciò, si applicherà all’orecchio da solo, anche senza che tu abbia il foro per gli orecchini, ok?"

Non appena ebbero varcato quel fumo velenoso e Libera ebbe “parcheggiato”, si scatenò una tempesta di sabbia e da essa apparve Saendorium. A seguire, una perla danzò nel cielo e atterrò, poi si aprì: ne uscì una ninfea luminosa che emanava una luce bianco-rosa e comparve anche la serva preferita di Daemonium.

Giulia si fermò a pensare. Sapeva chi far vincere, fra i buoni e i cattivi, ma non trovava le parole per rendere avvincente e fantasy quella battaglia. Guardò fuori e… l’ispirazione le venne come se niente fosse.

Diana pensò velocemente a quale attacco poteva usare per primo: sfere d’acqua. La sua mente s’impossessò in modo molto rapido dell’apparato locomotore e dalle mani della ragazza scaturirono ininterrottamente quelle sfere, ma Saendorium fu più svelto e le bloccò con uno scudo di sabbia. 

Morgana passò all’attacco: una raffica di sfere di luce, tutte direzionate verso la sua nemica. Istintivamente, quest’ultima creò uno scudo e, facendo il gesto del cuore con le mani, lanciò una violenta scarica contro Perla, che sparì senza sapere come, dalla capitale della regione di Thopaxius.                                                                        

Saendorium passò all’attacco: lanciò delle sfere di sabbia e, come se non bastasse, fece rotare il suo dannato bastone: Diana ne materializzò uno fatto d’acqua e rispedì gli attacchi al suo nemico che, finalmente, s’era indebolito.

La ragazza e il nemico attivarono le loro scariche e quest’ultimo fece roteare il bastone con una mano: lei sembrava indebolita, ma… l’uragano d’acqua! Subito roteò su sé stessa con una velocità impressionante e Saendorium scomparve, senza lasciare tracce di sé.
Libera esultò e anche Diana, poiché era riuscita in quella sua prima missione. Comparve l’orecchino, lo afferrò delicatamente ed esso si agganciò al lobo del suo orecchio sinistro.                                                                               

Attorno alle due compagne di avventura comparvero un sacco di case di topazio e delle creature, tutte donne. Non erano troppo alte ed erano magre, avevano la testa a goccia con un topazio sulla fronte. La loro pelle era tutta gialla e anche i loro occhi e i loro vestiti, delle “uniformi” simili a quella di Diamante Giallo in Steven Universe.

"Ciao, noi siamo le Topaziane, le creature che popolano la nostra regione. Io sono Haneyelas, la loro regina, voglio parlare con te. Sai, vero, che non puoi uscire dal Regno Selenico fino a quando non lo avrai salvato, combattendo i nemici dal primo fino all’ultimo?" chiese una di esse.

"No, Libera, la mia tigre, non mi ha detto niente. Questo vorrebbe dire che non potrò tornare alla mia comune fino a quando non porterò a termine la mia missione da guerriera fantasy?" domandò Diana, anche se sapeva di avere ragione.           

"Non te la prendere, cara, ma sì, è così. Sarai stanca, suppongo, quindi dovrai riposare… tieni, mangia questo e dormi. Siamo brave persone, noi Topaziane, fidati, anche se fosse l’ultima cosa che fai. Vero, Libera?"
La tigre azzurra annuì solennemente: ciò voleva dire che c’era da fidarsi.

Haneyelas diede alle due amiche inseparabili lo stesso cibo:

del purè fatto con chissà quali patate con dei pezzetti di topazio in mezzo e un bicchier d’acqua. La regina aveva spiegato che quell’acqua era il regalo di una divinità nella quale credevano, chiamata Domenicana. 

C’era una storia, dietro. Un giorno, un avventuriero chiamato Saynvil, partì verso la regione di Thopazius: aveva sentito dai suoi amici della sua bellezza e quindi voleva 15 vedere com’era. Quando, dopo pochi giorni, fu a metà strada, si rese conto che non aveva mai mangiato né bevuto. Così si accasciò per terra, ma non arrivò nessuno a soccorrerlo. Domenicana se ne accorse e prese dal Mare della Serenità l’acqua sacra e la gettò su Saynvil. Egli ne bevve solo dieci gocce, mentre tutto il resto finì nelle altri regioni. In pratica egli aveva sacrificato la sua vita per la scienza. Oggi si crede che Saynvil sia morto, perché non fu più ritrovato e, addirittura, alcune persone ritengono di averlo conosciuto davvero, dicendo che era un uomo simpatico e determinato…

Daemonium, seduto sul suo trono su cui solo lui poteva stare, era infuriato come non lo era mai stato prima:

lanciava sfere di fuoco in ogni angolo della stanza e ognuna di esse era rivolta verso Morgana, che correva spaventata di qua  e di là e creava firewall pur di non farsi colpire: sembrava di essere in un videogioco in cui la protagonista era lei. Se non vi è ancora chiaro, aveva il potere della tecnologia, con la quale poteva fare tutto, dagli avatar agli attacchi.                                                                                   

Il nemico, ad un tratto, si fermò a pensare: aveva senso colpire la sua serva? La sua preferita? No, non era sensato, anche perché Saendorium era un nemico di primo livello, ma… c’era un ma: era troppo cattivo e ,in quanto tale, doveva punire i fallimenti altrui.                                                       

"S’è guadagnata un talismano, maledizione! Morgana, sai dove ho nascosto il secondo, vero?" chiese.
"Certo! A Granithian! L’Anello dell’Amore l’ho spezzato, cosicché quegli esseri blu e rossi scatenino il più grande femmine contro maschi che si sia mai visto nella storia! Sono stata geniale, non è vero, sommo Animo Nobile?" rispose l’Animo Nobile della Perla. Poi cominciò a danzare, facendo più movimenti della volta precedente: era pronta a creare un altro avatar, stavolta una femmina.
Era alta ed aveva un abito corto colorato con vari rosa. I suoi capelli corti erano di un rosa molto pallido e i suoi occhi erano di un rosso magenta molto scuro, quasi viola. Il suo sguardo si faceva malvagio ed acido quando si rivolgeva alle persone che si ribellavano e gentile con le persone a lei amiche. Ma a Daemonium non piaceva: quindi la serva fu costretta ad apportare qualche modifica. Le mise delle ali da angelo bianche e il potere dell’amore. La sua arma era una spada di cristallo rosa, in grado di raddoppiare, triplicare o quadruplicare la sua altezza e quindi i suoi superpoteri. Sembrava un boss finale di un videogame, anche se era solo un “enemie” di secondo livello.
"Questa donna si chiamerà Quartz Queen, visto che è rosa come i quarzi! Sapete, padrone, che questa qua può frantumare un pianeta semplicemente sfiorandolo con l’unghia?" spiegò la ragazza.               
"Mi piace! Mi piace moltissimo! Non farmi un regalo né per Natale né per il compleanno: è questo, quindi non sforzarti. Ho un’idea: non appena creerai un terzo avatar, potremo fondere tutti i nemici di quella ragazzina insolente e crearne uno con le sembianze di Saendorium, il corpo di Quartz Queen e i poteri della “new entry”! Non sarebbe magnifico? In questo modo, l’universo sarebbe mio! Ah, già che ci sei: ti donerò un nuovo potere, visto l’aiuto che mi stai dando!"                                                                               

"Entrambe le idee mi piacciono tantissimo, sapete? Quindi vi accontenterò. Quale sarebbe il mio nuovo potere, sommo padrone?"

"Ti dono il potere di fonderti ai nemici che crei, in modo tale da fortificare sia i tuoi poteri che quelli degli avatar per lo scontro finale. Se accetti, mangia questo frammento di diamante. Se non accetti, cancellerò il nemico che hai appena creato per sempre e anche i tuoi poteri".
"Accetterò senz’altro! Dammi qua e dammi il tempo di spaccare tutto!" disse Morgana. Prese quella scheggia e la mangiò di gusto. Qualsiasi gemma, purché fosse fra quelle Sacre, se mangiata, donava nuovi poteri, indipendentemente dal guerriero, sempre diversi fra loro. Ad esempio, l’Animo Nobile della Libertà, mangiando un granito, avrebbe potuto ritrovarsi il potere dell’amore. E nel cuore di Quartz Queen c’era un rubino ad alimentarne i poteri.

"Andiamo a portare un po’di sconquasso in quel territorio!" gridò Morgana. Lei e l’avatar dallo sguardo acido andarono in meno di un nanosecondo su Granithian, dove si unirono:

Morgana controllava Quartz Queen da dentro e lei obbediva…

Libera e Diana erano partite da Thopazius: si erano accorte che il fumo era tornato e stava avvolgendo la regione di Granithian. La tigre con lo zaffiro in fronte che, in un tempo che sembrava lontano ma era vicino, s’era arrampicata sopra alla grondaia per poi fregare di nascosto un tozzo di pane alla povera Edna Ashton-Meier.  Raggiunta la meta, videro questa gigantessa rosa da capo a piedi e si spaventarono: sembrava minacciosa e odiosa, infatti lo era: tutto quel rosa la faceva sembrare antipatica più di una bambina di cinque anni ricca sfondata, capricciosa e riverita come una divinità e che come risposta ha solo "Sì".

"IO – urlò, con la sua voce forte e antipatica – SONO QUARTZ QUEEN, L’UNICA, VERA, REGINA DI QUESTO MONDO! ALTROCHÈ ERENIDE CON TUTTE LE TENTAZIONI! NO, LASCIATELA PERDERE! UBBIDITE TUTTI A ME!"
Diana passò subito all’attacco, facendo un doppio turbine d’acqua, il quale non sembrò fare nemmeno un graffio alla gigantessa, che  cominciò subito a scagliarle contro cuori a raffica, il che la faceva sembrare la protagonista di un manga in stile Sailor Moon. L’eroina lanciò  sfere d’acqua all’impazzata e creò uno scudo per difendersi da tutti quei cuori. Esso faceva uscire solo gli attacchi d’acqua e la sua creatrice, in modo tale da difenderla da ogni attacco. Però Quartz Queen non sembrava contenta di come stavano andando le cose e, dopo aver ruggito (diciamo), duplicò la sua altezza.Continuò a scaricare raffiche di cuori, saette, cuori infranti e, non contenta, cominciò anche a parlare mentalmente alla sua avversaria: "Ti piace Friedrich… non riuscirai mai a salvare il Regno Selenico… Erenide ti schiaccerà con il suo piede, perché è della mia altezza… unisciti a me… io ti voglio bene…". E fu questo a far incattivire l’Animo Nobile dell’Acquamarina: "ARPA ACQUATICA!" gridò e, in mano, le comparve un’arpa fatta d’acqua. Cominciò a suonarla: da essa uscivano note soavi e ammalianti, quasi seleniche, le quali spinsero Quartz Queen ad utilizzare lo stesso attacco: fu una gara a colpi di note e la nemica sembrò avere la meglio, fino a che Diana, mentre suonava, creò un turbine d’acqua che vorticava velocissimo. Poi si sentì la terra tremare e una mano d’acqua con un’acquamarina incastonata al centro del palmo prese per il collo la gigantesca donna rosa e la buttò a terra… sfiorandola con l’unghia. In quel momento successe una cosa assurda nel migliore dei modi.

Diana venne travolta da una massa d’acqua che prese le sue sembianze e che venne controllata da lei, nei movimenti e nelle parole da utilizzare. E disse: "Quartz Queen, la terribile e cattiva donna rosa che aiuta Daemonium e la sua serva, Morgana, nella loro missione, ti ritengo ufficialmente bandita dal Regno Selenico!"
"Chi sei tu per dirmi se sono bandita, eh? Chi? Ah, forse lo so: una bambina grande quanto il palmo della mia mano che gioca a fare la supereroina!" ribatté la nemica.
"No, non lo sai! Sei grande e grossa, tu, ma il tuo cervello rimarrà per sempre una caccola! E ora, se mi permetti, l’acqua ti trascinerà nello spazio e ti disintegrerà, o meglio, spargerà l’energia di cui sei fatta!"

"Fermati! La puniremo, certo, ma non in modo così crudo… basta solo che la sgridi, nessun castigo. Essere rosa, riduci le tue dimensioni e vieni a vivere con noi. Torna alla tua altezza originale" disse una figura blu, affiancata da una rossa.

La prima aveva la pelle blu chiaro, i capelli lunghi e turchini, gli occhi azzurri e un abito lungo e blu notte, bianco e nero ed era alta come una Topaziana. La seconda aveva i capelli castano scuro corti e la pelle rosso chiaro, gli occhi rosso carminio, una maglietta nera e i pantaloni in tinta con gli occhi ed era alta come l’altra creatura.  

"Io – disse – mi chiamo Zealan e sono un Granitiano. Lei, invece, è la mia migliore amica Oranel. Nel vostro mondo li tradurreste come Zeno e Ornella, ma chiamateci coi nostri nomi non tradotti. Sappiamo tutto di tutti perché crediamo in Amoriana, l’equivalente di Afrodite. Abbiamo tenuto noi due il Secondo Talismano, perché egli ce l’ha concesso. Non pensare che siamo strani, ma siamo in sintonia con tutto" disse Zealan.                                                                               

"Non abbiamo una regina ,ma la stiamo cercando da una vita e oggi si è presentata l’occasione giusta. Quartz Queen, volete diventare la nostra sovrana oppure no?" chiese Oranel. 

Morgana era uscita dal corpo dell’avatar e l’aveva fatto diventare una persona materiale: una buona azione se la poteva concedere, una volta ogni tanto, all’insaputa del padrone.                                                                           

Quartz Queen scosse la testa come se si fosse appena svegliata da un incubo e si fece spiegare dai due Granitiani l’accaduto. Raccontò che il suo corpo era stato posseduto da una persona molto cattiva di nome Morgana, una creatrice di avatar che aveva dato vita anche a lei stessa.    "Allora, accetterete di diventare la regina tanto attesa di questa regione? Se ve la sentite, altrimenti…" ridomandò Zealan.

"Ne attendavate una da secoli, cioè la mia età. Ed ora eccomi, quindi portatemi alla mia dimora, umile o sfarzosa che sia" rispose la donna rosa, che si fece indicare la strada dai due Granitiani. Anche Libera e Diana, visto che la notte si stava avvicinando, alloggiarono assieme all’exavatar nella sua camera, in un gigantesco letto a baldacchino rosa.

Morgana stava spazzando la sala dove Daemonium era solito stare, ossia quella del trono dalle verdi pareti. Egli sembrava pensieroso: forse aveva qualcosa da dirle e doveva trovare le parole per non essere troppo crudo, anche se era un nemico veramente forte per quella tigre azzurra e quella guerriera senza spade.

Morgana scacciò dalla testa tutti quei pensieri e si concentrò solo sul primo: quale sarebbe stata la cosa che doveva dirle il suo padrone? Magari che voleva sposarla e si vergognava di dirglielo… no, generalmente i malvagi più malvagi rimanevano single.                                                  

"Morgana, ecco… io credo che gli avatar che stai creando non siano sufficienti per generare  scompiglio fra le regioni e fra gli abitanti. Ho sentito che Quartz Queen è diventata la regina dei Granitiani e so anche che è stata tutta colpa tua, l’hai lasciata andare! Meriti la morte, per questo! Ho già trovato una soluzione per conto mio, quindi non puoi fare più niente. Vuoi dire qualcosa nei tuoi ultimi minuti di vita, che io scriverò e metterò nella Sala Archivio?" disse, infine.                                                                                     

"Sì. Siete stato un ottimo padrone e le ripeterò il giuramento che ho fatto. Un servo del male non ama, ma odia. Un servo del male odia la vita, ama la morte. Un servo del male non difende, ma attacca. Un servo del male non usa i suoi poteri per la luce, ma per l’ombra" rispose la ragazza.                                                                      

Daemonium materializzò un portale di fuoco e la serva lo oltrepassò. Il suo corpo disteso venne messo dentro ad una bara di vetro e la sua anima fu libera di raggiungere Ade negli inferi.                                                                      

"Bene, ora che Morgana ha raggiunto Ade, posso utilizzare il mio bastone magico e usarlo contro i re o le regine delle regioni che verranno dominate dal male! Li userò come marionette e mi nutrirò della loro energia magica, che mi renderà più forte per la battaglia finale! Diana non riuscirà mai a sconfiggermi! Il Tempio dei Rubini Danzanti sarà l’edificio più importante di tutto il Regno Selenico!"   Lo stregone, dette queste parole, scoppiò in una risata satanica.

Nel frattempo, Diana aveva appena appreso l’incantesimo per il cambio di look e si era messa un costume da bagno per nuotare assieme alla gigantessa nelle piscine idromassaggio che avevano installato nel suo palazzo. Ne era proprio soddisfatta e passava la maggior parte del tempo a divertirsi con lei, mentre Libera pensava ai cavoli suoi.
La guerriera e la regina stavano a mollo così tanto tempo che si trovavano le dita non da rana, ma peggio, reagivano ridendoci su e poi si immergevano nuovamente. Facevano gare di nuoto e la ragazza si allenava a fare le bolle d’acqua, che poi scoppiavano in faccia alla sua compagna di nuotate, che cominciava a schizzarla e lì non finivano più di attaccarsi in ogni maniera. Dopo qualche ora di guerra uscivano finalmente dalla piscina rosa e andavano a fare la doccia, insomma: trascorrevano tutto il loro tempo assieme.
Ma Libera, che cosa faceva nel frattempo? Stava sempre nella stanza (rosa, come tutto il resto del palazzo) chinata davanti ad un altare di cristallo bianco e azzurro, a fare chissà che roba. La sua compagna d’avventura se ne accorse e le andò vicino, cercando di mettere le cose in chiaro.

"Il mio zaffiro, la pietra dell’oceano… mi duole. Non è mai successo e, se si dovesse essere sigillato non potremo mai più tornare indietro, a casa, sulla Terra. Ho mandato a chiamare immediatamente la migliore guaritrice del palazzo, Edera. Si occupa anche di Gemme Sacre, sicuramente saprà aiutarmi, o almeno… lo spero" disse la tigre.                               

"Non è che stai sforzando troppo un tuo potere che non conosco? Magari quello di metterti in contatto con Erenide o qualcosa del genere e proprio per questo motivo la tua magia rischia di dissolversi?" chiese Diana, tentennante. "No. Quel genere di magia mi è stato proibito. Ah, sì, giusto, non conosci la storia di Aberdeen, vero? Se la vuoi conoscere, mettiti qui ed ascoltami attentamente. Se vuoi capirla veramente, non devi perdere il filo del discorso" rispose solennemente la tigre.

Aberdeen era una ragazza come tante: giovane, gentile, bella ma senza amici. Questo era dovuto alla sua “stranezza”: era in grado di stregare, di evocare spade, fare incantesimi ed evocare armi leggendarie. Un giorno Aberdeen ricevette una chiave, un pacco contenente un libro e una lettera che diceva di girare la chiave in aria in senso orario e, solo allora, capì tutto: era un Animo Nobile, uno di quegli eroi che sentiva nominare nelle leggende che si raccontavano in città. Entrò in quello che, da quanto si ricordava, era il Regno Selenico e si trovò nelle sale cristalline del palazzo della ex-regina di quel magnifico posto: Granovia. Con il suo magnifico potere, le onde, riuscì ad annientarla e subito la porta si spalancò ed apparve Erenide, chiamata anche La Promessa della Libertà, coi suoi capelli rosa a boccoli, la sua carnagione e il suo abito bianco e la sua statura colossale.                                                                                       

"Tu sei l’Animo Nobile dello Zaffiro, colei che usa le onde per fare del bene. Ti nomino ufficialmente ninfa dell’oceano, Aberdeen, se per te va bene. Allora, tocca questa sfera di luce rosa se acconsenti, altrimenti combatti le tue battaglie".

"Ma non dovreste decidere voi il mio destino? Non è importante la vostra decisione, Promessa della Libertà?" le chiesi, dopo quella proposta che mi mandò in agitazione. "No. È importante quello che desideri tu, in questo momento. Preferisci combattere per le tue ragioni o proteggere il mare e basta perché vuoi avere il potere? Il potere che non potrai usare quando combatterai per i tuoi moventi? Non voglio tentare nessuno, sentiti libera" rispose. 

Aberdeen guardò: i suoi vestiti erano scomparsi e li aveva sostituiti un’armatura blu con decori argentati e uno zaffiro in centro. Sentiva che sulla sua fronte c’era qualcosa di solido e si toccò il punto in cui lo sentiva: era comparso uno zaffiro anche lì. Aveva trovato la risposta da dare ad

Erenide.                                                                                   

"No, non voglio diventare una ninfa. Ho capito qual è il mio destino: combattere per voi e le cose che ho vissuto da piccola perché non voglio si ripetano verso persone innocenti. Ritirate pure quella sfera, non la voglio toccare" le disse, quindi.
"Questa Aberdeen mi ricorda un po’te: nessuno ti ha mai voluto bene, oltre me, giù in paese. In più quello zaffiro sulla fronte è identico a quello della trascurata… un momento, non è che Aberdeen… sei tu?" chiese Diana, ma

Libera continuò.                                                          

Quell’Animo Nobile combatteva nel Libero Esercito, affiancato dagli altri guerrieri delle Gemme Sacre, tutti meno due: Daemonium e la Guerriera dell’Acqua. Ma un giorno, appena svegliatasi al suo casolare, le venne un’idea: se avesse Sigillato nel profondo del mare e poi tagliato in due gli altri membri del suo esercito sarebbe diventata più potente di chiunque altro e mise in atto il suo piano. Ma non aveva fatto i conti con Erenide, la quale si arrabbiò molto e la punì, bloccandola nel corpo di una tigre simile alla punita.

"Quindi ho indovinato! Sei tu Aberdeen! Ed ecco, probabilmente, per quale motivo non puoi più comunicare con lei! Ma allora, perché sul libro non eri segnata quella volta?" domandò l’umana.

"Quando non puoi più tenerti in contatto con Erenide, vieni dimenticata da tutti, anche dai tuoi ammiratori, dai libri e dalle testimonianze della tua vita. Ma tu ti ricordi di me e il motivo è semplice: se i due Animi Nobili che non avevano ancora iniziato a combattere nell’Esercito mi avessero incontrata, sarei diventata la loro amica. Non posso appartenere ad entrambi e ho deciso di mia spontanea volontà di stare con te: primo perché sei una brava ragazza, secondo perché il male sarebbe avanzato, se mi fossi messa con Daemonium" spiegò Aberdeen.

"Dobbiamo far cambiare idea ad Erenide, assolutamente! A proposito, dov’è finito il Libro che proprio costei mi ha mandato?"                                                                                

"Dentro alla borsa a tracolla. A proposito, ho visto che si sono aggiunti nuovi capitoli completi di disegni fatti da Selene. Sai che è lei la creatrice di quel libro? Comunque, troverai tutto scritto là".

Diana prese in mano la borsa (non ricordava di averne portata una, forse era uno dei poteri della sua tigre, quello di materializzare le cose!) e prese il volume. Lo aprì dall’ultima pagina consultata e girò quelle nuove: Aberdeen.

Dumas – La Storia, L’Orecchino dei Sentimenti, L’Anello dell’Amore, Saynvil – La Leggenda… l’Anello dell’Amore! Non le era ancora stato consegnato! 

Ma proprio in quel momento la mesta Oranel bussò alla porta di Diana e, per la prima volta da quando quest’ultima l’aveva vista, abbozzò un sorriso gentile.

"Zealan e io siamo stati sbadati, non ti abbiamo ancora dato l’Anello dell’Amore e me ne sono resa conto adesso. Fanne buon uso. Abbiamo in programma di sposarci e tu e la tigre siete invitate, non mancate" disse, poi consegnò il Talismano: era fatto di rubino, mentre il cuore era blu. A seguire, la ragazza triste uscì dalla stanza e lasciò leggere Diana in pace.

L’ORECCHINO DEI SENTIMENTI

È il gioiello custodito gelosamente dalle Topaziane.

Schiacciandolo una Volta emana scariche gialle che rendono buoni i cattivi e tolgono loro i poteri oscuri conferitili.

L’ANELLO DELL’AMORE

È il gioiello custodito gelosamente dai Granitiani. Facendolo ruotare si può ottenere il potere dell’amore, ma solo dal momento in cui si ottiene all’alba del giorno dopo.

Diana mise l’anello al dito e si fermò a pensare: era meglio utilizzarlo subito per poi mostrarsi deboli nelle prossime battaglie o tenerlo da parte per essere più forte? Mah, meglio optare per la seconda opzione. Libera emise un gemito e il che distolse la sua amica dalla decisione: guardò lo zaffiro e notò che c’era una crepa profonda che lo tagliava a metà, ma non in modo simmetrico. Il bello della situazione? Edera non era ancora arrivata.

Sul manto azzurro della tigre stregata apparvero  graffi e sul pavimento rosa comparvero pian piano chiazze di sangue che sembrava non fermarsi mai e la guaritrice non s’era ancora fatta viva. La situazione peggiorava e quella povera belva stava probabilmente per esalare il suo ultimo respiro, ma nessuno di noi spera che faccia ‘sta fine, dico bene?

In quel momento un maestrale aprì la porta e comparve una donna non molto alta, coi capelli lunghi, lisci e bianchi, molto magra, con gli occhi fatti di luce e la pelle un po’marroncina e un po’verde prato. Indossava un abito lungo in tinta unita e aveva una borsa di cuoio a tracolla col manico d’edera: eccola, era arrivata a salvare la vita ad una povera creatura.                                                                      

Creò una sfera verde con attorno un alone di luce bianca e la lanciò contro il corpo della tigre, cosicché i tagli si richiudessero e così successe. Ma i tagli continuavano ad aprirsi, anche se la salvatrice continuava a lanciare quell’incantesimo. Prese dalla sua borsa una boccetta contenente un liquido verde menta e lo versò nella crepa: ne mise la quantità giusta, non un litro di più o di meno. Il taglio si chiuse fino a metà, ma poi si riaprì di nuovo. La donna riprese in mano la boccetta e ne versò il contenuto fino alla prima metà del taglio, poi prese un altro liquido di un verde più scuro e riempì la metà rimanente. Infine prese una polvere grigia e la sparse lungo la ferita, che infine si richiuse.                                                                            

Edera aveva salvato Libera, la morte non aveva fatto in tempo a trascinarla nell’Aldilà assieme a Morgana, per poi consegnarla ad Ade. Diana stava recitando una preghiera e la tigre stava guarendo: era viva, ma non si era ripresa del tutto e la guaritrice disse: "È salva ,ma avrà bisogno di qualche giorno per riprendersi completamente. Torna a goderti i tuoi bagni con Quartz Queen, che penso io a lei. Questo significa anche che la tua missione non potrà riprendere immediatamente, a meno che la sovrana non ti ceda uno dei suoi Draghi del Dualismo" spiegò. Il libro si aprì di nuovo e comparve un nuovo capitolo che parlava appunto di questi draghi arcani.

DRAGHI DEL DUALISMO

I Draghi del Dualismo sono dei draghi nati dagli elementi, dai contrari, più precisamente, che si sono fusi. L’Acqua e il Fuoco, il Giorno e la Notte, la Luce e il Buio, il Bene e il Male… e questi sono esempi del significato di “dualismo”. Si aggiunga che questi draghi hanno il cerVello diViso in due parti, ognuna controllata da uno degli elementi che lo compone. Le due parti del loro cervello spesso non Vanno d’accordo. Sono molto difficili da tenere a bada, in particolare quello della Terra e della Roccia, che non ubbidisce mai e mai lo farà. Molti gioVani hanno proVato a capire questo drago, ma nessuno c’è mai riuscito perché c’han lasciato tutti le penne. Solo uno fra questi, F. Vibra (nome sconosciuto), è arrivato Vicinissimo a conquistare i sentimenti del Drago del Dualismo più pericoloso fra tutti.

"Mah. Edera, sai dirmi per caso dove trovare questi Draghi del Dualismo? Devo recuperare il prossimo Talismano e devo fare presto, non voglio che Daemonium abbia la meglio su Erenide. Devo far sì che il male fermi la sua spavalda avanzata per sempre, ok?" disse Diana e, nel frattempo, notò che Libera s’era addormentata. Edera disegnò una freccia nell’aria ed essa si materializzò, fatta di piccole luci verdi e brillanti. La guaritrice disse che bisognava seguirla sempre e solo in quel modo si sarebbe rivelato il luogo in cui quei mistici esseri erano rintanati.  La guerriera esplorò moltissime stanze del palazzo, fra cui il guardaroba inaccessibile della regina dei Granitiani: pieno di vestiti, scarpe e accessori completamente rosa e giganteschi, vista la statura di quella donna magica.                                       

Infine, raggiunse una specie di fienile in cui c’era un drago con la pelle verde sfumata di marrone e con una bella corporatura: era perfetto, tranne che per una cosa che Diana intuì subito: era quel drago. Quello della Terra e della Roccia, il più temuto, il più incontrollabile e, per sfortuna della ragazzina, l’unico disponibile. Un uomo raggiunse l’avventuriera e le disse, indicando il Drago del Dualismo: "So cosa stai per chiedermi e la risposta è sì. Questi bestioni sono i mezzi più usati – e favoriti – dai Granitiani e stanno tutti molto attenti a non prendere proprio questo essere indomabile. Comunque, mi chiamo Raodon e sono il Guardiano" disse.                                                                          

La guerriera guardò negli occhi scintillanti e abbastanza benevoli del drago: come lo capiva! Si sentiva sola anche lei, a volte, mentre stava nella comune e accarezzava la sua povera tigre stesa sugli asciugamani che facevano da letti ai ragazzi senza casa che vivevano come fratelli ed occupavano quel posto abbandonato. E poi c’era Friedrich, Friedrich che la trattava male e che le rispondeva in ugual modo, ma lo faceva con un fascino che la rendeva pazza di lui. Nessuno, nemmeno Nadya, era al corrente di questa cotta, ma quel bulletto… anche lui provava qualcosa per Diana, in segreto, anche se stava con Nadya. Ma adesso basta parlare di amori e torniamo a quello che veramente ci interessa: come andrà a finire ‘sta storia col drago. 

"Lo prendo" disse la guerriera e poi salì al galoppo energicamente e, stranamente, il “pericoloso” Drago del Dualismo rimase impassibile: dentro di lui si sentiva più rilassato, più gentile, più buono…  

"Sommo drago, portami nella nuova zona in cui Daemonium ha lasciato la sua energia negativa. Sei un buon amico gentile, sai?" gli disse l’Animo Nobile con fare affettuoso ed egli si sentì calmo come non mai, non ripudiato da tutti come sempre. Volarono fino ad una nuova regione e il drago non fece nulla di strano: né si ribellò, né si comportò male, né uccise la sua guidatrice, anzi: alla fine creò un cuore di fuoco che rimase in aria per un lungo periodo.

Il suolo di quel posto era di quarzo splendente e camminarci sopra faceva uno strano effetto.

Diana si accorse però  che il quarzo da rosa stava diventando nero e tutto grazie ad una donna che stava emanando energia negativa da tutte le parti: era alta e magra con lunghi capelli neri, la pelle bianca e senza la faccia. Indossava un principesco abito nero e bianco e rideva in maniera impressionante. Ad un tratto si girò e notò che le era passata davanti una ragazza molto bella) e soprattutto… con una faccia! Subito dalla sua faccia pallida comparve un raggio di luce dello stesso colore e subito dopo la donna senza volto scomparve, mentre Friedrich prese il suo posto e corse incontro alla sua amante.                                                                                   

Si misero a ballare un valzer e alla ragazza parve di sentire la musica che andava lenta per creare un’atmosfera romantica. Ma c’era qualcosa di strano in quel ragazzo, era forse la sua voglia di essere gentile con lei almeno per quella volta, il fatto che stesse ballando con lei o… le sue labbra. Ecco cosa: le sue labbra! Da rosa erano diventate nere e probabilmente era il suo nuovo nemico e voleva infettarla con la negatività grazie ad un bacio. Sì, sicuramente era così. Infatti , scansò subito e lo attaccò, ma lui rimase impassibile. 

"Dolcezza – disse – per quale motivo scappi da me, il tuo amato Friedrich? Non ti ammazzo mica, voglio solo darti un bacetto… me lo consenti?"                                                        

"No. Vai via, coraggio, non voglio baciarti, non adesso… non sei tu! Sei la donna misteriosa!"
"Ma non succederà niente! Non sono l’amore della tua vita? E tu non sei il mio?"                                                              

"Non in questo caso! Sei falso, perché… qual è il colore preferito di Friedrich, se lo sei veramente?" Rosso. Sapeva la risposta da quand’era nata. "Verde, la risposta è verde. Vesto di verde, non te ne sei accorta, baby?"

Il ragazzo avanzò verso di lei.Le serviva uno specchio magico di quelli che mostravano la vera identità delle persone che vedeva nei fumetti lussuosi che leggevano i ragazzini ricchi. 

Quelli gentili e non troppo viziati, quelli che piacevano a lei, le persone normali. Né con troppi soldi né con troppi pochi.                   

Ed ecco che comparve  un gigantesco specchio d’acqua con una magnifica cornice: sul vetro c’era disegnata la donna di cui non si sapeva il nome e il bullo scomparve, lasciando il posto a chi era veramente e che attaccò la ragazza con una scarica di energia nera che la ferì gravemente, creandole un taglio profondo sul braccio, ma non ci badò.  Si scagliò  sulla nemica creando una mano d’acqua, ma la donna senza volto di cui non conosceva il nome ne creò un’altra fatta di negatività: sembrava che i due giganteschi arti superiori 32 stessero facendo braccio di ferro. Diana perse quella sfida, ma non si perse d’animo: cominciò ad attaccarla con delle sfere d’acqua e la nemica si difese in ugual modo. Diana provò con ogni mezzo a sua disposizione, anche con l’uragano d’acqua e l’Arpa Acquatica, rendendosi poi conto di quant’era doloroso e si ripromise che non l’avrebbe fatto mai più, se non fosse stato per Erenide-

Si sentì svenire e si ritrovò in una dimensione parallela fatta di nuvole di un azzurro molto chiaro. Una voce robotica e soave allo stesso tempo le disse di riflettere, ma… su che cosa non l’aveva rivelato e il che rendeva il gioco difficile. Le comparve davanti una nuvola rosa rettangolare e dagli angoli stondati: su di essa c’era un video, un filmato, come quelli che si vedono su YouTube e osservò attentamente. Stava riproducendo la battaglia avvenuta poco prima che perdesse i sensi e si ritrovasse lì e intanto una cosa era stata chiarita: quando perdeva i sensi poteva accedere a mondi strabilianti.                                           

Dopo qualche minuto si accorse anche di un’altra cosa, però: quando attaccava la donna senza volto, questa rispondeva in ugual modo ma utilizzando i suoi poteri. Pensò al suolo di quarzo della regione di cui non conosceva il nome che rifletteva la sua immagine… specchio. Ecco la parola che collegava quei due dettagli. Sentiva di essere vicinissima alla soluzione.

Quella donna arcana era uno specchio! Il riflesso di Diana, probabilmente uno dei suoi lati… quello cattivo, ecco chi! Il lato ingannevole, il lato oscuro, il lato di cui lei si vergognava che stava provando a soggiogare il bene e questo doveva essere impedito. Per riuscire ad annientarla, doveva farsi male con i suoi stessi poteri, ma era per una buona causa provare a suicidarsi… per il bene e per Erenide, Libera, Edera e tutte le persone che conosceva. Davanti a lei comparve uno schermo azzurro il quale presentava le seguenti parole:

Per sconfiggere Ryphlessa dovrai evocare la tua spada. Fingi di tenerne in mano una e poi pronuncia “Wave Sword”: vedrai che comparirà all’istante. ERENIDE

Diana riprese i sensi: era davanti a Ryphlessa (dopo anni aveva scoperto il suo nome, che bellezza): si ricordava ancora cosa le aveva detto la sua musa. Finse di tenere in mano una spada e poi pronunciò il suo nome: “Wave Sword”, Spada delle onde. In mano le comparve una spada in stile Rose Quartz, ma con diverse gradazioni di azzurro e senza spine simboleggianti la rosa. Strinse forte la spada in mano e si trafisse in mezzo al petto schizzando di sangue il quarzo.                                                                                         

La sua nemica scomparve per sempre e Diana morì. La sua battaglia, anche se non era riuscita a sconfiggere Daemonium, era quasi completata, per quanto riguardava i nemici.

Il nemico principale, seduto nella sala del trono, si stava godendo quella scena come non aveva mai fatto prima.

La ragazza aprì un occhio: i suoi vestiti erano unti di sangue e questa fu la prima cosa che vide. Sentì che appoggiava la schiena su qualcosa di duro: era ancora sulla dura pietra rosa su cui aveva camminato durante uno scontro. Guardò meglio: attorno a lei c’erano delle donne simili alle Topaziane ma rosa e… la stavano fissando. E c’erano anche Libera, Edera che la osservava spaventata e con le lacrime agli occhi e il Drago del Dualismo che lì l’aveva accompagnata.                                                                        

"Che ca…" ci mancò pochissimo che non dicesse una parolaccia, quella ragazza. Edera la aiutò ad alzarsi e a mettersi seduta a gambe incrociate. Poi parlò e disse:                        

"Dopo che Ryphlessa è sparita, le Quarziane mi hanno chiamata e io le ho raggiunte. Non so fermare la signora con la falce, quindi mi sono arresa. Ma poi quel bestione ha soffiato un fuoco multicolore che emanava una calda aura positiva e ti ha resuscitata. È incredibile, sei la prima persona al mondo ad essere riuscita a soggiogarlo!" spiegò. La guerriera si alzò in piedi e abbracciò tutti, poi si mise a cavalcioni della tigre che la riportò al palazzo di Quartz Queen che, ad ascoltare la vicenda vissuta, si commosse.

Più tardi, nella stanza di Diana, quest’ultima aprì il libro magico e notò che si era aggiunta una nuova pagina dedicata al nuovo Talismano che non le era ancora stato consegnato: la Collana Libera, in grado di rendere libero il bene e di rendergli possibile il dominio sul male, ma senza infliggergli dolore.                                                                             

E c’era anche una lettera scritta da Erenide in persona. Con la sua stupenda grafia e il suo modo educato e chiaro di spiegare i concetti della magia. La guerriera, ogni tanto, si faceva portare carta e inchiostro per provare a scrivere con la sua stessa grafia. 

Ciao, Diana, stai facendo un ottimo lavoro e sono fiera di te, anche per il fatto che per me hai rischiato la vita: è stata una cosa coraggiosissima che ha illuminato di onore il mio nome ancora una volta, Ma non che questo sia importante. Per me non è importante quello che provo io, ma quello che sentono gli altri. Fra poco avrai l’occasione di sconfiggere Daemonium, ma attenta: dovrai usare solo i tuoi poteri e, se strettamente necessario, anche un Talismano. Ti dico anche che il tuo nemico principale nasconde l’ultimo fra i quattro e si trova nell’arena dello scontro finale: la sua reggia, il Tempio dei Rubini Danzanti. 
In più, non appena lo sconfiggerai, dovrai liberare dall’Abisso Senza Fine i tuoi colleghi guerrieri e solo allora Libera potrà tornare Aberdeen. Sceglierai inoltre tu se rimanere nel Regno Selenico o se tornare sulla Terra dal tuo amato Friedrich… dopo una sorpresa che ti verrà rivelata solo se sconfiggerai Daemonium. Ciao. Erenide

Motivata da quell’incoraggiamento, Diana sentì sulla lingua la parola “battaglia” ed ebbe una visione del nemico che moriva annegato e lei in una posa da guerriera fantasy con la spada tenuta saldamente in mano con fare vittorioso.

La mattina seguente, Libera leccò la faccia alla sua padrona e le disse sottovoce e in modo affettuoso: "Svegliati, Diana! Dobbiamo andare al Tempio dei Rubini Danzanti!"   
La ragazza fece un salto, si mise un’armatura azzurra, viola e argentata simile a quella di Morgana forgiatale da Heranodus, il migliore dei fabbri, prese la spada e respirò profondamente: stava per compiere un’impresa degna della persona che voleva essere. Credeva il suo sogno irrealizzabile, ma quel libro e la chiave con le Gemme Sacre avevano cambiato ogni sua opinione, ogni pensiero, ogni teoria.                                                                                       

Il tempio era un palazzo di lastre di pietra rosso e aveva una porta di fuoco che uccideva coloro che provavano a varcarla senza permesso. Solo le creature mistiche, come Libera, la cui anima era quella di una persona pulita, riuscivano ad accedervi liberamente portando con sè  solo un’altra persona. Sarebbe stata la fine di Daemonium, perché Diana sapeva di potercela fare.  "Andremo a Saranedo tuyako!" disse la tigre dell’oceano, toccando senza ferirsi la porta infuocata, che si aprì. Era una specie di quelle che oggi si chiamano password, anche se veramente era un incantesimo.                                                

I passi delle amiche rimbombavano in mezzo a quelle gelide pareti e la ragazza si sentiva osservata in ogni corridoio in cui metteva piede. I portoni delle sale erano identici a quello dell’ingresso, solo che sembravano meno caldi. Forse era solo un trucco per spaventare gli indifesi. Raggiunsero una porta più grande delle altre, dietro alla quale c’era la sala del trono, luogo del tanto atteso scontro finale. La belva venne colpita da una saetta di fuoco e si accasciò a terra. La giovane intuì che doveva varcare presto quella soglia provando a trasformarsi in una creatura mistica. Pensò che l’animale che più la rappresentava era la fenice e in essa si trasformò. Poi varcò la soglia. Daemonium era seduto sul trono: la sua faccia era nascosta da una maschera bianca schizzata di sangue e terrificante e il resto del suo corpo da una tunica dalle maniche molto lunghe nera come la morte. E la morte egli sembrava. Cominciò ad attaccare la rivale con sfere infuocate, scariche e quant’altro e la ragazza rispose in quel modo: avrebbe utilizzato la tattica di Ryphlessa, la donna specchio. Diana evocò il suo uragano d’acqua e colpì molto forte il nemico al petto: questi s’accasciò e debolmente si rialzò, sfoderando un’arpa di fuoco. Diana reagì in ugual modo: vi fu una specie di gara a colpi di note musicali, ammalianti note musicali, che tentavano di persuaderla ad entrare a far parte del male. Ma ella riuscì a non dare ascolto a quella voce soave e incantatrice e, a tempo col nemico, materializzò il suo magnifico specchio. Da entrambi gli specchi partirono due raggi, uno d’acqua da quello dell’eroina e uno di fuoco da quello del nemico: prima questo sembrava avere la meglio, poi viceversa, poi il contrario…  

Daemonium allungò un braccio ed assorbì lo specchio di Diana. Lo fece riapparire, lo fuse con quello che gli apparteneva e diressela scarica del fuoco d’acqua verso la ragazza, che cadde a terra tramortita. "Mi dispiace, Erenide, che poi non è niente vero. Ora il Bene, come il Male, mi appartiene e tu non puoi far combattere i tuoi guerrieri. Aberdeen è intrappolata nel corpo di una tigre, una è morta e gli altri sono sigillati nell’Abisso Senza Fine e grazie a me ci rimarranno per sempre! I guerrieri sono miei! Il Regno Selenico è mio! Il mondo è mio!" esultò.                                               

Nonostante perdesse sangue dappertutto e fosse troppo debole, la ragazza non si arrese: si rialzò e inforcò la spada, con la quale avviò un duello col nemico, che prese la sua. Dopo affondi, stoccate e quant’altro, l’eroina soffriva sempre di più: stava morendo dissanguata e se non fosse arrivata subito Edera ci avrebbe lasciato le penne. 

Si sentì avvolta da uno strano tepore e tutti i tagli si chiusero: non c’era più sangue da nessuna parte, tranne che sulla maschera del guerriero ribelle. La guerriera trafisse la pancia del nemico, che cadde a terra: perdeva sangue nero, un sangue che non si era mai visto. Ma se la magia esisteva, tutto era possibile, persino che un nemico avesse il sangue nero.

La maschera gli cadde e comparve un ragazzino con i capelli rosso fuoco. Aveva lo sguardo colpevole e si sentiva triste e spaventato. Ecco chi era realmente Daemonium. "Ti prego, Erenide! Non farmi del male! Conosci la mia storia, quindi risparmiati la violenza! Tu che abiti in una comune abbandonata, tu che diventerai regina di questo Regno nel futuro… prova a comprendere i sentimenti delle persone che ti stanno attorno… so di avere sbagliato e me ne pento" disse.                                                                              

"Va bene, perché dopotutto è questo che conta. Ciò che senti tu. Sei un bravo ragazzo, ma il male ti ha catturato con le sue sublimi, ma false parole." disse la guerriera.                             

Dei rubini cominciarono a danzare attorno ai due e la stanza si illuminò di una luce gialla: Diana non si trovava più davanti al tempio, ma davanti ad un palazzo di cristallo bianco, con Libera – che si era rimessa in sesto – di fianco a lei.

Entrarono e si trovarono davanti ad una lastra di cristallo bianco: ci salirono sopra e vennero trasportate nella sala delle cerimonie di Erenide. Lei era lì: alta più di due metri, con lunghi e boccolosi capelli rosa e un abito bianco con la gonna a palloncino. E i suoi occhi ridevano come un bambino.                                                                                 

"Avanti, vieni, non avere paura" disse, con voce gentile. La ragazza si domandava perché il ragazzino che aveva gravemente ferito l’aveva chiamata come quell’altissima donna.

Di fianco a lei c’era una donna che aveva i capelli lunghi e biondo platino legati, aveva gli occhi di una pallida luce e un peplo bianco senza mantello. Indossava degli stivali bianchi e alti e dimostrava più anni di quelli che invece aveva.             

La guerriera obbedì all’altissima donna che, sempre sorridente, la guardava. Si sentiva un bambina che imparava a camminare ed Erenide era la madre orgogliosa del suo pargolo.                                                                             

"Ora – disse quest’ultima – ti starai sicuramente chiedendo due cose: chi è questa donna dagli occhi di luce e come mai Daemonium ti ha chiamata come me. Prego, rispondi, donna".                                                                                     

La donna col peplo chiuse gli occhi e cominciò: la sua voce aveva un che di arcaico e affascinante allo stesso tempo. "Io sono Selene, la famosa sapiente di cui hai sentito parlare all’inizio di questa avventura. Ne abbiamo incaricati molti, ma tutti hanno fallito. Per riuscire a sconfiggere Daemonium bisognava capirlo, non usare la violenza. Sei stata l’unica fra i guerrieri di tutto l’esercito ad aver compiuto questa missione. Ed ora non c’è più il terrore. Non ci sarà mai" spiegò. Sicuramente i suoi occhi volevano sorriderle, anche se non si sarebbe mai capito. "Ma… tutti i guerrieri dell’esercito che sono stati sigillati da Aberdeen nell’Abisso Senza Fine? Che fine fanno? Non li dovevo liberare?"                                                                       

"Ho fatto dei calcoli sbagliati. Inizialmente pensavo che ci saresti riuscita, ma alla fine non era possibile. Non è né colpa tua né di Aberdeen, ma della loro mente. Tutti loro hanno fallito e Morgana è morta."

Diana restò in silenzio e comprese una lezione essenziale nella sua vita da lì fino al giorno in cui sarebbe morta: se le persone sono cattive con te non devi essere cattivo con loro, ma provare a comprenderle. Perché la pace è la chiave di tutto.                                                       

"Comunque, Daemonium – ti ha chiamata come me perché in un futuro lontano, quando avrai seicento anni… tu sarai me. E addestrerai la Diana del passato. Ho fatto in modo che questo succeda, ma solo se tu vorrai rimanere qui per sempre a proteggerci da tutti i mali. Accetti o declini?" le domandò Erenide.                

Diana ci dovette riflettere un po’: lei non voleva governare, rimanere bloccata in un loop temporale, anche se prima o poi avrebbe dovuto farlo. Voleva fare dell’altro: combattere assieme ad Aberdeen le future minacce da parte dei cattivi provenienti da tutti i Regni. Poi, però, si rese conto che c’era anche Friedrich, ma chissà se veramente la amava… no, perché lui aveva già Nadya e insieme stavano bene… "Sapete una cosa?-disse Diana- Io rimango qui a combattere ,ma dovrete prima fare in modo che Libera ridiventi Aberdeen. 
Quando morirai, Erenide, prenderò il tuo posto, diventerò te. Il loop mi tocca in ogni caso, non posso evitarlo in nessun modo" disse, decisa.

La donna sorrise e Selene fece un passo avanti.                         

"Per quanto riguarda il libro… l’ho inventato io. In lingua Malachitiana il suo nome è Testnaza, in italiano testimonianza. Lì ci saranno le scoperte che farai e mai si cancelleranno. Quando sarà completo verrà portato negli archivi" disse.                                                                       

Erenide fece comparire un cristallo e disse alla guerriera di toccarlo: in quel modo sarebbe diventata una combattente in modo definitivo e lei lo toccò. 

Il suo sogno si era realizzato. 

Fine

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.



 



 
Maria Vittoria Marsili, 13 anni
III B
 

Il sabato di vigilia, Simone, un bambino tranquillo e astuto, scese sotto casa per ritirare il latte che la mamma aveva ordinato il giorno prima. Simone non amava molto quel latte, aveva uno strano sapore e  lui beveva solo latte di noci. Ogni volta che la mamma lo ordinava doveva sempre scendere lui a prenderlo e incontrava ogni volta un fattorino diverso. Mentre si immaginava l’ aspetto del fattorino che avrebbe incontrato quella sabato cominciò ad avere ansia.  Il suo era un palazzo molto alto, come quello di fianco e li separava solo un piccolo vialetto buio e inquietante. Ogni fattorino consegnava sempre lì e Simone aveva sempre più paura: non gli era successo mai nulla o almeno fino al quel giorno. Era un pomeriggio freddo d'inverno e il sole stava tramontando e c’era comunque poca luce, ma non si sa perchè Simone indossasse lo stesso uno strano paio di occhiali da sole a specchio che aveva comprato con la mamma ad una bancarella l’estate scorsa. Il fattorino non arrivava, Simone citofonò alla mamma, ma non rispose nessuno. Solitamente chi consegnava era sempre puntuale e Simone era già un quarto d’ora che aspettava quello strano latte che piaceva tanto a Lucia. Voleva chiamare a casa, ma non aveva il cellulare con sé, l'aveva lasciato sul suo letto. Preso dalla paura decise di citofonare a tutti i suoi vicini, ma è come se fossero tutti morti, non rispondeva nessuno. Cominciò a respirare profondamente, ma l’ ansia rimaneva lì con lui per fargli compagnia in quel vicolo tanto buio. Stava sudando, ma finalmente il vialetto si illuminò per via dei fari alti del motorino del fattorino. Mentre si faceva sempre più vicino, Simone cominciò a notare qualcosa di strano: il fattorino indossava una strana maschera di babbo natale, la barba era sporca, era rossa, c'era del sangue sopra. Stava per morire, se lo sentiva, però era giovane, non poteva ancora morire. Indietreggiò e indietreggiò e indietreggiò, ma non c’era più spazio per indietreggiare, sbatte contro una macchina e cadette a terra e insieme a lui i suoi occhiali tutti rotti, 7 anni di sfiga… ci mancava solo questa! Quel babbo natale maniaco e psicopatico prese Simone per una gamba e lo trascinò sull'asfalto bagnato. E’ incredibile come fosse insensibile quel fattorino matto, sempre se fosse un vero fattorino con problemi.  Non aveva pietà neanche per un ragazzino innocente il giorno della vigilia di natale. Simo era un bambino tranquillo e astuto, ma molto impaurito e doveva fare qualcosa, sapeva di dover fare qualcosa, non ebbe il tempo di pensare però che…

 


 

NOME: MARGHERITA
COGNOME: TERZO
ETÀ: 8 ANNI
SCUOLA: I.C. ELISA SCALA - ROMA
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. 

 

Durante la notte la fabbrica lievitò fino a diventare un gigantesco panettone, ma si poteva ancora fare qualcosa perché il panettone non era cotto. Si doveva agire in fretta perché con il sole il panettone si sarebbe cotto. Tutti provarono a scostare l'impasto ma era troppo viscido. Visto che in quel paese erano sempre i bambini a risolvere le cose chiamarono loro. Pure i bambini le provarono tutte ma niente. Poi si sentí un grido: “Evviva” non sapevano chi potesse esultare in un momento come quello. Oh no, ormai il panettone era cotto. Si sentí un altro grido, da dietro la fabbrica uscí una massa di pasticceri, sul tetto c'era Lallo che esultava: “Sono stato io, ho mangiato tutto il panettone sul retro fino a liberare la porta!”. Fecero Lallo sindaco anche se era un bambino, a loro non importava...


 



 
Ludovica Mocci, 9 anni
 

Sui rami di un albero

Io sono Angela, ho una vita normale, come tutti i bambini vado a scuola, faccio attività pomeridiane e trovo sempre il tempo libero per giocare.

Quel giorno come tutti i giorni, a parte il sabato e la domenica, andai a scuola. Fortunatamente uscimmo prima.

Arrivata a casa, visto che abito in campagna, mi arrampicai su un albero, il più alto, perché mi faceva venire la giusta ispirazione per ogni tipo di tema, astratto e concreto, infatti avevo deciso che in mezzo a quei folti rami avrei costruito una casa sull’albero. In quel momento ebbi il desiderio di scrivere un libro ambientato in quel paesaggio, così grande pieno di verde e silenzioso. Ma che cos’era quel rumore, cosa… mi voltai e vidi un grosso buco viola tra due rami, sembrava… un portale, ero impaurita, che cosa ci faceva lì, ero sempre stata su quell’ albero e si era presentato solo ora. Ma se quello è un portale dove porta? Lo devo scoprire… era la mia curiosità che parlava. Stavo per andare ma il portale mi diede in mano un libro, io cominciai a leggerlo. Alla pagina 12 mi diceva “vai all’ ultima pagina e leggi”. Io ci andai subito e, trovai un’immagine che rappresentava la vista della campagna da quest’albero, quindi voleva dire che questo è un libro ambientato in questo paesaggio come il mio desiderio! Sotto l’immagine c’era una scritta: Conserva e memorizza il numero della pagina che ti ha mandata qui. Dopo che io ho finito di leggere quella pagina si è incollata a quella prima. Mentre potevo ancora leggere notai che era scritto al femminile, non al maschile, come di solito è scritto nei libri.

Non ci sono più dubbi, quel portale non porta le persone da un luogo all’altro ma porta quello che desideri da te, ma se è così che succede se una persona si butta dento? Io mi preparai per tuffarmi dentro il portale ma pensai che potesse essere pericoloso, quindi presi un bastone e lo lanciai dentro, il bastone cadde dietro l’albero, come se non ci fosse il portale. Lanciai uno sguardo a quel portale allora chiesi di darmi due arance e me le diede. Non mi fidavo per niente, mi sembrava come se mi fossero cadute in testa un miliardo di mele e che io fossi impazzita, come in un sogno. Poi non c’entrava niente il numero 12.

Dopo un po’ di silenzio e calma io dissi al portale di darmi un telefono, appena me lo diede, chiamai Lisa (una mia amica) e le dissi di venire subito a casa mia. Era impressionante, quel buco viola con delle sfumature blu, tutto scuro che man mano che andava all’esterno diventava più chiaro, mai visto prima, sapeva darmi un cellulare identico, con le stesse applicazioni, di mia mamma, ma… quello era proprio il cellulare di mia mamma! Ne aveva fatto una copia, ma come sapeva che era proprio quello il suo cellulare? A quel punto mia nonna aprì la porta e mi gridò “Hai visto il cellulare di tua mamma, Angela? Non lo trova più” A quel punto capii tutto: quello che io avevo in mano era il solo e unico cellulare di mia mamma. “No, sono stata qui tutto il tempo” risposi io “e poi lo avrà sicuramente sotto gli occhi” mia nonna stava per andarsene quando vide il portale “Angela ma che… ah togli quel giocattolo che hai comprato” balbettò la nonna stranita. “Nonna, non è un giocattolo e non l’ho messo io qui” gridai per farmi sentire “E poi…” “Mi prendi in giro?” disse la nonna “E poi cosa? Si vede che appeso all’albero c’è un tasto per far comparire quel coso” mi voltai e vidi un pulsante rosso fuoco ed era vero allora dissi “Ok mi hai scoperta è vero l'ho comprato e comunque non so dove sia il cellulare di mia mamma” Appena la nonna se ne andò spinsi il bottone rosso e il portale si chiuse. Dopo dieci minuti arrivò la mia amica Lisa e mi disse “Scendi Angela” io spinsi di nuovo il bottone e il portale si aprì poi scesi dall'albero e le dissi “Guarda lì, vedi che c'è una cosa viola?” “Sì” balbetto lei “È un portale, so che è assurdo ma è vero anche se” continuai a dire portandola più in là con il braccio “Vedi, quel bottone rosso? Da là sì può far comparire il portale, a proposito questo è un portale speciale, non può portare un umano da un luogo all'altro ma quello che vuoi da te” Allora Lisa chiese confusa “Ma allora qualcuno deve averlo fabbricato, non è che da un giorno all'altro si crea un bottone che apre un portale con un difetto” “Non ci avevo pensato, saliamo sull'albero” riflettei io. Mentre salivamo sull'albero sentimmo d'un tratto un rumore che sembrava un colpo di vento con delle foglie, ma non era quello, stranamente non c'era nemmeno un filo di vento. Mentre io ero distratta a sentire quel rumore non mi ero accorta che Lisa continuava a chiamarmi “Angela, Angela, Angela aiutami” A quel punto non pensai più al vento e vidi Lisa che continuava a chiamarmi affannosamente perdendo l'equilibrio. Io mi misi a ridere e l’aiutai. Arrivate sull'albero le dissi “È questo il bottone, ma non c'è scritto niente” “Forse” intervenne Lisa “Bisogna staccarlo!” E così fece. Dietro il pulsante c’era un altro numero, 7428, allora dissi “Non mi dire che bisogna conservare anche questo?!” “Perché? È importante?” chiese. “Avoglia se è importante, ti spiego: io prima desideravo un libro e, quando il portale me lo ha dato, arrivata alla pagina 12, mi diceva di andare all’ultima pagina che mi diceva di conservare il numero 12” le spiegai. “Oh, cosa?! Anche qui c’è scritto di conservare il numero” si stupì Lisa “è pazzesco, ma…che vuol dire?” “boh, non saprei” le risposi “ma…forse l’ho capito! Devo chiedere una cosa a mia mamma, scendiamo!”. Mentre io e Lisa scendevamo dall’albero sentivo sempre di più la lampadina, che man mano si illuminava e si accendeva, per sbaglio Lisa prese una scheggia “Ahiiiiii, Angela credo di essermi presa una scheggia”. Io mi sbrigai e andai a vedere. Era vero, per quanto quella scheggia fosse grande, usciva addirittura molto sangue, che sembra quasi comporre dei numeri, ed era vero. Allora dissi “Lisa, guarda, guarda! Sembra che si siano formati dei numeri, sembrano 9480! Ho capito, ho capito, sbrighiamoci a scendere. Devo chiedere assolutamente una cosa a mia mamma”. “Comunque grazie, potevi pure preoccuparti di me” disse Lisa mezza arrabbiata e mezza ironica. Entrammo dentro casa e chiesi a mia mamma “Mamma, mamma è urgente, di solito quante cifre hanno i numeri di telefono?” “10, perché amore mi fai questa domanda?” mi rispose mia mamma, ma io ero già uscita dalla porta, trascinandomi via Lisa. 

Ripresi il telefono e inserii i numeri di chiamata 127 428 9480, stavo per chiamare quando Lisa mi bloccò la mano “Mi vuoi spiegare che caspiterina vuoi fare Angie?!” mi chiese alla fine esausta Lisa “Vorrei chiamare tutti i numeri che sono comparsi” le risposi e schiacciai il tasto per la chiamata. Un vocione mi disse al telefono “Angela, Lisa, so tutto di voi due. So dei vostri parenti e di tutto il resto. Comunque l’indirizzo è nella tana dello scoiattolo”. Io attaccai. Dissi a Lisa di separarci e di cercare la tana dello scoiattolo e lei mi disse “ma lo vuoi fare davvero, io non mi fiderei per niente, quel tipo lì potrebbe essere una spia!” “appunto, potrebbe essere fichissimo, pauroso ma fichissimo” cercai di convincerla. “Però sei in debito con me” disse Lisa mortificata ma quasi convinta. Ci stringemmo la mano e, appena ci girammo per cercare la tana, la vedemmo insieme. Allora, visto che il suo inquilino non c’era, abbiamo spazzato via le foglie dalla tana e c’era scritto 86 di via della fantasia reale. Io presi il cellulare di mia mamma e dissi “Andiamo!” il problema fu che il cellulare di mia mamma segnava via inesistente, non sapevo più che fare, come si poteva cercare un indirizzo inesistente? Allora Lisa disse di nuovo rassegnata “Senti, godiamoci questo portale e di quella spia non importa”. Così dicendo chiese al portale di darle il telefono della sua super eroina preferita, che non aveva un telefono, e il portale glielo diede. Lisa gridò “ma non è impossibile” “cosa?” domandai, preoccupata anche io. “Il portale mi ha dato una cosa inesistente, di fantasia! Per caso tu lo avevi capito che il portale può darti le cose inesistenti?” “No, per niente, non lo avevo affatto capito!” le risposi “ma forse può darci anche l’indirizzo inesistente!” alzai il tono di voce man mano che dicevo una parola, alla fine gridai “portale dammi l’indirizzo 86 di via della fantasia reale! Si vide il portale che faceva vedere l’immagine di una certa via, allora staccai una foglia dall’albero e la buttai dentro il portale e invece di fare la fine del bastone si vide la foglia dentro l’immagine. Allora Lisa disse sottovoce “Oh no!” e io, come già previsto da Lisa, la buttai dentro al portale e poi mi ci tuffai io.

Silenzio, molto silenzio, dentro la fantasia reale, silenzio, molto silenzio nel portale. Però c’era qualche rumore, un lieve rumore, come delle foglie al vento, come quel rumore di quando mi ero distratta mentre io e Lisa salivamo sui rami dell’albero. Era un rumore, il rumore di via della fantasia reale. “Lisa, questo portale sapeva di… che… noi saremmo andate in via della fantasia reale fin dall’ inizio, strano, molto strano” “E se fosse già stato tutto programmato?” chiese la mia amica “forse qualcuno vuole che noi facciamo qualcosa” commentai “Ehi, ehi! Lisa sto cercando di ragionare. Basta darmi colpetti alla spalla!” “Ma non riesci a capire, girati!” disse Lisa. Appena mi girai vidi una meraviglia. C’erano fiori dappertutto: rose, margherite e addirittura piante di diamanti, smeraldi, rubini e uccelli canterini. Era tutto di fantasia, di fantasia reale! “Lisa non ti stupire se per un secondo mi metto a cantare” dissi e poi iniziai. 

Angela: Tutto qui non è normale

Siamo in via della fantasia reale, 

non ti stupire se mi metto a cantare…
Lisa: E’ vero, è bello qui cantare, c’è solo un problema, il portale, guarda quanto è alto,  cosa fare per tornare nel mondo reale? Non ci riusciremo mai, non è possibile, nemmeno un muro o un albero.

Angela: Non ti preoccupare Lisa

Rimarremo nella normalità per un po'

Qui andremo all’avventura 

Ci riusciremo, non in battibalenoooooo

Dopo la canzone, ci stendemmo sui prati a riposare e Lisa chiese “Forse hai ragione Angie, ma che cosa possiamo fare per riandare fin lassù senza appoggi? “Francamente non lo so, perché…non c’è proprio una soluzione che possiamo afferrare adesso ma magari ci verrà in mente più tardi.  Però ora è sera e io ho fame. Qui non abbiamo niente da mangiare.” “Ho un’idea! Ehi portale, dacci subito da mangiare, servito in un piatto d’oro”. Io e Lisa ci facemmo quattro risate ma, dopo, il portale ci servì la cena. Le nostre risate si fermarono, perché ce la servì proprio in piatto d’oro come richiesto. Io non ci feci molto caso e mangiai tranquillamente, invece Lisa era un po' sospettosa, ma alla fine mangiò anche lei. Poi prendemmo delle grandi foglie e creammo due sacchi a pelo. Dormimmo tutta la notte tranquille. 

Il giorno dopo Lisa mi tirò fuori dal sacco a pelo e mi disse “Primo, la mattina bisogna fare movimento, quindi iniziamo una bella partita di acchiapparella. Inizi tu.” Io, tutta sonnacchiosa e addormentata, accettai. Iniziai a rincorrerla per tutta via della fantasia reale e vidi che a un certo punto Lisa si fermò a guardare un cespuglio e poi ricominciò a correre. A un certo punto io dissi stanca “Basta, Lisa camminiamo ed esploriamo invece di correre, sono stanca.” “Ok, Ok, Angie. Va bene.” Mentre camminavamo, oltre a vedere tutte le cose stranissime di quella via, parlavamo. A un certo punto le nostre labbra si fermarono. Vedemmo un cespuglio che dava come frutti dei fogli di carta.  “Angela, possiamo fermarci un secondo? Voglio vedere che cosa c’è scritto su questi fogli di carta” disse Lisa, “Anch’io” commentai. Iniziammo a leggere tutti i fogli di carta, poi dissi “Lisa questi sono indizi per tutte le missioni che potrebbero esserci qui. Forse c’è anche un indizio che potrebbe essere utile per noi. Credo che sia semplice, sopra ogni indizio c’è scritto a chi può essere utile e forse c’è anche il nostro nome”. Iniziammo a cercare nel cespuglio il nostro indizio. A un certo punto Lisa disse “ecco, ecco, Angie l’ho trovato! Te lo mostro.” Nel biglietto c’era scritto questo: 

Angela e Lisa

Per la vostra missione, questo indizio vi potrebbe essere utile: dovete andare in un cespuglio dove le radici non sono normali.

“che vorrebbe dire?” mi chiesi “lo so io che vuol dire, seguimi” rispose Lisa. Tornammo indietro e Lisa mi condusse al cespuglio per il quale si era fermata durante il nostro gioco. E disse “ecco! Qui le radici non sono normali. Al loro posto ci sono delle scarpe. Non ti preoccupare non sono puzzolenti. Adesso credo che dobbiamo cercarci dentro”. Io e Lisa iniziammo a cercare dentro ogni scarpa e io trovai un altro indizio che diceva:

Chiedete due noci.

Io e Lisa tornammo al nostro mini accampamento e io urlai “Portale, dammi due noci!”. Il portale me le diede tutte e due in testa e io dissi “sì ce le abbiamo e…adesso che ci facciamo?” “forse ho capito. Credo che il biglietto volesse farci capire che il portale, anche se in alto, può darci qualcosa. Angela io credo che il biglietto voglia farci capire che noi possiamo tornare nel mondo reale. Guarda, portale dacci una scala” Il portale ci diede una scala che conduceva fino a lui. Quindi noi salimmo su e io dissi al portale “Portale, dacci il mondo reale!” e come il portale ci diede via della fantasia reale adesso ci riportò alla realtà. Prima di entrare dentro il portale dissi “Lisa credo che qui noi ci potremo tornare quando vogliamo, per vivere nuove avventure” e detto ciò ci tuffammo dentro il portale. Quando ci trovammo fuori, capimmo che non era passato nemmeno un secondo nella realtà, quindi io spinsi il pulsante e il portale si spense e dissi “Tienilo tu il pulsante per il portale, ci possiamo alternare i giorni. Ma, mi raccomando, quando fai un’avventura chiamami”. Mentre dicevo queste parole, staccavo il pulsante. “Solo due cose non mi tornano” dissi “la prima è: chi è che ha risposto al telefono e la seconda è come ha fatto a soffiare nel mondo reale il vento di via della fantasia reale”. “Il vento? Ma quale vento? Angela ti stai confondendo un po', quello non era vento ma ero io che mentre ti chiamavo fischiavo per farmi sentire. E, rispetto alla prima tua domanda, non so rispondere” disse Lisa. “Io invece so rispondere!” disse una voce che proveniva dal pulsante del portale. “Il vostro nome era in uno degli indizi, quindi eravate destinate a vedere via della fantasia reale”. “Il portale può parlare?!” disse Lisa. “Beh, a quanto pare sì. Ci vediamo domani a scuola” le risposi ridendo. “Ciao” “Ciao”.

Il giorno dopo quest’avvenimento io chiesi a Lisa “come è comparso il portale?”. Lei mi rispose “Io credo che sia sempre stato lì, solo che il bottone non è mai stato spinto prima, forse ho un’idea per esserne certi, hai delle foto di te sull’albero?” “no, ma su quell’albero ci andavo da quando avevo sei anni” le risposi. “Angela vieni” Lisa mi portò dal portale e disse “Portale dammi delle foto di Angela sull’albero”. Il portale diede a Lisa delle foto come richiesto e lei disse “vedi Angela, qui si vede che c’è già un bottone rosso, vuol dire che il portale è stato lì dalle origini. E che ci sarà sempre”. 

Da quel giorno io e Lisa, dopo scuola, andammo sempre a visitare via della fantasia reale per aprire nuove strade dell’immaginazione.


 



  
Lucia Rinaldi, 13 anni
Istituto comprensivo Bernardino Telesio di Spezzano della Sila (CS)
 

À LA CART

Nello spazio angusto tra due case molto alte un bambino con gli occhiali da sole a specchio sembrava perfettamente a suo agio, eppure non era così. Aveva paura. Paura di entrare in casa sua.

Suo fratello era sparito in quella stessa casa, all’incirca trentasei ore, quattordici minuti e trentatré secondi prima. Quando lo aveva detto ai suoi amici, non gli avevano creduto. Ma era vero. Appunto trentasei ore prima. 

Suo fratello maggiore aveva ventidue anni, si chiamava Graham ed era un ex militare. Tre anni prima era stato in guerra, e Liam aveva solo ricordi sfocati di quel periodo. Da quando Graham era tornato dalla guerra, era molto più chiuso e introverso del teenager simpaticone e scherzoso che giocava col fratellino di tre anni prima della guerra. Liam ricordava che nei primi giorni suo fratello non aveva mangiato né bevuto per tre giorni, e per il primo anno andava tutte le mattine al cimitero a portare fiori sulle tombe di vecchi commilitoni. Ma Liam non lo aveva mai visto piangere. Solo una volta, quella unica volta che Liam gli aveva chiesto della guerra. Aveva visto gli occhi di cera di Graham riempirsi di dolore e offuscarsi lievemente. Solo un po’. Un uomo tosto, avrebbero detto i suoi compagni.

Dalla finestra di vetro smerigliato azzurrino, Liam vedeva le figure soffuse dei suoi genitori. Anche suo padre era un ex militare come Graham, e adesso lavorava come guardia notturna in un negozio. Sua madre, invece, faceva l’infermiera. Ma avevano concesso dei giorni di pausa ad entrambi.

Indugiavano davanti al telefono, probabilmente chiedendosi se fosse il caso di richiamare la polizia o no. I suoi genitori erano molto attaccati all’opinione del vicinato, essendo risaputo che quest’ultimo era il peggior vicinato desiderabile, ma l’unico che ti potevi concedere quando mancavano i soldi per sistemarsi decentemente. 

E poi, avevano provato inutilmente a chiamare, a forzare la porta. Inutilmente. La serratura aveva resistito a tutti i colpi come una cassaforte ben congegnata. 

Ma a Liam qualcosa non quadrava. Gli pareva ci fosse qualcosa di strano. Innanzitutto, il fatto che Graham non avesse risposto neanche una volta ai richiami dei suoi, come se non li sentisse. E poi, lo inquietava anche il fatto di non sapere cosa ci fosse realmente dentro quella stanza. Persino sua madre aveva ammesso di non sapere cosa ci fosse, stessa cosa suo padre. In particolare, suo padre aveva aggiunto che quando avevano comprato la casa, la porta era già chiusa e la chiave non era da nessuna parte. Allora lui e Graham avevano fatto un paio di ricerche presso qualche fossile della comunità, apprendendo che quella casa era appartenuta, insieme a molte altre, a Dickerson Naylor Hoover Jr., il fratello del politico Hoover, uno dei fondatori dell’FBI.

La stanza in questione era il salotto. Colui che aveva venduto loro la casa aveva detto che il salone non era mai stato terminato, e quindi chiuso a chiave. Suo padre aveva proposto la teoria che fosse là dentro dopo aver contattato la polizia, che aveva assicurato loro che avrebbe verificato presso compagnie aree, ospedali etc. etc. Mentre lo dicevano, Liam aveva notato l’espressione poco convinta di suo padre. Ovvio, perché i poliziotti non conoscevano Graham. Tutti i ragazzi della sua età del quartiere guidavano una moto, assumevano droga, birra o fumavano, facevano piccoli o meno indifferenti furti, scippi compresi. Eccetto lui. Era impossibile avesse fatto un incidente, fosse fuggito o fosse stato picchiato. Ma Liam aveva prove, a differenza dei suoi, che forse lo sostenevano per disperazione o incredulità. Liam aveva prove ben più inquietanti. Forse avrebbe preferito non averle.

Era notte, ed era quello che Graham chiamava senza sarcasmo “Il culmine del buio”, quando loro padre spegneva tutte le luci, mentre loro due e la loro madre erano già a letto. Lui era un po’ spaventato perché non passava una notte senza suo fratello, intramontabile, inconfondibile presenza rassicurante. E “come ogni bambino con un po’ di cervello”, come diceva sempre Graham, aveva paura del buio. Soprattutto adesso che, dietro la stessa porta sulla quale si affacciava la sua camera, era scomparso suo fratello. 

Era indeciso se gli facesse più paura dormire verso la porta o dando le spalle ad essa quando aveva sentito. E visto. 

Un ringhio gutturale, a bassa frequenza, come quello di una belva feroce. Questo lo aveva costretto a voltarsi verso la porta. Nella tenue luce fredda del corridoio aveva avuto modo di vedere bene. Dapprima nulla, poi, all’improvviso, la porta si era tesa come si tende un guanto di plastica quando vi si infila dentro una mano. Ed era appunto ciò che aveva visto. La forma di due mani dentro la porta. Come se qualcuno cercasse di spingere dall’interno della stanza. E poi, piano piano, aveva visto l’intera forma di un corpo che si contorceva ed emetteva urla mute. E anche lui aveva urlato. Perché non era ciò che stava succedendo la cosa più, orribile, bensì che la figura era identica a Graham.

I suoi genitori si erano precipitati nella sua stanzetta, e quando erano arrivati la figura era scomparsa. Sul momento aveva pensato fosse stato tutto un brutto sogno. Ma adesso non ne era poi tanto sicuro.

Entrò in casa a passo incerto. I suoi genitori sembravano a pezzi, distrutti. Come se già sapessero che Graham non sarebbe mai rispuntato fuori. Anche Liam si sentiva così.

Graham si stropicciò forte gli occhi. Si concesse qualche attimo per riprendersi, poi si alzò e si rimise in marcia. La strana foschia bluastra tornò a circondarlo dopo pochi passi. Era lì da presumibilmente un giorno, e già la odiava, quella maledetta nebbia. 

Doveva trovare un modo per orientarsi.

Avrebbe potuto usare il suo orologio, come gli aveva insegnato l’LCpl della sua unità, ma senza sole a disposizione, non poteva farlo. Non riusciva a smettere di pensare a quel che aveva visto appena giuntò lì.

Era entrato là dentro perché non era riuscito a resistere alla curiosità, anche se in qualità di ex soldato sapeva che a volte questa può essere letale. Appena entrato aveva notato la nebbia, cosa che lo aveva subito fatto insospettire. Cosa ci faceva la nebbia dentro una stanza in un’abitazione? Aveva avuto subito l’impulso di catapultarsi fuori, ma qualcosa lo aveva trattenuto. Solo dopo aveva notato qualcos’altro. La nebbia avrebbe dovuto propagarsi fuori dalla stanza, nel corridoio, dal momento che la porta era aperta. Invece non era così. Si era fermata come se ci fosse una barriera invisibile.

Poi aveva sentito qualcosa contro la caviglia. Si era girato.

C’era un cadavere in putrefazione a terra. Le orbite nere erano piene di insetti che ronzavano e sciamavano, ed il visore notturno era stato forato da una pallottola.

Dopo lo aveva sentito, il lieve tonfo come se qualcosa…si fosse chiuso. Aveva reagito troppo tardi e si era ritrovato da solo con l’inquietante cadavere. Aveva iniziato ad urlare, a tirare calci e pugni alla porta. Questa si era solamente tesa come un elastico, senza scalfirsi né tantomeno rompersi. Appurato che la porta non avrebbe ceduto, aveva smesso di pensare ed aveva attivato la modalità sopravvivenza. Si era accostato al cadavere e si era accorto di un altro corpo affianco al primo che la nebbia gli aveva nascosto da in piedi. Li aveva perquisiti entrambi, e aveva trovato le stesse identiche cose addosso a tutti e due i corpi: un MP5 Desert Eagle, un M4 con munizioni standard, una macchina fotografica, un visore notturno ed una pistola di ordinanza silenziata. Aveva preso le armi del primo corpo, avendo più colpi nel caricatore e più ricariche, poi aveva preso la macchina fotografica ed il visore notturno dal secondo, in quanto meno danneggiati. Quando aveva tolto il visore notturno, uno sciame di pappatici era uscito dalla bocca del morto e per poco non aveva vomitato. Era passato molto tempo da quando non vedeva un corpo in quelle condizioni. Poi aveva tolto a fatica gli stivali ai due morti, perché ovviamente un paio di babbucce non sarebbero state molto vantaggiose. Appurato che il primo aveva i piedi troppo piccoli ed il secondo troppo grandi, aveva preso le scarpe del primo e si era messo in marcia. Si era fermato solo quando il buio era diventato ancora più buio e non si vedeva più nulla. Essendo quel posto unicamente una distesa gelida di sabbia e nebbia, si era messo a scavare. Aveva fatto una buca profonda un metro e larga un metro e venti, poi si era messo in posizione fetale all’interno di essa. Aveva pensato. Aveva pensato tanto. Innanzitutto, aveva camminato per quasi trenta ore, più o meno, quindi doveva aver fatto quasi 140km, pressappoco. Cosa ovviamente impossibile da fare in una casa, figurarsi in una stanza. Ma aveva la sensazione di non essere più a casa sua. Non aveva il minimo senso, ma doveva essere per forza così. Altrimenti come si spiegava la nebbia e la sabbia? O la pioggia che aveva iniziato a cadere, se è per questo. Dunque. Non era più in casa sua. Non si era chiesto dove fosse, perché sapeva che non sarebbe stato capace di darsi una risposta, si era semplicemente concentrato sul fatto che non era a casa. Era in un posto dove le bussole non funzionavano, perché entrambi i corpi ne avevano una, ma l’ago si muoveva all’impazzata senza mai decidere dove fermarsi. Di certo quei due non erano arrivati in quel posto come lui, casualmente, perché non indossavano babbucce e pigiama, ma un equipaggiamento standard d’un infiltrato, con l’aggiunta dei visori notturni, come se sapessero che lì la visibilità era ridotta. In soluzione, erano andati preparati, quindi conoscevano il luogo. C’erano due possibilità riguardo alla morte: o si erano suicidati oppure erano stati uccisi. Graham non sapeva quale alternativa l’inquietasse di più. Ad un certo punto il cervello non aveva retto più e si era addormentato. Ed adesso era nuovamente in marcia.

Non sapeva di preciso dove si stava dirigendo, ed era una spiacevole novità per lui. In guerra c’erano sempre state mappe, anche approssimative, ma sicuramente più certo del muoversi senza punti di riferimento. Aveva paura. Era strano, dopo la guerra non aveva più temuto nulla che non si fosse portato dietro dal campo di battaglia. Ma adesso aveva paura. Aveva ancora paura. Aveva paura di nuovo.

-Liam, ti posso parlare?

Liam era concentrato sulla signora Jameson che stendeva i panni fuori dal balcone, quindi sobbalzò. Si girò verso la voce. Era suo padre, con un aspetto decisamente più vecchio del solito.

-Sempre se non sei impegnato.

-No, certo. -Liam scivolò dallo sgabellino che aveva posizionato sotto la finestra e raggiunse suo padre, che intanto si era seduto sul suo letto. 

-Cosa c’è, papà?

Suo padre sospirò. -Ieri sera, hai visto qualcosa?

Lo sguardo di Liam si volse automaticamente verso la porta del salotto chiusa. Capì che suo padre lo aveva notato.

-Cosa c’era lì?

E adesso? Che doveva fare? Dirglielo e convincerlo a cercare in altri modi di entrare in quella stanza? 

Il problema non era se non ci riusciva, ma se ci riusciva. Perché Liam sapeva che là dentro doveva esserci qualcosa di pericoloso, adesso era sicuro di aver visto ciò che aveva visto. Qualcosa che poteva uccidere Graham. E suo padre, e sua madre e lui, se fossero riusciti ad aprire la porta.

Sentiva la trachea che gli si chiudeva dal panico. Sacrificare suo fratello o tutta la sua famiglia?

-Sto aspettando…

Ingoiò a forza il groppo che gli si era formato in gola. Perché sapeva cosa doveva fare.

-Uhm, nulla.

Graham si guardò intorno. Possibile che non ci fosse nulla, assolutamente nulla da nessuna parte? Nemmeno un rilievo, un lago, un burrone, un fiumiciattolo? Proprio non capiva. E se avesse tentato con un’altra direzione? Avrebbe trovato qualcosa? Una qualsiasi cosa?

Stava forse impazzendo?

Respirò a fondo. Si fermò un attimo. Ne aveva bisogno. Bisogno di pensare. Doveva assolutamente trovare un modo per orientarsi. Doveva scavare.

Iniziò a fare una buca nella sabbia e accumulare tutta la sabbia che spostava per fare un monticello. Avrebbe avuto una visuale migliore. Lavorò quasi ininterrottamente per più o meno due ore. Alla fine era riuscito a creare un monticello di due metri e mezzo. Si accertò forse abbastanza compatto da non seppellirlo mentre cercava di salirci. Lo era. 

Dall’alto la nebbia sembrava diminuita. Si tolse un attimo il visore notturno, ma non fu molto utile.

Vedeva solamente una distesa infinita da ogni lato. Ma cosa diceva sempre il Caporale? “Nulla è infinito, anche se lo sembra”. Inforcò il visore notturno e si girò lentamene in tutte le dimensioni.

Nulla davanti, nulla a destra, nulla a sinistra. Solo la stessa distesa infernale. Si girò a destra.

Un volto umano. Vicinissimo al suo.

Gli sfuggì un urlo. Cadde all’indietro ed afferrò l’MP5 al volo. Risalì il monticello artificiale tenendo il fucile davanti a sé. Vide di sfuggita una piccola figura che si allontanava lentamente. Si mise a correre dietro quella, ma per quanto andasse veloce gli pareva di non raggiungerla mai, nonostante camminasse. Poi sparì nel nulla. Graham si bloccò. Possibile che il visore si fosse rotto così in fretta? Verificò. Il visore non aveva problemi. La figura era veramente sparita nel nulla davanti ai suoi occhi.

Si chiese per l’ennesima volta se fosse una buona idea. E si diede la stessa risposta. Non lo era.

Raggiunse il punto da cui aveva visto sparire la figura. Si guardò intorno. Nebbia, nebbia, nebbia. Nient’altro. Un punto morto. Si sedette a terra. Il suo cervello si era disabituato alla tensione, e l’effetto dell’adrenalina stava svanendo: gli dolevano tutti i muscoli, come se avesse provato a sollevare una moto. Come aveva fatto la figura, chiunque fosse, a raggiungerlo così in fretta e così in silenzio?  

Se quel qualcuno era stato veramente lì e non era stata un’allucinazione, come gli succedeva spesso in guerra, allora doveva sapere qualcosa. Forse non molto ma decisamente più di lui. Quindi, la cosa più logica da fare era trovare la figura. C’era solo un problema. Nonostante l’avesse avuta sotto gli occhi per tutto il tempo, non sapeva dove fosse andata. Poteva solamente proseguire nella direzione verso la quale la figura stava andando originariamente, sperando fosse quella giusta. Si alzò in piedi con lentezza. Poi si rimise in marcia.

Rallentava sempre di più dopo ogni passo. Si stava stancando sempre di più, ma aveva notato che la morfologia del terreno iniziava a mutare un po’, e che la nebbia andava diradandosi metro dopo metro. Questo gli aveva infuso una lieve speranza riguardo al potersi orientare.

Per contro, c’erano i cadaveri. Ne aveva incontrati altri durante il suo cammino, molti altri. Alcuni erano molto vecchi, ne rimanevano solamente ossa spolpate, ma altri erano pericolosamente freschi. In particolare, un uomo ed una donna non potevano essere morti da più di dodici ore. E questo voleva dire che erano ancora vivi quando Graham era arrivato in quello strano posto. Quel pensiero gli dava i brividi.

Adesso la visibilità era di gran lunga migliorata, non aveva più bisogno del visore per vedere. Forse era proprio per questo che non si voleva fermare adesso, nonostante le gambe protestassero animatamente. Continuò a camminare. Scorse un biancore in mezzo alla sabbia grigio cenere. Si avvicinò. Sembrava un altro cadavere, questo più decomposto rispetto agli altri. Gli mancava la mandibola ed aveva la cassa toracica sfondata, come se fosse stato colpito con una mazza ferrata ripetutamente. Di quelli che aveva visto, era quello ucciso più brutalmente. Dopo il cadavere, del quale rimanevano solamente le ossa, c’era un piccolo tratto di terra, poi una discesa ed una vallata. Si avvicinò al ciglio del burrone per vedere meglio cosa vi fosse.

C’erano altri cadaveri. Tantissimi. Forse cinque o sei volti quelli che aveva visto fino a quel momento. L’unica volta che si ricordava di aver visto così tanti morti era quando lui e quel che rimaneva della sua unità erano arrivati su un campo di battaglia abbandonato, la quale doveva essere avvenuta in una città ancora non abbandonata, data la quantità di cadaveri di bambini, donne ed anziani. Insieme a questi c’erano tantissimi cadaveri di soldati, di entrambe le fazioni. Giacevano insepolti, mentre gli insetti iniziavano a lavorare. Fra questi, Graham aveva riconosciuto Joel Nathanson, un suo vecchio amico con cui era cresciuto, ma che non sapeva fosse finito anche lui in quella sporca guerra. Mentre gli altri soldati contavano i morti, Graham lo aveva sepolto. Almeno lui.

Ad ogni modo, alcuni cadaveri erano ridotti come quello accanto a lui, altri erano stati uccisi coi pugni di ferro, alti ancora con armi da taglio o da fuoco. Sembrava quello fosse stato il teatro d’una battaglia. Anche piuttosto furiosa. I morti erano tanto in decomposizione, però, che doveva essere successo anni prima. Molti anni prima.

Aggiornò la sua cartina mentale del posto. Sentiva di averne bisogno. Rispetto a quanto era entrato, aveva proseguito verso il suo nord per circa 30 ore o poco più. In seguito, si era spostato verso est, per circa un giorno. Più o meno. Quindi, si stava dirigendo ad est, ed aveva intenzione di continuare così, dato che più avanzava, più migliorava la visibilità. Quindi, a ovest c’era una specie di banco di nebbia piuttosto ampio. Se ne doveva ricordare.

E poi rimaneva una questione.

La figura.

Mentre era a quello che aveva deciso essere l’ovest, la figura era venuta da est. Quindi, era molto probabile che andando verso est avrebbe trovato qualcuno. E non era necessariamente qualcosa di buono. Soprattutto considerando che dalle circa 60 ore da quando era lì aveva incontrato solo cadaveri. Ma non aveva scelta, se voleva delle risposte. Quindi continuò ad avanzare come faceva da ore.

Non c‘erano astri, ma il cielo scurì lo stesso, arrivati ad una certa ora. Graham iniziava ad avvertire fame e sete in maniera più insistente. La sua pelle era decisamente più secca al tatto del giorno prima ed era da più o meno 12 ore che gli pulsavano le tempie. Non voleva finire il pensiero che stava concependo. Che se fosse stato costretto, avrebbe dovuto… Meglio non pensarci.

Si accampò dietro una duna molto piccola, almeno se si fosse alzato il vento non sarebbe stato totalmente sommerso dalla sabbia.

Si addormentò quasi subito.

Si era quasi rassegnato all’idea di mangiare cadaveri, e stava già pensando al quale era il meno putrefatto di quelli che aveva trovato fino a quel momento, quando l’aveva vista. Dapprima aveva creduto fosse un miraggio, dovuto alla quasi-insonnia, alla mancanza di cibo, di acqua. E non era sicuro di star vedendo ciò che stava vedendo nemmeno in quel momento.

Un’abitazione.

Era bassa, meno di cinque metri, ed era fatta in assi di legno, sughero e vetro lercio. Il legno era diventato verdastro in alcuni punti, in altri era lievemente annerito, come se qualcuno avesse provato ad incendiare la casa. Una piccola scalinata pericolante portava alla fatiscente porta d’accesso, coperta da un portichetto in tronchi e ferro.

Ebbe voglia di correre subito nella casa e vedere chissà Dio fosse stato abbastanza buono da fargli trovare qualche provvista, o un po’ di acqua. Ma si bloccò. Poteva esserci qualcuno. Non necessariamente poteva essere una buona cosa.

Si guardò intorno. Il territorio intorno alla casa era totalmente piatto, quindi chiunque poteva essere visto da una qualsiasi finestra della casa a partire da una certa distanza. Chi aveva costruito quella casa doveva conoscere almeno un po’ di strategia militare.  

Dunque.

Se si fosse avvicinato alla casa prima della sera sarebbe stato visto subito, forse ucciso. Allora doveva aspettare il tramonto. Semplice, no?

No. Affatto.

Stava peggiorando.

I dolori alla testa erano diventanti molto più intensi, così tanto che avevano iniziato a lacrimargli gli occhi. La pelle era diventata così ruvida da sembrare granulosa, e aveva iniziato a vedere sfocato. Per giunta, pensava di star perdendo la massa muscolare. Non riusciva più a muoversi in fretta come prima, e si ritrovava ansimante e sudato anche dopo pochi chilometri. Aveva passato quattro giorni senza acqua né nutrimento, quindi calcolava sarebbe morto entro la fine del giorno. Ammesso che fosse riuscito a sopravvivere fino alla sera, sarebbe stato in condizioni talmente pietose da non essere capace nemmeno di spostare una gamba. E sarebbe morto così, a due passi di quella che poteva essere la salvezza. No, non voleva crederci. 

Quindi doveva muoversi adesso. Ma era già messo male, e per giunta non sarebbe stato per chi era dentro la casa vederlo. Ma se non ci fosse nessuno? Se fosse semplicemente abbandonata? No, altrimenti non si spiegava la figura. Veniva da quella direzione. Doveva pensare logicamente, prima di agire. Ma in fretta. Molto in fretta.

Aveva pensato. E ora aveva deciso. Meglio morire combattendo che assiderato a due passi dalla meta. Caricò l’M4, contò i colpi. L’M4 standard in donazione dell’esercito aveva un caricatore fino ai 30 colpi di capienza. Qui ne trovò 26. Meglio di quanto sperasse, a dire il vero. Provò ad ingoiare un po’ di saliva, ma la bocca era totalmente asciutta.

Se avesse provato a strisciare per avvicinarsi all’edificio non sarebbe servito, sarebbe solamente morto in orizzontale e non verticale. Dunque usò il metodo che usava di più di solito. Piegò lievemente la schiena, accostò l’occhio al mirino olografico e si diresse verso l’edificio.

Erano tornati a prenderli. Di nuovo. Avevano ferito Doc ad un ginocchio la volta precedente. Non avrebbe più permesso qualcosa di simile. L’Uomo che si avvicinava alla casa era armato, quindi avrebbe dovuto prestare più attenzione. Verificò se avesse paura. Non ci mise molto. Non ne aveva. Non dopo tutti quelli che aveva ucciso.

Si preparò per il comitato di benvenuto.

Sfondò la porta con un calcio, si affacciò velocemente e riuscì subito. Pensò a ciò che aveva visto. Un tavolo in legno, una finestra con sopra una falena vivisezionata tenuta bloccata da puntine da disegno, un sacco di fogli sparsi sul pavimento. Nient’altro.

Entrò, tenendo l’M4 davanti a sé. Si avvicinò alla falena. Era stata aperta in due con una precisione marziale, e i vari lembi di carne e tessuti erano tenuti separati da puntine multicolore. I tagli erano vecchi di almeno un mese, presumibilmente. Si guardò intorno. Niente, niente, niente.

Qualcosa gli saltò addosso.

Cadde a terra e, contemporaneamente provò ad alzare l’M4, senza riuscirci. Era come se il braccio fosse diventato troppo pesante perché potesse alzarlo. La figura che gli era saltata addosso si era alzata e allontanata, ma era incapace di alzarsi. Si sentiva stanco, molto stanco. No, non poteva addormentarsi, non ora! Ma non servì a niente, stava scivolando nell’oblio. Sentì qualcuno urlare, ma il suono non era limpido, era come se stesse ascoltando da sott’acqua. Svenne.

Aprì gli occhi, mise a fuoco quello che aveva intorno a sé. La stanza era piccola e spoglia. E vuota. Ma, nonostante ciò, si sentiva osservato. Provò a girarsi, senza riuscirci. Solo allora si accorse di essere legato ad una sedia con della spessa corda di canapa. Doveva accertarsi di essere solo, ma non poteva farlo. Maledizione!

Calma, si disse, calma. Fai come ti hanno insegnato nell’esercito. Chiuse gli occhi e stette in ascolto. E lo sentì. Un lieve respiro sibilante, dietro di lui.

-Esci allo scoperto e fatti vedere. So che sei qui.

Poté quasi udire l’altro sorridere. Sentì un corpo piccolo muoversi su piccoli piedi verso di lui. La figura, materializzatasi come dal nulla dal buio, gli si fermò proprio davanti.

Una bambina.

Aveva un vestito bianco lacero e camminava a piedi scalzi. La pelle lurida ma rosata mostrava diverse cicatrici di bisturi. I capelli biondi, annodati ma stranamente puliti, le fluivano sulle spalle fin quasi la vita. Sul faccino tondo era dipinto un ghigno quasi sadico, e gli occhi azzurri spiritati lo fissavano. Di tanto in tanto, una luce folle appariva e spariva nelle iridi turchesi.

Graham era confuso. Anche perché riconobbe postura e dimensioni. Era la stessa figura che aveva visto nella nebbia, quando aveva cercato disperatamente di orientarsi.

-Eccomi. -Anche la voce era quella di una bimba di dieci anni al massimo. 

Un rumore di passi lo raggiunse da dietro la porta. Dopo pochi minuti, quella fu spalancata. Un uomo basso sulla trentina e i capelli grigiastri entrò nella stanza e si avvicinò alla bambina. 

-Chi sei? -chiese l’uomo, con voce incredibilmente profonda.

Gli era stato insegnato come resistere alle peggiori torture, se fosse finito in mani nemiche. Come resistere all’elettroshock, al sale sulle ferite, ai colpi di arma da fuoco o arma bianca, alle minacce personali attuabili o non. Quindi poteva benissimo non rispondere senza temere nulla. Ma non ne vide il motivo.

-Graham.

-Graham.

-Sì.

-Cosa ci fai qui, Graham?

-Se lo sapessi te lo direi.

-Soldato?

-Ex soldato. Scienziato pazzo?

L’uomo sorrise divertito. -Colpito e azzeccato. Mi prometti che non mi ucciderai se ti libero?

Forse l’uomo non si accorse dell’espressione stupita della bambina, ma Graham sì. -Promesso.

L’uomo tolse un coltello pulito da una delle numerose tasche del camice grigio marrone che un tempo doveva essere bianco e tagliò la corda di canapa con una passata rapida ma precisa, che fece venire in mente a Graham la falena sezionata che aveva visto.

Graham cadde dalla sedia, senza rialzarsi. Adesso lo sforzo di tutto quel che aveva fatto senza né acqua né un qualsiasi nutrimento si faceva sentire più che mai. Vide di striscio l’uomo sussurrare qualcosa nell’orecchio della bambina, che corse fuori dalla stanza.

In qualche modo riuscì a parlare. -Chi sei? Cos’è questo posto? Chi sono tutti quei morti?

Seguì un silenzio per così tanto tempo dopo che Graham arrivò a pensare che l’uomo fosse uscito a sua volta, o che non lo avesse sentito. Ma dopo arrivò finalmente una risposta. 

-Siediti, che te lo spiego.

-Mi chiamo Solomon Jones, e sono uno scienziato. Un dottore, se preferisci. Mi sono laureato a Oxford nel 1897 in anatomia e biologia umana.

Graham strabuzzò gli occhi. Non avrebbe avuto parole anche se non avesse avuto acqua nella bocca.

-Per favore, rimanda le obiezioni sulle date alla fine del discorso, grazie. Come dicevo, sono stato nominato biologo, e, senza alcun vanto, ero anche piuttosto bravo. Così bravo, che il mio talento fu presto notato da un uomo, di nome Theodore Roosevelt. Forse lo conosci.

Graham annuì, incredulo. Theodore Roosevelt era il 26esimo presidente statunitense, ed era morto da un bel po’.

-Io e Teddy diventammo buoni amici. In quell’anno, il 1899, era governatore della Stato di New York, e io ero andato ad abitare lì da appena laureato. Questa mia amicizia mi fece passare sopra qualche piccolo problema legislativo, come i vicini che si lamentavano del rumore dal mio laboratorio, prima e dopo la mezzanotte. Io ero uno curioso, amavo la sperimentazione e ben presto riuscii a realizzare tessuti organici a partire dal mio sangue. Teddy era appena diventato presidente quando lo apprese, quindi mi convocò per parlarmi di un suo progetto. Voleva creare un’associazione di intelligenze statunitense. Teddy diede istruzioni a Charles Joseph Bonaparte di organizzare un servizio investigativo autonomo che riferisse solo al procuratore generale. Questi contattò altre agenzie per la selezione del personale, in particolare gli investigatori. Il 27 maggio 1908, il Congresso proibì questo uso dei dipendenti del Tesoro da parte del Dipartimento di Giustizia, citando i timori che la nuova agenzia avrebbe servito come dipartimento di polizia segreto. Di nuovo su sollecitazione di Roosevelt, Bonaparte si trasferì per organizzare un formale Bureau of Investigation, che avrebbe poi avuto il suo personale di agenti speciali. Il dipartimento fu ufficialmente creato il 26 luglio del 1908, ma tutto questo lo saprai già, immagino.

Sta di fatto che Teddy voleva organizzare anche una parte più segreta nella nascente FBI. Si parlava di armi biologiche, in caso di guerre. Teddy era un pacifista, ma non per questo era stupido, quindi voleva armarsi prima e meglio degli altri. Per via di alcune tensioni in Europa, era quasi sicuro che a breve sarebbe stata guerra. Incaricò me e un’ex agente speciale del National Bureau of Criminal Identification di nome Mike Weinberg di occuparsi di questa sezione. 

Non tutti erano d’accordo. Ci furono diverse rivolte interne che vennero insabbiate. Apprendendo che per questo progetto non poteva essere sviluppato all’interno della sede, che nonostante tutto era il posto più sicuro, Weinberg mi incaricò personalmente di creare un posto dove sviluppare il progetto in santa pace. Lavorai nel mio laboratorio fino al 1908, aiutato da un team di scienziati in gamba scelti da me personalmente. Riuscimmo in così poco tempo a creare questo posto. Non è la Terra, né tantomeno qualche altro pianeta del sistema solare. È abbastanza grande da garantire che nessuno riesca a trovare immediatamente questo edificio. Il tempo è fermo qui, i giorni e le notti possono anche alternarsi, ma in realtà non passa un solo dì. La nebbia che probabilmente avrai trovato è davanti a tutte le entrate, per evitare che eventuali impostori trovino modo di orientarsi. E i portali di accesso sono sparsi in mezza America. Weinberg era molto soddisfatto, così iniziammo il lavoro. Nel 1909, pochi mesi prima la fine del mandato di Teddy, finimmo il lavoro iniziale: un endoscheletro di titanio con le dimensioni di un bambino, vari organi, apparati e sistemi modificati con sangue di animali per rattoppare i buchi nei filamenti di DNA e anche parte della pelle. Ma Weinberg divenne avido. Iniziò a fare scelte senza avvisare il Presidente. La cosa non mi piaceva per niente, ma Theodore aveva decretato che Weinberg sarebbe stato il mio superiore e di conseguenza non potevo farci nulla. Quando il mandato di Teddy finì, il nuovo presidente non sapeva nulla del progetto per merito suo: aveva nascosto tutto a tutti, e non ce la feci più a stare zitto. Andai a parlargli, ma non servì. Appresi che voleva impadronirsi del mio progetto per usarlo per scopi personali. Quindi fuggii con qualche uomo fidato, e da allora mi dà la caccia. Non posso uscire da qui, avevo ideato una specie di pass per farlo quando creai questo posto, ed è rimasto alla base principale, e tornare lì è fuori discussione, senza contare che lo avrà fatto disattivare. Durante la fuga, ho ultimato il progetto, -fece cenno alla bambina, che, dopo avergli portato l’acqua, si era andata ad appostare di fronte all’entrata. -Jo sa tutto, ed è la nostra unica chance, dal momento che gli uomini di Weinberg hanno ucciso tutti i miei. Per essere brevi, io e lei siamo bloccati qui dentro circondati da nemici. -il Doc si interruppe e lo guardò attentamente. -Da dove sei entrato?

-Dalla porta del salone di casa mia. La casa apparteneva a Dickerson Naylor Hoover.

-Non lo conosco.

-Suo fratello è stato direttore dell’FBI.

-Mhm. Allora è molto probabile. Scusa le lacune storiche, sono qui da allora.

Graham strabuzzò gli occhi. -Sei qui dal 1908?

Vi fu silenzio totale per qualche minuto. Sembrava che perfino il vento avesse smesso di agitare le imposte. -Che anno è? -chiese con tono neutro Solomon Jones.

-2015.

-Oggesù… -Jones sembrava veramente sul punto di sentirsi male.

-Non sei invecchiato, sembrerebbe…

-Sì, come stavo giustappunto dicendo, qui il tempo non passa. Nessuno sapeva quanto ci sarebbe voluto a sviluppare il progetto. Ma…è passato così tanto tempo… Ne varrebbe la pena…?

-Uscire da qui? Certo che sì. Da quanto ho capito questo Weinberg vuole la bimba, e la avrà sicuramente se restate qui.

Jones tirò su col naso. -Sì, hai ragione. Ma da soli non siamo mai riusciti a scappare. Se tu potessi, ecco, aiutarci…

-Mi sembrava scontato. Anche se non volessi, e ci sarebbero parecchi motivi in realtà, sarei costretto, perché non so come uscire come uscire da qui senza il tuo aiuto.

Jones sorrise stancamente. -Sarà. Ma ho finito le buone idee.

-Ne avrei una, ma dubito che ti piacerà. -Graham si ricompose sulla sedia. -Hai presente quella base di cui mi hai parlato?

-È una pessima idea. -sibilò Jones appena Graham ebbe finito di esporre la sua idea sulla cartina che gli aveva chiesto.

-Lo so benissimo. Ma è l’unica che abbiamo.

Jones sospirò rumorosamente, mentre stringeva con forza la spalla della bambina. Graham poteva sentire su di sé quello sguardo folle e turchese, cosa che lo metteva non poco a disagio.

-È l’unica che abbiamo. -ripeté Jones come in catalessi. -Lo è davvero?

-Sì, Jones. Lo è davvero.

Il dottore si tolse gli occhiali e uscì dalla stanza senza guardare nessuno.

Solomon Jones avrebbe dovuto avere pressappoco cento quarantadue anni, a star a sentire il giovane soldato del quale aveva scordato già il nome. Era uno scienziato, e aveva fatto molti esperimenti pericolosi in tutta la sua lunga ma breve vita. Ma questa era decisamente la cosa più folle che avesse mai provato a fare. 

Jo camminava impettita al suo fianco, tenendogli la mano. Considerando che aveva passato centosette anni della sua vita, si era decisamente affezionato a quella bambina taciturna e sanguinaria.

Dapprima era solo un esperimento ben riuscito, di cui andava fiero per la perfezione dell’insieme, nonostante fosse un’idea di per sé folle e malata. Ma cos’è uno scienziato senza un pizzico di follia, del resto? Ad ogni modo, aveva iniziato a volerle bene da quando aveva ucciso uno dei soldati di Weinberg che aveva provato a spararlo con un mitra. Assurda anche questa idea, del resto. Iniziare ad amare una bimba dopo che ha privato della vita una persona, una cosa assolutamente bandita e ripudiata dalla legge di qualsiasi stato.

Solo da allora aveva smesso di guardarla come esperimento ma per ciò che era: un essere vivente senziente, capace di intendere e volere in senso giuridico e non. E adesso, ne era quasi sicuro, stava andando incontro alla morte insieme a lei. Perché il piano del ragazzo era folle sia in senso giuridico che non.

Graham corse nella valle sterminata. Aveva un braccio libero per il corpo a corpo e nell’altro teneva l’M4 ed i suoi 26 proiettili. Nella cintura aveva ilo resto delle ricariche. Due ricariche. Un proiettile, una persona. 86. Si augurò vivamente che bastassero.

La sabbia schizzava dietro di lui come acqua d’una pozzanghera. Corse, corse, corse, sempre più veloce. Poteva vedere la bambina ed il dottore camminare mano nella mano verso la base che un tempo era della neonata FBI e adesso era di un disertore con folli piani terroristici. Ancora non aveva capito tutto quello che il Doc gli aveva detto, ma non voleva pensarci adesso. Quello che sapeva era che in quella famigerata base c’era la sua vita d’uscita da quell’inferno. Al solo pensiero di rivedere i suoi genitori e Liam, il suo fratellino, dovette concentrarsi per non mettersi a piangere. Dannazione, era un soldato, non una femminuccia! Ora doveva concentrarsi sulla sua missione e null’altro.

Dunque. Rievocò mentalmente le cartine che aveva studiato. La casa del Doc si trovava a più o meno 3,5 km a sud della loro posizione attuale. E la base si trovava a 13 km a nord ovest dalla loro posizione, ma stavano dirigendosi in direzione nord per via di un grosso, anzi grossissimo cratere in direzione nord ovest, appunto. Avrebbero dovuto ripiegare verso ovest all’incirca fra 10km. Ossia tre ore e venti minuti.

Graham sentiva già il primo rilascio di adrenalina, anche se sapeva che dopo ne sarebbe stato totalmente investito al momento giusto. Continuò a correre.

Si ricongiunsero a 2km circa dalla base. L’immane e grottesco edificio appariva a distanza come poco più di una macchia nera. 

-Ci siamo. -Il tremolio nella voce del Doc era appena percettibile.

-Tranquillo. Andrà bene.

-No, ragazzo, non conosci Weinberg. Tu suggerisci di farci catturare da lui. A questo punto non perderà tempo. 

-Basta un solo pass, Doc. Uno qualsiasi. Arrivo il più silenziosamente possibile, vi libero e fuggiamo da questo posto.

-Ma loro saranno in grado di uscire.

Graham si mise due dita sul mento. Qualcosa a cui non aveva pensato, effettivamente. -Vedremo. Ma per il momento, atteniamoci al piano. Cosa sa fare la bambina?

-Jo, -corresse con una punta di irritazione -può fare tutto. Assolutamente tutto.

-Ogni quante volte escono le pattuglie?

-Tre volte al giorno. -stranamente, fu Jo a rispondere. -Usciranno di nuovo fra…-strizzò con forza gli occhi-diciassette minuti e ventinove secondi circa.

-Bene. Cercate di non resistere troppo, potrebbero uccidervi. Né resistere troppo poco, potrebbe apparire sospetto.

Jones lo guardò a lungo. Poi annuì.

Graham vide solo da lontano, ma fu abbastanza per capire che i soldati di Weinberg non avevano ucciso nessuno dei due. Quindi, al momento, il piano procedeva bene. Ma cercò di non autocompiacersi troppo. Camminò ricurvo su sé stesso, per vedere senza essere visto, anche se a quella distanza non sarebbe stato molto facile. Secondo le cartine, la base era situata in un basso cratere. La discesa dai bordi era quasi perpendicolare, cosa che peggiorava la visuale in caso qualcuno si fosse piazzato direttamente sotto di lui. Ma non si lamentava riguardo a questo, più per la discesa ripidissima. 

Fece un breve giro perimetrale tutt’intorno la base, poi ritornò alla sua postazione. C’erano quattro soldati davanti all’entrata principale, e due davanti le cinque secondarie. Purtroppo il Doc non aveva cartine dell’interno della base, quindi avrebbe dovuto adattarsi.

Allora.

Aveva notato che vicino ad un’entrata c’era lo sbocco dei rifiuti. C’erano pro e contro in quella scelta, come in ogni scelta. i pro era che avrebbe potuto entrare il più silenziosamente possibile, e anche essere meno visibile all’interno della base. I contro erano che non sapesse che tipo rifiuti potevano esserci. Magari scorie radioattive o qualcosa di simile?

Ma al diavolo. Vada per lo scarico.

Rimaneva solo un problema. Nello scendere, sarebbe stato visibile a praticamente tutte le guardie, a tiro libero, per così dire. E Graham non voleva finire con una pallottola nella schiena. E questo era un grossissimo problema. Ma, forse, poteva fare qualcosa.

Attendere una pattuglia.

Dopo circa una quarantina di minuti apparve una pattuglia di suo gradimento. Erano due soldati soltanto, e entrambi molto giovani, più di lui. Era inquietante pensare che avevano più o meno centoventicinque anni. Ma al momento questo non lo interessava. Montò il silenziatore all’MP4 mentre i due si avvicinavano. Si accucciò al fianco della roccia dietro la quale si era nascosto e poggiò il fucile a terra, poi lo inclinò lievemente verso l’alto. Tolse la sicura e chiuse un occhio per mirare meglio. Aspettò che i due fossero perfettamente allineati, per non sprecare più di un proiettile. Sparò. Nell’aria risuonò un piccolo stupido pop, poi i due caddero l’uno sull’altro, per poi rovinare a terra, sollevando una piccola nube di polvere. Iniziò a svestirne uno. Gli pareva che il corpo si stesse già irrigidendo, ma forse era lui a star esagerando.

Jones fu condotto lungo il gelido corridoio grigio. Gli pareva fosse più grigio e più gelido di quando se n’era andato, gli pareva. Avanzò, sperando che non avrebbero fatto male a Jo. Poteva sentire dietro di sé i passi della bambina. Si concentrò su quelli. Erano corti e bruschi, ma allo stesso tempo leggeri. A piedi nudi, quasi non faceva rumore.

Un soldato davanti a loro aprì la porta. A Jones parve di scorgere una certa compassione nel suo sguardo.

Entrarono.

Jones incrociò lo sguardo ardesia di Weinberg. C’era sempre quel qualcosa dentro, quel qualcosa che non riusciva ad individuare ma che gli aveva sempre messo inquietudine.

Weinberg sorrise, ammiccando. -Ma tu guarda che delizioso dono mi portano i miei seguaci. Il Dottor Solomon Jones. È un piacere rivederla, Solomon.

-Non posso dire altrettanto.

Weinberg si mise a ridere di cuore. -Ah, caro amico, dopo tutto questo tempo… È un vero osso duro, lei, devo riconoscerglielo.

-Alla fine mi ha preso, a quanto sembra.

-Non ha bisogno di congratularsi, amico mio. E questa bambina, è la sua magnifica creazione che ho l’onore di incontrare? Sono a dir poco deliziato.  

Jones non vide Jo sputare, vide solo il grumo denso e trasparente sulla faccia del suo sgradevole interlocutore. Vi fu una immediata reazione da parte di uno dei soldati che teneva Jo. La colpì in pieno viso col calcio del fucile. Jones si dimenò, provando a liberarsi, ma mano ferme e forti lo trattennero al suo posto. I due uomini accanto a Jo la rialzarono in piedi.

-Peccato che la bambina mi serva viva. -disse oliando la sua pistola con cura e molta calma. Sarebbe stato bello spararla proprio in mezzo a quel faccino angelico. Te lo immagini, Jones? Un bellissimo forellino nero in mezzo a tutto quel bianco, molto bello da vedersi. 

Jones si dimenò. Sapeva che se Jo avesse finito di essere utile sarebbe successo.

-Ma come ho già detto la piccola Jo mi serve. Jo si chiama, non è vero? -La guardò con compassione. -Povera creatura. L’hai convinta di essere normale, come una qualsiasi altra bambina, non è vero?

-Cacciati il suo nome di bocca, schifoso animale.

-Ma non è una normale bambina. -continuò imperterrito Weinberg, senza degnarsi di fingere di aver udito. -E tu, invece, ti starai domandando?

Jones si bloccò. Conosceva già il seguitò.

-Tu non mi servi proprio a niente. -disse, ed alzò la pistola. Fece fuoco. Jones udì l’urlo disperato di Jo e la risata di Weinberg prima di sprofondare nell’abisso dell’oblio. E fece in tempo a pensare che alla fine era riuscito a fare nella sua breve ma lunga vita a fare l’unica cosa che le dasse un senso: volere bene ad una persona.

Graham sentì lo sparo mentre passeggiava nel corridoio con un’uniforme troppo stretta e piccola per la sua mole considerabile colossale. Si irrigidì e cercò di individuare la porta dal quale era venuto il suono. Era piuttosto bassa, a forma di semiellisse. Vide che la guardia davanti la porta controllava spasmodicamente l’orologio davanti la porta, il quale misurava il tempo in un modo a lui sconosciuto. Ma solo da come si muoveva la guardia capì che attendeva speranzosamente la fine del turno. 

La lancetta più piccola si spostò su quel che in condizioni normali dovrebbe essere il quarto d’ora, e quella tirò un sospiro di sollievo. Poi si allontanò in gran fretta.

Graham si mise al suo posto. Non ebbe nemmeno tempo di trovare la posizione più adatta che sentì la porta dietro di sé aprirsi. Quindi fece quel che imparano a fare tutte le persone assennate in casi simili: si spostò di lato.

Ne uscì un uomo alto, sulla quarantina, con i capelli appena brizzolati sulle tempie, i quali erano elegantemente tirati indietro e opportunamente ed omogeneamente brillantinati. Aveva il volto pallido e molto allungato, con una fronte che sporgeva solo lievemente più del normale e delle stempiature molto notevoli. Ma quel che più catturò la sua attenzione erano gli occhi color ardesia. L’uomo aveva uno sguardo pieno di contraddizioni: allegro e addolorato, libero e braccato, felice ed insoddisfatto, ridente e piangente, bene e male. Era qualcosa di molto strano a vedersi, pareva che diecimila persone cercassero di affacciarsi contemporaneamente dalla stessa finestra.

Poi vennero due soldati che tentavano di tenere ferma una sua vecchia conoscenza. Jo provava a dimenarsi, a combattere, ma aveva uno sguardo disperato, e Graham si chiese il perché. La risposta venne subito dopo. Jones pareva essersi ristretto nella morte, come se l’elegante forellino nero al centro della sua fronte sudaticcia fosse un buco nero che aveva aspirato in sé tutto quel che aveva avuto dentro. E Graham pensò fosse proprio così, perbacco. Non sembrava più il folle professore affezionato al frutto di un suo esperimento, ma un guscio vuoto tranato da due uomini. 

Aveva una strana espressione facciale: sembrava in pace. Era possibile essere uccisi e morire in pace? Non lo sapeva.

Chiudevano il corteo due giovani donne in una tenuta militare di un rango alquanto alto.

Si era mosso troppo tardi, e adesso il dottore era morto. Ma poteva ancora salvare Jo. E distruggere quella base.

Il pensiero non lo aveva minimamente sfiorato prima, ed ebbe la forza d’una rivelazione. Ma Graham sapeva che era ciò che avrebbe voluto il professore. Lo aveva capito. Ma aveva preferito fingere di non averlo fatto, per vigliaccheria probabilmente. Ma cos’è che aveva sottolineato il Doc più volte mentre illustrava il piano? La base aveva un nucleo nucleare autosufficiente, ideato a lui stesso. Altamente radioattivo. Forse avrebbe potuto... ma no, le radiazioni si sarebbero diffuse anche in casa sua ed in tutto il suo vicinato.

Però…

Quella mattina aveva detto una cosa che gli era rimasta bene impressa, poco prima di partire. “Questo posto è una bolla di vetro” aveva detto. Alludeva forse a quello che lui stesso aveva visto appena arrivato là? Che la nebbia, nonostante la porta fosse aperta, non era uscita fuori e di conseguenza entrata nella casa, ma si era bloccata prima, come fermata da un muro invisibile? 

Forse poteva… Si mise una mano alla cintura, dove di solito si tenevano le granate. 

Ma era uscito di testa? Una granata, e nemmeno un grappolo di granate, non faceva assolutamente nulla ad un reattore nucleare. Bisognava attivare la fusione del nocciolo per fare esplodere tutta la base. E chi l’avesse attivata sarebbe esploso lì, insieme alla struttura. 

D’altra parte il Doc aveva detto che Jo poteva fare praticamente di tutto. E Graham aveva notato il piccolo cinturino apparentemente di ferro che le avevano messo al collo, forse, anzi, probabilmente per tenerla buona. Quindi, tolto quello, chissà non potesse far esplodere il nucleo?

Doveva liberarla. Ed in fretta.

Mentre Graham camminava a passo sicuro in quei corridoi che si potevano definire come una cartolina dall’inizio del ventesimo secolo pensò che tutta la situazione gli ricordava Star Wars di George Lucas, in particolare la scena della Morte Nera in cui i protagonisti recuperano la principessa Leia travestiti da StormTrooper. Lì le cose erano andate quasi bene, e sperava andassero quasi bene anche a lui, dato che ormai alla morte del Doc non si poteva più rimediare. 

Ebbe modo di notare che nessuno di quelli che dovevano essere di grado superiore al soldato che aveva ucciso e del quale si era appropriato dell’identità non gli facevano caso. Bene. Voleva dire che non si erano accorti che lui non apparteneva a quell’ambiente.  

Avanzò in mezzo a quella vuota anonimità classica degli ambienti militari segreti, sperando di vedere qualcosa che poteva aiutarlo a capire la posizione di Jo.

Cercò di rievocare alla mente la cartina dell’edificio. Quanto distava dal punto contrassegnato con la dicitura “uff. Weinberg”? Cercò di figurarsi il percorso tridimensionalmente. Doveva individuare il laboratorio. Il Doc aveva detto, seppur en passant, che lì c’era una cella in cui aveva sviluppato Jo. E dato che sapeva benissimo che i militari sono persone pratiche, sapeva altrettanto bene che Weinberg avrebbe messo lì Jo. Era il punto più sicuro per farlo, molto probabilmente. Svoltò a sinistra. Forse si stava confondendo? Possibile stesse sbagliando direzione in qualche modo? Non aveva modo di saperlo, c’era solo da sperare che la sua memoria non fosse totalmente da buttare. Avanzò senza guardarsi indietro. Doveva ostentare sicurezza per mimetizzarsi, nonostante dentro di sé sicuro non lo fosse affatto.

Tre vie. Svoltò a destra e continuò a camminare finché non vide uno stretto corridoio sulla destra.

Sorvegliato. Dannazione! Avanzò come se nulla fosse fino a quando non ebbe raggiunto una curva. La oltrepassò e poi si bloccò, posizionandosi spalle contro il muro. Sporse un lembo di volto oltre lo spigolo. La guardia, a differenza di quella davanti all’ufficio di quello che doveva essere Weinberg, questa era rigida ed immobile, come un fusto. Si guardava intorno con regolarità, e fortunatamente lui era abbastanza lontano per non essere notato. Ma non poteva avvicinarsi senza avere la certezza, o la quasi certezza, che appena fatta fuori la guardia non si sarebbe ritrovato davanti tutta la scorta di Weinberg, appena entrato.

Attese, iniziando a contare. Era un trucco che gli aveva insegnato u militare veterano di nome Cole. Per non dare di matto nelle attese, conta, diceva sempre. Graham lo aveva preso in parola. E pareva funzionasse sul serio.

Dal laboratorio uscì nuovamente Weinberg, e parte della sua scorta, alla quale mancavano i due soldati che avevano trasportato il corpo esanime del Doc. Prima che il corteo si allontanasse, si distaccò un altro soldato. Graham aspettò che Weinberg ed i suoi fossero fuori dal suo campo visivo per imprecare mentalmente. Quattro soldati, due fuori e due dentro. Poteva uccidere senza problemi i due fuori, ma quelli dentro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E quattro contro uno non era una battaglia alla quale avesse voglia di assistere, specie in prima persona. Certo, aveva le granate fumogene, ma così sarebbe stato scoperto.

Oh, ma al diavolo, chi voleva ingannare? Non poteva restare segreto per sempre, prima o poi avrebbero scoperto i corpi dei due soldati, tanto valeva che si rivelasse prima, e per un buon fine. Prese due granate fumogene dalla cintura e si premurò di avvicinarsi alle due guardie dando le spalle alla fotocamera, che aveva notato dietro di sé. Prese la Colt M1911 che aveva trovato addosso ad uno dei due soldati, la caricò e se la accostò al corpo in modo che non si vedesse.

Quando notò di essersi avvicinato abbastanza da indurre sospetto nei due, sparò. Due colpi, in maniera abbastanza veloce da fare in modo che nessuno dei due potesse riuscire a reagire in alcun modo. Sentì che i passi ritmici dall’interno della stanza si erano bloccati. Era il momento giusto per agire. Aprì la porta di scatto e lanciò le due granate. Quando furono in aria, sparò ad entrambe, in modo da creare una piccola esplosione che confondesse momentaneamente i sensi dell’udito, più una diffusione istantanea del fumo. Certo, non poteva vedere i suoi avversari nella nebbia, ma su questo non poteva fare alcunché. Chiuse la porta per non fare fuoriuscire il gas nel corridoio. Sentì gli immancabili colpi di tosse. Doveva muoversi, o il gas avrebbe rallentato anche lui. 

Un altro colpo di tosse, da sinistra. Mirò e sparò cinque volte. Un tonfo ed un urlo. Preso ma non affondato. Si mosse in direzione dell’urlo, poi vide il soldato steso a terra che si teneva la coscia con una mano, strizzandola, come per anestetizzare il dolore con altro dolore. Mirò in fronte e sparò. Il soldato smise di urlare. Si allontanò di qualche passo. Provò a ricordare le cose segnalate dell’interno del laboratorio sulla cartina. Non ci mise molto. Niente. Dannazione!

La nebbia ritornò ad avvolgerlo. Gli prudeva la gola, sentiva l’irrefrenabile bisogno di tossire. Ma non poteva, avrebbe potuto rivelare la sua posizione all’altro.  

Venne assalito da qualcuno. Sentì due mani possenti avvolgersi intorno al suo collo e stringere. Provò a dimenarsi, iniziava a pulsargli la testa per la mancanza d’ossigeno ed il gas. Mise la mano alla cintura, se non sbagliava c’era una baionetta accanto alle bombe. Grazie a Dio il tipo che aveva addosso non se n’era accorto. Toccò il manico del coltello, lo estrasse dal fodero, alzò il braccio, poi lo abbassò con forza. Il metallo penetrò nell’occhio del suo avversario, attraverso le meningi, giù verso il cervello. Continuò a spingere finché non sentì il manico toccare la pelle, ed ebbe la certezza che tutta la lama fosse nel cranio. La stretta si allentò e Graham spinse il corpo di lato per evitare che gli rovinasse addosso. Si rialzò, si diresse verso la porta e la aprì per far diradare il gas. Iniziò a tossire convulsamente, ma ora non rischiava più nulla a farlo. Iniziò a vedere l’interno della stanza: diversi tavoli da lavoro con attrezzature scientifiche lievemente antiquate, tantissime poltroncine girevoli, un tavolino di metallo a parte invaso da bisturi ed una cella dalle mura opache. Bingo.

Si avvicinò, imbracando l’MP5. Mirò verso quel che sembrava il pannello di controllo e sparò tre colpi. La porta si aprì. Al suo interno, Jo si stava alzando in piedi. Quando si accorse che era lui, sogghignò. Graham si avvicinò e cominciò ad armeggiare con la fibbia del collare. Era

incredibilmente difficile, ma se lo aspettava. C’erano almeno una ventina di pulsantini diversi, tutti troppo minuscoli per essere distinti l’uno dall’altro.

-Il terzultimo della quarta fila. -disse Jo.

Graham contò, trovò il pulsante giusto e lo schiacciò. Dal collare fuoriuscirono lentamente degli aculei di ferro, e solo in quel momento capì che probabilmente prima erano infilati nel collo della bambina. 

-Il quinto da destra della prima fila. -disse Jo con voce piangente, probabilmente per il dolore. Graham lo trovò e lo schiacciò, per ritrovarsi il collare, aperto, tra le mani.

Nel collo di Jo c’erano dieci piccoli crateri sanguinanti, ma questo parve non impedirle di aprirsi da sola le manette, che colarono a terra trasformate in metallo fuso.

Graham la prese in braccio e se la mise sulle spalle, poi schizzò fuori dal laboratorio, brandendo l’MP5.

Il suono poco rassicurante d’un allarme riecheggiò negli anonimi corridoi grigi, cosa che lo indusse a correre più veloce. Sempre il vecchio Cole gli aveva detto una cosa, in guerra: quando in una operazione di infiltrazione scatta l’allarme, squagliatela. E Graham aveva intenzione di fare proprio questo.

Due soldati sbucarono all’improvviso dal fondo del corridoio. Mirò e sparò al primo, che cadde a terra come un tassello del domino. L’altro riuscì a sparare un colpo. Graham sentì il flusso d’aria quando il proiettile gli passò a forse meno di un centimetro dalla guancia. Sparò di nuovo, colpendo il secondo alla gamba, si avvicinò, sparò un colpo in testa e continuò a correre. Intanto ripercorreva mentalmente la cartina. Dove si trovavano le tre uscite? Una principale nell’ala sud, le due secondarie nell’area sud e ovest. Doveva trovarsi nell’ala est, dunque le più vicine erano quelle nord-sud. Quella sud era secondaria, di conseguenza meno sorvegliata, quindi la sua scelta propensò immediatamente per quella. Prese il primo corridoio verso sud che si ritrovò davanti, aumentando il ritmo della corsa così tanto che Jo dovette aggrapparsi alle sue spalle per non essere spinta all’indietro. Quattro soldati gli vennero incontro, con le loro rispettive armi. Si precipitò nel primo corrido alla sua destra, poi si guardò intorno, mentre registrava dettagli col cervello. Una grata di metallo. Guardò la bambina appollaiata sulle sue spalle, lei annuì per far cenno di aver capito. I bulloni della grata si svitarono, e quella cadde a terra. Graham prese Jo fra le braccia e la spinse nel condotto. I passi si facevano sempre più vicini. Si voltò verso l’imbocco dove erano apparsi i quattro. Sparò a caso una serie di colpi, poi si appese all’orlo del condotto e si ci issò dentro a forza di braccia. Sentì un improvviso dolore lancinante al polpaccio, ma chissà come riuscì a entrare completamente. Appena fu dentro la grata si richiuse da sola. Guardò verso l’interno del condotto e vide Jo seduta che sogghignava in silenzio. La raggiunse carponi, poi sedette a sua volta per vedere cos’era successo: un proiettile gli aveva attraversato la gamba da parte a parte. Si strappò un pezzo di tuta e lo usò per fasciarsi stretta la ferita, poi fece cenno a Jo di seguirlo. Avanzarono carponi a lungo. Da sotto li raggiungevano i rumori d’una base in allarme. Continuarono ad avanzare.

-Sai dove si trova il nucleo? -chiese Graham.

Jo annuì.

-Riusciresti a farlo esplodere?

Nessuna risposta. Graham temette che non avesse capito, ma poi comprese che non rispondeva proprio perché aveva capito. 

-A debita distanza, si intende. -aggiunse.

Esitò. Poi annuì di nuovo.

-Bene. Allora fammi strada. - rispose, poi la fece passare avanti. Lei si mosse velocemente e con sicurezza verso un condotto a destra, ma poi si fermò.

-Strada per dove, se il nucleo deve esplodere quando siamo furi?

-Strada per dove si trova Weinberg.

Weinberg fissava nel vuoto. Avevano trovato i corpi dei due soldati che aveva lasciato davanti alla cella della ragazzina. Ovviamente lei non c’era più, ed il collare costrittore giaceva sul pavimento della cella. Si chiedeva chi l’avesse liberata. Gli risultava di aver ucciso tutti quei soldati che si erano ribellati per seguire Jones, e di sicuro non era stato uno die suoi. Quindi, chi poteva essere stato’? Non ne aveva la più pallida idea, ma non faceva molta differenza. Il problema era che la ragazza era a piede libero, ma si poteva risolvere. Forse il principe azzurro non si era accorto dei buchi d’ago nelle braccia della bambina. Prese una provetta di sangue e la rimirò alla luce del lampadario. Sembrava comunissimo sangue, ma sapeva che non era così. Bucò la fialetta con una siringa e me riversò il contenuto al suo interno. Si arrotolò una manica della camicia, fece gonfiare le vene e bucò la più grossa. Spinse lo stantuffo.

Graham indicò la grata in ferro sotto di loro.

-Questa? -chiese sottovoce.

-Sì, questa. -gli rispose Jo.

Graham alzò un piede e lo riabbassò con forza. La grata cedette sotto di lui e si ritrovò catapultato nella stanza. Indirizzò i piedi verso la scrivania per non atterrare in malo modo, poi ruotò in aria e si ritrovò con i piedi per terra. Stranamente, Jo era già scesa e se ne stava in piedi accanto alla scrivania.

Graham analizzò la stanza. Era una specie di ufficio secondario, con una scrivania piena di fogli e null’altro. La stanza era completamente vuota, ma la porta era chiusa dall’interno. Graham si chiese come fosse possibile.

Improvvisamente, Jo parve in agitazione.

-Cosa c’è? -le chiese. Lei non rispose.

-Cosa c’è? -ripeté. 

Per la seconda volta in meno d’un’ora fu attaccato da qualcosa. Venne sbalzato all’indietro e sbatté dolorosamente la schiena al muro. Si rialzò e si ritrovò davanti Weinberg. Ma non era il Weinberg che aveva visto poco prima, o quantomeno non lo sembrava. La sua pelle aveva assunto una sfumatura malsana del verde, e gli occhi, prima color antrace, erano diventati rosso fuoco. La testa era piena di protuberanze, come grossi lividi ed era diventato decisamente più alto. Lo riconobbe solo per lo sguardo inquietante.

-Ohibò, chi abbiamo qui? - fece Weinberg. -Qualcuno che non era invitato è comunque venuto alla festa, mi pare. È un piacere, signor… -Non intendo dirle il mio nome.

-Ah, mio caro, non ne vedo il bisogno. Posso chiamarla Graham?

La confusione lo invase. Cosa gli era successo e come sapeva il suo nome? Improvvisamente, capì. Riportò lo sguardo alla siringa vuota sul tavolo. Rimaneva ancora qualche goccia di sangue sul fondo della fiala.

-Vedo che ha già afferrato, Graham. Sì, lei è molto sveglio, capisco perché ha lavorato col caro buon vecchio Jones. Era ottuso come un bue, ma molto, molto intelligente. È stato un peccato doverlo uccidere. 

Graham mirò e sparò, ma il proiettile si fermò a mezz’aria, per poi cadere a terra, come se fosse andato a sbattere contro una superficie più resistente.

Da dove si trovava, poté vedere Jo che si avvicinava a Weinberg. Forse, se lo distraeva, sarebbe riuscita a fare qualcosa. Gli saltò addosso e gli infilò una granata fumogena nelle mandibole, e senza perdere tempo, sparò contro la superficie liscia ed opaca della bomba a mano.

Usava quel trucchetto per far avere una esplosione che mandasse momentaneamente in confusione l’apparato uditivo, e per diffondere quasi istantaneamente il gas. Ma in quel momento gli serviva perché sperava fosse un’esplosione abbastanza forte da spaccare le mandibole d’una persona, e che il gas gli desse più problemi del dovuto diffondendosi direttamente nelle vie respiratorie. 

L’esplosione fu pressocché istantanea, e Graham vide le mandibole tendersi al massimo prima che si diffondesse il gas. Rimase immobile, in attesa. Il fumo si era diffuso solo in piccola parte, quindi la maggior parte doveva essere finita nel corpo di Weinberg, ed era un bene. Aspettò. Il gas fuoriuscito si diradò, lasciando vedere lo spettacolo raccapricciante che era adesso la faccia di Weinberg: la carne delle guance era aperta in due come i lembi delle spesse quinte d’un teatro, la pelle intorno alla bocca era annerita e puzzava di bruciato, due rivoletti di fumo grigio continuavano ad uscire lentamente dalle narici ed i pezzi del metallo opaco avevano trapassato le gote, bucandole come una grata. Weinberg continuava a muoversi a passetti, la bocca tesa come in un sorriso sghembo, come se trovasse il tutto molto divertente. Graham lo oltrepassò senza dargli retta e prese in braccio Jo, poi aprì la porta della camera ed uscì.

-In quale ala ci troviamo? -chiese a Jo.

-Ala Sud.

Ala sud. C’era l’uscita secondaria, nell’ala Sud. Si mosse a zig-zag nei corridoi, per ritrovare la sua posizione. Sentì dietro di sé che la porta cigolava. Si voltò: Weinberg si muoveva con lentezza, ma era ancora vivo. Forse stava provando a dire qualcosa, ma riusciva ad emettere unicamente ringhi gutturali e cavernosi. Graham riprese a correre, ma non sapeva dove stava andando.

Prese il primo corridoio che si ritrovò davanti, sperando di ritornare presto in qualche punto della cartina che ricordasse. Poi prese un altro corridoio. Ed un altro ancora. Pareva fosse riuscito a lasciarsi indietro Weinberg, ma apparvero otto soldati circa da altrettanti corridoi secondari. Graham ebbe voglia di lasciare perdere, di non fare più niente. Ma vide improvvisamente i soldati cadere a terra, urlando. Alzò lo sguardo. Jo, sulla sua spalla, fissava gli uomini agonizzanti con espressione concentrata.

Graham riportò la sua attenzione sul pavimento e continuò a correre.

Finalmente trovò un’area che conosceva. Era nei pressi dell’uscita. Svoltò il corridoio di destra e si ritrovò davanti un gigantesco portone dall’aria pesante. Di certo non sarebbe riuscito a spostarlo da solo.

-Jo.

La bambina annuì, poi tese le braccia in avanti. La porta si aprì con lentezza, strisciando contro il pavimento tirato a lucido. Uscirono.

-C’è un eliporto, nella base.

Graham guardò Jo di sottecchi. -Dici davvero?

Jo annuì. -Nella parte est. 

Graham non si sentì sollevato, ma quasi. Un elicottero. In guerra, elicottero vuol dire salvezza. E, in quel caso, elicottero voleva dire che sarebbero arrivati prima all’unica via d’uscita che avevano: quella che dava sul corridoio di casa sua. Al pensiero di rivedere Liam, il suo fratellino di neanche dieci anni, ed i suoi genitori gli si riempivano gli occhi di lacrime, ma non era il momento adatto. Che mammoletta che era diventato. Era stato tre anni senza i suoi, e adesso si comportava così dopo poco meno di una settimana? Si diresse verso l’est, dove, effettivamente, sembrava esserci un eliporto. Forse lo avevano edificato in seguito, perché non appariva nelle mappe.

Graham aumentò l’andatura. Raggiunsero l’elicottero e salirono sopra. Era un vecchio modello, ma pensava di essere in grado di pilotarlo. Lo accese ed iniziò a prendere quota. Vide, che più o meno quattro cinque metri più in basso, la figura contorta ed orripilante di Weinberg si stava avvicinando con lentezza. Badando che l’elicottero non si squilibrasse, Graham si sbilanciò lievemente verso sinistra e gli scaricò l’intero MP5 addosso. Weinberg cadde a terra. Forse si sarebbe rialzato, ma l’importante in quel momento era allontanarsi il più presto possibile.

Arrivò a cinquanta metri di quota. Settanta. Cento. Poi avanzò, fendendo l’aria con quell’elicottero che pareva uscire da una cartolina di inizio ‘900.

-Verso quale direzione vado?

Jo ci pensò un poco su. -Ovest. Forse siamo fortunati.

-Per quale motivo?

-La tempesta di sabbia si è spostata.

Graham inizialmente non capì a cosa alludesse, ma poi gli tornò in mente quella specie di nebbiolina che aveva dominato quattro dei sei giorni che aveva passato là. Adesso sì che si sentiva sollevato. Erano le condizioni adatte per svignarsela.

Erano passate cinque ore quando Jo gli mise una mano sulla spalla e strizzò con forza.

-Cosa c’è? -chiese Graham.

-Scendi.

Graham la accontentò, ed iniziò a perdere quota. Vedeva il terreno avvicinarsi sempre di più. Cento. Settanta. Cinquanta.

L’elicottero toccò terra. Jo fu la prima a scendere, Graham venne subito dopo di lei. C’erano i due cadaveri che aveva trovato all’inizio. Solo in quel momento si ricordò d’una cosa: aveva scordato di prendere il pass. Soffocò appena un’imprecazione. L’idea di fare tutto da capo lo smontava. Poi si accorse che Jo teneva in mano un piccolo pezzo di carta plastificata grigia. 

-Brava. -le disse in tutta sincerità. Lo prese e lo tese davanti a sé. Nell’aria apparve una specie di maniglia. Ci mise una mano sopra e la ruotò. La porta si aprì un poco: dava sul posto giusto. -Tocca a te. -le disse.

Jo si voltò dietro di sé. Si morse il labbro, e a Graham parve fosse lì per lì dal piangere.

-Jo?

La bambina annuì. Tese le mani in avanti. 

Da lontano l’esplosione ricordò a Graham dei filmati che aveva visto molto tempo prima sulle bombe degli americani lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Aprì la porta di scatto, prese Jo ed entrò, poi richiuse alle spalle prima che le radiazioni li raggiungessero.

Avanzò nel corridoio di casa sua, fino alla porta della cameretta di suo fratello. Liam dormiva tranquillo nel suo letto, espirando ritmicamente. Graham sorrise quasi per riflesso. Era totalmente a casa, ora.


 


 
Lorenzo, 13 anni
 

Lo spirito yokai

In una caverna senza fondo, un bambino con gli occhiali a specchio, riposava beatamente quando vedo la luce e con luce seguirla.Tutto d'un tratto la luce si fermò dista bambino:”

Non hai da mangiare vero?” “Esatto, ormai non faccio un pasto completo da 4 giorni, a proposito, tu chi sei?” “ Caro bambino, io sono uno dei sette spiriti yokai, io sono lo spirito che ha il compito di offrire ricchezza in cambio dell’anima della persona al quale ho offerto ricchezza” “ Wow, quindi sono stato fortunato di averti incontrato!” “ Eh sì, e a questo punto ti chiedo: vuoi vivere per venti anni da miliardario e, una volta finiti i venti anni mi prenderò la tua anima o, vuoi che le cose rimangano così per sempre?” “ Sono stufo di questa vita, scelgo di diventare miliardario!” “ Perfetto, ci vediamo tra vent’anni”. Tutto d'un tratto il bambino svenì, e appena si svegliò si accorse di essere una villa. Non ci poteva credere, lo spirito yokai non gli aveva mentito era in una vera e propria villa da miliardario! Ma subito dopo bussarono alla porta, aprì un signore molto vecchio ma alto e robusto, sembrava una di quelle persone molto sagge. Il signore molto vecchio disse al ragazzo:” Signorino Bruce, la sua colazione a letto” “Ma posso farti una domanda?” “ Certo signorino Bruce” “ Ma, tu chi sei?” “Io sono il tuo maggiordomo, non si ricorda di me?” “ Si certo, grazie mille per la colazione”. Successivamente Bruce fece un giro veloce della villa, ed era talmente grande che finì il suo giro dopo 10 minuti! Si vestì con i migliori vestiti che aveva nella sua cabina armadio e uscì di casa e, tutti i cittadini del regno lo salutarono e gli augurarono di passare una buona domenica solo che Bruce era completamente ignaro di ciò stava succedendo. Dopo un giro veloce del regno, tornò a casa e chiese al maggiordomo che lavoro facesse e stranito egli gli rispose che fabbricava armi per l’esercito e, solo alcune delle armi che progettava, le avrebbe vendute agli acquirenti che offrivano più denaro. A questo punto, scese in laboratorio e cominciò a fabbricare armi anche se, proprio non sapeva cosa fare perché quella non era la sua vita e quello non era il suo lavoro. Solo che, per qualche strana magia, acquisì le tecniche e le conoscense giuste per fabbricare armi e, ne costruì una che ti permetteva di vincere qualsiasi scontro tu stessi facendo, diciamo che era almeno duemila volte più forte di una bomba atomica. Ma ad un tratto, mentre ammirava la sua creazione, sentì un forte mal di testa e cade in un sonno profondo. Appena sveglio, si ritrovò di nuovo nella sua sporca caverna davanti allo spirito yokai, che esclamò:” Secondo te, io, uno dei sette spiriti yokai, ti facevo vivere venti anni da miliardario?” “Tu mi hai mentito!” “E te ne sei accorto solo ora? ed ora, voglio la tua anima...

 
 


 

Lorenzo Pica, 12 anni
 

Inventa una storia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva in inventare storie. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a giulia comparve treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” 

Giulia guardò di nuovo dalla finestra. E cominciò a scrivere: 

“Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era molto impaurita, era scappata da un circo. Si sentirono delle urla provenire da sotto la casa, e allora Madre Natura, preoccupata che le altre persone alla vista dell’animale si spaventassero, con il suo tappeto magico alzò un forte vento per allontanare la tigre. Il vento, fortunatamente, allontanò l’animale e le persone non ebbero più paura, ma allo stesso tempo fece svegliare il drago che si trovava in una caverna lì vicino. Allora questo staccò la catena con cui era legato. Un cavaliere che era di passaggio volle affrontarlo, ma ben presto si ritrovò in una fuga sul suo cavallo, rincorso dal drago.


 


 

Lorenzo Mearini – Maria Lanzi – Andreea Amariei
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR)

 

STORIA DI NATALE

Natale si avvcinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte … La pasta madre prese vita e non si rese conto dove fosse.

Le prese il panico e iniziò a risalire, ma quando fu in superficie, si rese conto che era in un luogo sporco e buio.

Cominciò a cercare una via d’uscita, girò tutta la fabbrica, ma non trovò alcuna via d’uscita.

Man mano che camminava iniziò a indurirsi; una via di fuga la trovò, ovvero una finestra semiaperta.

Quando finalmente uscì era diventata più grande. Ad un certo punto trovò il proprietario della fabbrica accanto a un lampione a piangere.

Gli si avvicinò e il proprietario sentì subito un odore buonissimo, si girò e trovò la pasta e si stupì, non si sarebbe mai aspettato che potesse accadere una cosa simile.

La pasta gli disse che lo voleva aiutare a fare i panettoni più buoni di sempre.

Il proprietario fece allora costruire un marchingegno che permise di clonare la pasta, perché avesse sempre lo stesso gusto.

Da lì nacque la più grande industria di panettoni in Italia, il sindaco lo premiò con la pulizia di tutto l’edificio, che divenne splendido e il proprietario ringraziò la pasta madre per tutto quello che aveva fatto per lui.


 


 
Lorenzo, 8 anni
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l'azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte da sottoterra il lievito andò dentro la fabbrica.

Entrò nel pandizenzero, il pandizenzero diventò enorme e spaccò la fabbrica. Il pandizenzero camminò sulla strada. La vigilia di Natale il pandizenzero incontrò Babbo Natale e lo salutò. Pandizenzero andò dall'altra parte del mondo in vacanza, le persone che stavano al mare si spaventarono e scapparono, egli fece un bagnetto nel mare, ma tornò subito a riva perchè non si era accorto che era arrivato fino all'oceano dove c'erano gli squali, ecco perchè tornò a riva.

Pandizenzero si divise in due piccoli pandizenzero e saltarono così in alto che andarono in Asia, poi in Africa e poi dove erano “nati”. Aggiustarono la fabbrica e tornarono sottoterra proprio quando l'orologio andò sul Natale tornò il pasticcere, così i pandizenzero ogni vigilia di Natale tornarono vivi.


 


 

Linda Di Lorenzo
III B
 

Jack, un bambino di undici anni era partito con la sua famiglia per andare in un’isola dell’Oceania. Questa isola non ha un nome e fa parte di un gruppo di otto atolli che insieme costituiscono la Repubblica di Kiribati. 

Jack e la sua famiglia avevano portato con sé pochi bagagli, solo la sorella Olivia ne aveva due più il suo zainetto per i trucchi. La sorella aveva 15 anni e non era la prima volta che prendeva l’aereo, mentre lo era per Jack. Aveva molta ansia e, appena saliti, Jack si sedette vicino alla madre in modo che al decollo potesse tenerle la mano e potesse tranquillizzarlo. Aspettarono una decina di minuti fin quando l’hostess disse che sarebbero partiti entro poco e quindi avvisò di allacciare le cinture di sicurezza. La madre disse a Jack: “stai tranquillo amore, sarà bellissimo” Jack si rasserenò e chiuse gli occhi. Ormai erano in volo da 20 ore circa quando Jack iniziò a sentire dei rumori strani, come dei cigolii. Dopo circa 30 minuti si risentirono ma molto più forti e tutti i passeggeri iniziarono a preoccuparsi, neanche le hostess sapevano cosa stesse succedendo dato che l’aereo iniziava a perdere quota. Di colpo si sentirono urla e preghiere di persone che ormai avevano capito che l’aereo stava precipitando nel mare. Stavano ormai a pochi metri dall’acqua, ma l’aero riuscì a fare un ammaraggio; le hostess diedero dei salvagenti e aprirono lo sportello con lo scivolo per le emergenze. Quasi tutti riuscirono a salvarsi, ma altri purtroppo no. 

Jack e la sua famiglia si ritrovarono in un mare agitato e tempestoso, ma si accorsero che stavano abbastanza vicini a un’isola, così iniziarono a nuotare con le braccia e dopo circa un’ora riuscirono a raggiungere la riva. Jack era sfinito e ormai da tanto tempo non faceva un pasto completo, ma l’isola sembrava piena di vegetazione e di frutti. I genitori lo incitarono ad alzarsi per cercare del cibo e un riparo.

Passarono molti giorni prima che arrivassero i soccorsi, Jack e la sua famiglia erano dimagriti, deboli e traumatizzati, ma Jack indossava comunque i suoi fantastici occhiali a specchio che aveva portato nella tasca del giacchetto.

 


 


 
Letizia Sciaulino, 10 anni
 

INVENTA UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. a Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto...

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. e cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Ma questa è solo una delle stranezze che ci sono nel mondo di Staniword, per esempio lì non c'è l’attaccapanni ma lo staccapanni: hai bisogno di abiti nuovi, staccali dallo staccapanni; così risparmi tempo e soldi. Oppure, anzi che il cannone, lì c’è il discannone che è il contrario del cannone: in una guerra si suona la strastrombetta e si spara con il discannone ed ecco disfatta la guerra!

Questa storia però parla di un gruppo di sbambini Stranesi (uno sbambino è in tutto perfetto) di cui una che si chiamava Dissofia. 

Dissofia stava andando alla discuola che si chiamava “Dis” e quel giorno aveva la verifica di smatematica e non era affatto preoccupata. Appena finito le maestre le dissero che aveva preso 100 e lode; allora Dissofia andò felice dai suoi due migliori amici Smiranda e Disnick (che sono anche loro sbambini) le si congratularono chiedendole se voleva andare, dopo la scuola, a prendere un pezzo di spizza insieme a loro due e lei accettò.
 

Di pomeriggio, appene finita la scuola, i tre sbambini si ritrovarono per prendere la spizza insieme, quando Dissofia si fermò a guardare la cosa più strana di Straniword: una scuola scientifica! Smiranda, Disnick e Dissofia erano così curiosi che fecero saltare la felice merenda per andare a quella che forse sarebbe stata un’ottima disavventura (che per gli Stranesi è la più bella avventura di sempre).

Ma subito ci fu un lampo di luce e loro senza accorgersene erano in un posto diverso da Straniword: il nostro normalissimo pianeta Terra; ma la scuola c’era ancora.

Appena entrati nella scuola scientifica la loro attenzione si concientrò su una porta marrone con la maniglia in ferro e con un cartello con su scritto “Non entrare“ ma loro ci entrarono lo stesso.
 

Lì dentro trovarono un signore con il camice bianco e degli occhialini sul naso, che noi ben sappiamo essere uno scienziato ma loro non lo sapevano perchè su Straniword, alle prese con una macchina e appena li vide capì subito l’errore. Lo scienziato raccontò loro cos’era successo: lui aveva inventato il teletrasporta-mondi paralleli che ti teletrasporta in mondi paralleli e lui la provò per primo e fu un gran successo perchè atterrò a Straniword ma loro erano troppo vicini e atterrarono con lui sulla Terra ma la macchina si ruppe per motivi ancora ignoti, quindi loro per ora non potevano tornare a Straniword.

Ma il problema era un’altro: lo scienziato aveva dimenticato di prendere appunti mentre costruiva la macchina quindi ci volevano un sacco di esperimenti per rifare la macchina uguale e che funziona perfettamente come quella di prima!

I tre sbambini allora ebbero un’idea: nel loro mondo era già stato inventato il teletrasporto e ognuno ne aveva uno trasportabile in giro e Smiranda lo portava sempre con se; modificato un pochino avrebbe avuto gli stessi effetti dell’altro. Lo scienziato allora si mise subito al lavoro e i tre sbambini intanto si misero a esplorare la Terra, pianeta a loro sconosciuto.

Visto che erano a Londra fecero subito tappa al Buckingham Palace dove trovarono quella che per loro era la sregina (cioè per loro la regina che fa tutte le scelte giuste senza sbagliare una sola volta) e la onorarono per tutto il tempo chiedendole il suo nome; lei sbalordita disse loro di chiamarsi Elisabetta.

In quello stesso momento arrivò di corsa lo scienziato che, scusandosi, prese i sbambini e li portò fuori dicendo loro di aver già finito tutto e di averla già testata, funzionava come l’altra!

Allora corsero tutti al laboratorio scientifico dove si fiondarono alla macchina e lo scienziato, prima li salutò e poi accese la macchina; subito i tre sbambini furono catapultati nel vicolo vicino alla spizzeria!

Felici della loro disavventura tornarono a casa per andare a dormire e sognare l’accaduto.
 

FINE!


 


 

Di Leonardo Cicchetti
Scuola Secondari di Primo Grado – I.O. Carsoli
 

Natale si avvicinava ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica.

Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma alla vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane  pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica.

Durante la notte il pasticcere Francesco, dopo una lunga giornata, si avviò verso casa, durante il  tragitto pensò che domani sarebbe tornato a lavoro. Il giorno dopo, si alzò molto presto, fece colazione prima di uscire e diede da mangiare al suo cane, che si chiamava Rupert e che aveva un manto marroncino chiaro con una macchia bianca sull’occhio destro. Era un bassotto di 6 anni. Lo salutò dandogli una carezza dolce sulla fronte e si avviò per andare in fabbrica.

Quando arrivò alla fabbrica iniziò a dissotterrare la pasta madre, poi la prese e cominciò a lavorarla per fare i panettoni. Lavorava giorno e notte per aiutare il suo datore di lavoro, per questo convinse i suoi colleghi a lavorare insieme a lui per accelerare la vendita dei panettoni. Un mese dopo grazie al suo  impegno e a quello dei suoi colleghi pasticcieri riuscì a far riaprire la fabbrica prima del previsto. Organizzarono una fantastica sorpresa al datore di lavoro che aveva perso ogni speranza.

Tutta la città apprezzò i panettoni e decise di comprarne molti altri ancora e la fabbrica divenne sempre più grande e perciò il datore di lavoro decise di assumere altri pasticcieri sparsi per tutta la città. In questo modo divenne una delle fabbriche più famose non solo grazie ai suoi panettoni, ma soprattutto grazie alla solidarietà di chi ci lavorava. Il padrone della fabbrica ringraziò per sempre Francesco per il suo gesto così solidale. Francesco decise di donare dei panettoni alle persone povere che incontrava per la città. Poi andò a casa per festeggiare il Natale con la sua famiglia ed altri suoi parenti stretti. Regalò a tutti un panettone ripieno di cioccolata con sopra zucchero a velo e granella di pistacchio. Finita la cena giocarono tutti a tombola, a carte e ad altri giochi da tavolo.

Più tardi andò a salutare i suoi amici e colleghi della fabbrica e anche con loro condivise momenti di pura felicità; il loro gesto li avrebbe accomunati per sempre, rendendoli gli angeli del Natale, quelli che col loro panettone facevano sorridere tutti gli abitanti della città. L’ultima persona che Francesco desiderava vedere e che non vedeva da tempo a causa del suo lavoro era la sua fidanzata Maia che abitava dall’altra parte della città, per questo si fece accompagnare da suo cugino Ettore con la macchina. Maia lo aspettava con ansia sotto il portone del suo appartamento. Per quell’atteso arrivo Francesco le aveva regalato un panettone a forma di cuore con all’interno delle splendide fragole di bosco, con sopra dei frutti di bosco da lui stesso raccolti proprio per lei. Nella scatola del panettone c’era un biglietto a forma di stella con si scritto: “Sei il mio dolce preferito, quello di cui non mi stancherò mai!”

Alla fine tutti gli abitanti della città non vedevano l’ora che arrivasse il giorno di Natale per poter gustare i magnifici panettoni di Francesco e dei suoi amati colleghi pasticcieri.

La morale di questo racconto è di non abbattersi mai perché il duro lavoro ripaga sempre in ogni situazione e soprattutto che l’unione fa la forza.


 


 

NOME: LEONARDO
COGNOME: TIRABASSO
ETÀ: 8 ANNI
SCUOLA: I.C. ELISA SCALA-ROMA
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.  

Durante la notte il lievito madre si animò e cominciò a vagare per le strade della città, intrufolandosi nelle fabbriche e nei negozi, nutrendosi di ogni lievito, farine e zuccheri che scovava. A furia di nutrirsi divenne un immenso pandoro: per quanto era grande cominciò a vibrare e così a traballare spargendo pandori fumanti già impiattati con tanto di zucchero a velo.

Era quasi l’alba del 25 dicembre quando il lievito madre portò un bellissimo pandoro al latte davanti casa del giovane pasticcere. Tutti gli abitanti della città spinsero il capo della fabbrica a riaprire assumendo il lievito, tornando così a vendere non più panettoni, ma pandori.


 


 
 
Lea, 13 anni 

Sui rami di un albero, un bambino con gli occhiali a specchio sembrava perfettamente a suo agio, eppure non lo era davvero. Voleva sembrare a suo agio. Voleva far pensare che lui stesse su quel ramo regolarmente, ma non ci stava. Voleva sembrare una persona a cui piacciono gli occhiali a specchio, ma non gli piacevano. Il bambino con gli occhiali a specchio era salito su quel ramo cinque minuti prima della fine degli allenamenti di pallone, e aveva avuto paura d cadere dal primo secondo di arrampicata. Un minuto prima della fine degli allenamenti di pallone si era messo gli occhiali a specchio, si era spettinato i capelli e aveva assunto una posa da spaccone: una gamba che pendeva dal ramo, l’altra piegata a formare un angolo retto, il braccio afflosciato sulla gamba piegata, l’altro sul cavallo. Il bambino con gli occhiali a specchio, che più tanto bambino non era, pensava che l’avrebbe fatto ingelosire al suo amico così. Se ne stava là ad aspettare la domanda “che ci fai qua?” e lui, lo sapeva, avrebbe risposto “nulla, mi godo la mia meravigliosa vita mentre aspetto che Tito esca…” e, lui lo sapeva, l’amico l’avrebbe guardato perplesso, gli avrebbe chiesto “e chi è Tito?” Il bambino con gli occhiali a specchio aveva la risposta pronta, anche se Tito non esisteva, lo sapeva bene lui, avrebbe detto “nessuno, è un mio amico, andiamo in giro insieme oggi.” E lì, lui lo sapeva, l’amico avrebbe sentito dentro un rigurgito di gelosia, sarebbe restato senza parole, e poi avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andato. Ma il bambino con gli occhiali a specchio, che, diciamolo, più tanto bambino non era, pensava ancora. Doveva proprio fargli capire al suo amico che non gli importava più di lui. Era passato oltre. Si poteva mettere gli auricolari, fare finta di non sentirlo quando l’amico gli avrebbe chiesto “Ameri’ che ci fai qui?”. Si sarebbe guardato intorno, dopo un po’ l’avrebbe individuato, si sarebbe tolto un auricolare, uno solo, e avrebbe detto con una smorfia di pietà (che non c’entrava nulla, ma non ci sta mai male) “Scusa, che? Non ho sentito?” L’amico avrebbe ripetuto e da lì la conversazione andava bene come se l’era immaginata in partenza. “Ho detto: che ci fai qui?” “Nulla, mi godo la mia meravigliosa vita mentre aspetto che Tito esca…” “E chi è Tito?” “Nessuno, è un mio amico, andiamo in giro insieme oggi.” E così via. Era il metodo perfetto. E diciamolo, aveva riflettuto anche sull’aspetto esteriore. Si era messo le Nike alte, non le solite Adidas basse. I jeans, non i soliti pantaloni di velluto. I jeans strappati davanti, peraltro. Una polo bianca un po’ grande, non la solita camicia a scacchi verdi con le maniche corte. Gli occhiali a specchio e i capelli castani chiari tutti spettinati erano la ciliegina sulla torta. Per far ingelosire l’amico era perfetto. Sentì il fischietto dell’allenatore. Dopo circa mezzo minuto, una massa di ragazzini stava uscendo dalla porta dell’edificio. Il bambino con gli occhiali a specchio, che, bisogna farlo notare, più tanto bambino non era, cercava affannosamente una testa con i capelli neri, la pelle chiarissima tutta chiazzata di rosso per il caldo. Appena la vide si calmò. Ritornò nella posa da spaccone e si disse “Sei pronto. Di lui non ti importa nulla. Leva un auricolare, scusa, che? Non ho sentito. Stai aspettando Tito. E Tito chi è, Tito è il tuo amico. Ci siamo. Morirà di gelosia.” Seguì con lo sguardo la testa bruna. Si avvicinava. Iniziò a vederla meglio. Iniziava a distinguere il ciuffetto di capelli neri. Gli occhi chiari ridevano. La bocca sorrideva, e parlava. L’amico si voltò. L’amico si voltò, ma non verso il bambino con gli occhiali a specchio, si voltò verso un altro ragazzino. E rise. Ormai l’amico lo stava sorpassando. Ormai l’amico l’aveva sorpassato. L’aveva sorpassato e non l’aveva visto. 
Con il vuoto nel petto scivolò giù dal ramo. Iniziò a camminare. Non sapeva per dove. Aveva detto a sua madre che sarebbe stato fuori fino alle sette di sera, se fosse tornato a casa lei avrebbe fatto domande, lui non avrebbe saputo cosa rispondere, sarebbe stato imbarazzante. No, non gli andava. Non sapendolo i suoi piedi lo stavano portando a casa del suo amico. Quando iniziò a realizzarlo neanche si oppose. L’unica cosa che pensava era che si voleva levare quei vestiti di dosso. La polo era troppo grossa, gli pendeva senza ragione, i jeans erano spaccati e questo non gli piaceva, perché la gente doveva vedere le sue ginocchia? Le scarpe erano scomode. Gli occhiali a specchio erano osceni. Chiunque l’avesse visto vestito in quel modo lo avrebbe scambiato per chissà chi. Lui non voleva. Si fermò al semaforo. Sentì qualcuno ridere dietro di lui. Sapeva chi era. Non si girò. Tanto non l’avrebbe riconosciuto da dietro conciato in quel modo. – Amerigo? – L’aveva riconosciuto. – No. – Scattò il verde. Attraversò correndo. Adesso sapeva dove andare. Lontano da lì. In una gelateria, il suo amico era l’unica persona al mondo ad odiare il gelato. Corse fino alla seconda gelateria più vicina, la prima era troppo vicina a casa dell’amico. In due minuti riuscì a ordinare un gelato a due gusti con panna, fare cadere le monete con le quali doveva pagarlo, nel tentativo di riprenderle far cadere anche il gelato, pagare per due gelati, perché il gelataio gli fece pagare anche il gelato caduto, prendere un secondo gelato a due gusti con panna e correre via. Non ne poteva più. Non riusciva a credere di stare facendo tutte quelle cose. Non poteva essere lui. Nessuno doveva capire che era lui. Mentre leccava il suo gelato, andò ad una bancarella e comprò un cappellino con la visiera. Il commerciante gli fece anche uno sconto dato che aveva speso la maggior parte dei soldi nel gelato e nel gelato caduto. Se lo infilò in testa. Più che nascondersi dagli altri si nascondeva dall’idea di se stesso seduto su una panchina a mangiare il gelato vestito con vestiti che non gli piacevano sentendosi un cretino. Non sapeva più che fare. Voleva solo tornare a casa. Ma le domande della madre… Poteva chiamare qualche amico, ma l’unico amico che voleva chiamare era lo stesso che gli aveva chiesto se lui era Amerigo e si era sentito rispondere un fermo “No”. Se l’avesse incontrato gli avrebbe, detto in faccia, all’amico “Continua ad uscire con altre persone! A me non interessa più proprio per niente. Anzi sai cosa, guarda qua! Ora chiamo un mio VERO amico e gli dico di venire qua così almeno ci divertiamo un po’!” Gliel’avrebbe detto. E se… No. Poteva farlo… No. Ci avrebbe messo un secondo…Ma no! No! E invece sì. Finì il suo gelato, prese il cellulare, chiamò un suo compagno di classe, scegliendo abbastanza a caso. – Tommasi’, che fai? – Silenzio – E se non c’hai nulla da fare, che dici ti va di uscire? Io non ho nulla da fare e sono fuori. – Silenzio – Va bene, sono a Piazza Garibaldi. – Silenzio – Ok, a tra poco. – Il bambino con gli occhiali a specchio, che, mi sento di dire, più tanto bambino non era, si alzò dalla panchina. Avrebbe chiesto a Tommasi’ che voleva fare, lui avrebbe detto che non lo sapeva, lui avrebbe risposto “Possiamo andare alla videoteca”, il suo amico praticamente viveva alla videoteca, Tommasi’ avrebbe detto che perché no, e loro due sarebbero andati alla videoteca. Alla videoteca avrebbero incontrato il suo amico che gli avrebbe detto “Ciao Ameri’, che fai qua?” e lui avrebbe risposto, lo sapeva, “Nulla, cerchiamo un film da vedere stasera” ovviamente Tommasi’ avrebbe capito all’istante e quindi non avrebbe detto nulla. Il suo amico imbarazzato avrebbe detto “Ah, ehm… Ciao.” avrebbe abbassato la testa e se ne sarebbe andato.
Arrivò Tommasi’. – Ciao! –
– Ciao! Che vuoi fare? –
Ehm… Non lo so. – –
Se ti va possiamo andare alla videoteca. –                           
– Oh, sì, ok! – “Sono pazzo” pensò Amerigo, il bambino con gli occhiali a specchio, che, diciamolo, più tanto bambino non era, e forse aveva ragione, era pazzo, ma chi a quell’età non lo è?  
Alla videoteca non c’era nessuno. Evidentemente il suo amico non passava più tutte le sue giornate alla videoteca. Aveva cambiato abitudini, e lui non lo sapeva. Lo voleva indietro. Gli mancava. Voleva andarlo a trovare e dirgli che gli mancava tanto. Non ce la faceva più. Sarebbe uscito dalla videoteca e sarebbe andato a casa sua, avrebbero visto un film insieme. Avrebbero parlato un po’, avrebbero parlato fino a tardi e poi sarebbero crollati a dormire. La mattina dopo si sarebbero svegliati come se gli ultimi mesi non ci fossero mai stati, di nuovo amici.                Allora che film prendiamo? – chiese Tommasi’. Il, meglio cambiare, ragazzo con gli occhiali a specchio era nella videoteca con Tommasi’, se lo era scordato. – Che ne dici del Signore degli Anelli? Possiamo prendere quello. Pago io se vuoi. – Tommasi’ fece una faccia strana – Il Signore degli Anelli? Vabbo’. – Disse non molto convinto. Pagarono il dvd e uscirono.
Il ragazzo con gli occhiali a specchio non sperava più. Non voleva immaginare nulla. Si stava dirigendo a casa con Tommasi’, il primo compagno di classe che gli era apparso sulla rubrica del cellulare. Avrebbero visto il Signore degli Anelli insieme. E Tommasi’ si sarebbe addormentato. Sicuro. – Ehi Ameri’, ciao! Ciao Tommasi’. – Stavano passando davanti alla casa del suo amico, e il ragazzo con gli occhiali a specchio neanche se ne era accorto. – Ciao Sergio. Come va’? – L’amico, Sergio, era contento di rivedere il ragazzo con gli occhiali a specchio. – Nulla, stavamo andando a vedere Il Signore degli Anelli. Vuoi venire? – disse il ragazzo con gli occhiali a specchio. – Ok.
 
 


 

Di Isuf Berisha
Scuola Secondaria di Primo Grado – I.O. Carsoli
 

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte dopo averla seppellita, non ci pensò più e decise che non avrebbe mai più lavorato in una pasticceria, o addirittura come pasticciere. Ma… la sua vita era tra i panettoni! Il pasticciere, quindi, enormemente dispiaciuto, decise di ripassare in pasticcieria, perché gli mancava così tanto quell’ambiente.

Arrivato alla pasticcieria, vide un foglio penzolante appeso alla porta. C’era scritto: DISTRUZIONE DELL’EDIFICIO PROGRAMMATA TRA 30 GIORNI. Il pasticciere impazzì e cominciò a correre a gambe levate dal padrone per annunciargli la brutta notizia. Arrivato alla casa del padrone cominciò a bussare alla sua porta; sentì due clic della serratura alla porta e davanti a lui si presentò la moglie del capo. Il pasticciere le chiese se il padrone fosse in casa; la moglie gli rispose semplicemente che il marito non c’era più. Il pasticciere per la disperazione si mise a piangere anche perché non aveva mai avuto l’onore di conoscerlo approfonditamente.

Il pasticciere in qualche modo si era dimenticato che la fabbrica era in crisi, quindi decise di riandarci. Andò lì dove aveva seppellita la pasta madre, aprì la buca e la riprese. La portò a casa per analizzarla e per studiarne gli ingredienti. Il pasticciere decise di aggiungerne un altro. Ma quale? Provò ad aggiungere un qualsiasi altro ingrediente, ma l’impasto non risultava mai tanto gustoso come voleva, finché non ci mise del cacao e il prodotto fu buonissimo!

Il pasticciere decise di far ripartire la fabbrica da solo, però non ci riuscì da subito perché mancava tutto l’occorrente. Quindi la conseguenza era che non poteva cuocere il panettone. Decise allora di portare tutto il materiale che gli era utile a casa e cominciò a cuocere i panettoni. Il giorno dopo cominciò a venderli e si accorse che, aggiungendo quell’ingrediente all’impasto, la vendita dei panettoni stava progressivamente migliorando.

Passò del tempo da quando il pasticciere aveva fatto ripartire la fabbrica. Ormai il guadagno era salito di tanto e tutti quei soldi potevano essere investiti per salvare la fabbrica. Alla distruzione mancavano dieci giorni.

Il pasticciere decise di riunire nuovamente tutti i dipendenti come era prima. Tutti insieme decisero di rinnovare la fabbrica e di ricomprare gli ingredienti per fare i panettoni. Il giorno dopo decisero di rimboccarsi le maniche e di mettersi a lavoro. Arrivò il giorno in cui avrebbero distrutto la fabbrica.

Arrivò il sindaco insieme alle ruspe e alle gru; il primo cittadino voleva la distruzione perché era sempre stato un avversario del padrone della fabbrica. Intanto davanti all’edificio si era creata una fila infinita di clienti che aspettavano solamente il proprio panettone. I clienti mentre aspettavano decisero di intervenire per evitare la distruzione della fabbrica, così formarono una catena umana. Mentre avanzavano, gru e ruspe videro questa catena umana e si fermarono. Al pasticciere venne in mente un’idea; uscì dalla fabbrica e offrì un pezzo di panettone al sindaco. Quando quest’ultimo diede un morso, gli si stampò un sorriso in volto e abbracciò il pasticciere. Al sindaco era venuto in mente un ricordo di quando era piccolo che gli aveva addirittura fatto scendere una lacrima di ricordi e di gioia! La fabbrica fu salva e il Natale fece la sua magia.


 


 
Gianluca, 10 anni
 
LA PICCOLA FUO'

In una caverna senza fondo, una cucciola di drago di nome Fuò, riposava beatamente, quando nella terra dei draghi c'era un combattimento, ma lei ancora non lo sapeva. La piccola fece per uscire, vide tutto incendiato e il suo popolo non c'era più. Così fuò ripensò a una vecchia storia in cui il figlio del re e della regina fuggì annunciando vendetta perchè i suoi genitori videro un anima cattiva in lui e non gli permisero di regnare. Per questo Fuò decise di scappare lontano, ma i nemici vedendola la inseguirono. Improvvisamente la piccola si dovette fermare perchè davanti a se vide una profonda voragine, sentendo l'avvicinarsi degli inseguitori, per la prima volta Fuò presa dalla paura spiccò il volo. Quando riuscì ad atterrare, pensava di essere  in salvo, invece i nemici eranoancora più vicini. Mentre Fuò pensava come potersi salvarevide davanti a se un branco di leoni feroci, quindi dovettetrovare un' altra via di fuga. Fuò tentò di sputare fuoco perspaventare i leoni, dopo un po' di tentativi dalla sua bocca uscìuna scia lunghissima di fuoco che le permise di continuare il suopercorso. Però dopo trecento metri si trovò di fronte una

parete alta e pendente, impossibile da oltrepassare. Pensava ormai di essere spacciata quando all'improvviso le venne in mente un idea: aspettare l'arrivo dei nemici e far emergere l'anima buona del figlio del re e della regina.        

Arrivati i nemici Fuò provò a mettere in atto il suo piano e ciriuscì con successo.

Un po' di anni dopo, la bellissima Fuò ed il figlio del re e della regina, sposati, governano il loro popolo in pace.
 
 


Scritto e pensato da Gemma Zanini
classe IV C della scuola Sacra Famiglia di Martinengo 
 

IL RISTORANTE DI DRAGHETTA

Su di un’isola circondata da un mare tempestoso, c’era uno strano ristorante.

Quel ristorante era gestito da una cucciola di drago. Da lei venivano sempre moltissimi clienti, in quanto cucinava le sue prelibatezze usando uno strano ingrediente segreto. Purtroppo però a causa del mare tempestoso, erano due giorni che di clienti non c’era alcuna traccia.

I giorni passavano e gli ingredienti si ammuffivano sempre più. 

Un giorno però da sotto il mare emerse un maestoso pescecane, il pesce più famoso dell’oceano.

Il pesce le ordinò un panino ripieno di: alloro, peperoni, sale e bava di orso.

Quando la cucciola entrò in cucina vide che gli ingredienti erano ormai scaduti, così decise di andare in missione; prese la mappa e si avviò per un lungo viaggio. Prima di partire però decise di fare una lista dettagliata di ciò che doveva prendere: alloro di neve, sale di luna, peperone alla piantina e bava di orso in caverna.

La sua prima tappa fu il bosco. Appena arrivata, la draghetta vide tantissime piantine, ma nessuna aveva dei peperoni. Ad un certo punto però sentì uno scricchiolio provenire da una piantina, così corse subito a vedere cos’era successo. Osservò con attenzione e capì che lo scricchiolino altro non era che un peperone caduto dalla pianta.

La draghetta aveva così trovato il primo ingrediente per il panino del pescecane. Decise così di avviarsi verso l’isola glaciale per incontrare il suo amico con gli occhiali a specchio, che era un astronauta. La cucciola gli chiese se poteva prestarle la sua astronave, per poter prendere l’ingrediente segreto da aggiungere al panino.  L’amico dagli occhiali a specchio acconsentì, così la cucciola salì sull’astronave e impostò la sua destinazione per la Luna.

Appena arrivò sulla Luna, non vide alieni ma un enorme cratere con all’interno del sale lunare. La draghetta era davvero felice, perché sapeva che i suoi piatti erano molto richiesti grazie a questo ingrediente segreto, così riempì una borsa intera di sale lunare. Dopo aver riempito la sacca, tornò sulla Terra e ringraziò il suo amico dagli occhiali a specchio e si diresse verso la foresta incantata. Lì vide tantissimi animali, ma della caverna non v’era ombra.

Così continuò a camminare fino a quando sentì uno strano verso provenire da lontano. Sì arrampicò fino alla cima della montagna e vide un possente orso bruno e decise così di raggiungerlo. La draghetta non capiva come mai l’orso continuasse a fare quegli strani versi, finché non si accorse che aveva una spina nella zampa, così gliela tirò fuori e in cambio l’orso le diede un po’ della sua bava.

La draghetta felice ripartì subito, ma non ce la faceva più, era davvero sfinita, ma allo stesso tempo sapeva che non poteva arrendersi perché le mancava un solo un ingrediente; così continuò a camminare con le ultime forze che le erano rimaste, finché non si addormentò del tutto. Ad un certo punto un soffio di vento fece cadere un blocco di neve, che iniziò  a rotolare puntando proprio la piccola draghetta ormai esausta e addormentata. Fortunatamente l’orso, che era rimasto nei paraggi, sentì il rumore della neve staccarsi e pensò subito alla sua amica che era in viaggio. L’orso arrivò appena in tempo per spostare la draghetta da quella valanga di neve imbizzarrita. 

Quando la piccola draghetta si svegliò, si accorse che quella valanga aveva scoperto l’albero di alloro che stava cercando, così prese alcune foglie e ringraziò di cuore l’orso per averla salvata. I due si salutarono con la promessa di rivedersi molto presto al ristorante di draghetta. Una volta salutato il suo nuovo amico, la cucciola si rimise in cammino verso il suo ristorante dove la stava aspettando il pescecane.  Arrivata di nuovo sulla sua isola, la draghetta andò in cucina e iniziò a preparare il panino con le ultime forze che le erano rimaste. Una volta pronto, diede il panino al pescecane il quale disse che era da tanto tempo che non faceva un pasto così completo e gustoso. La draghetta a quelle parole sorrise di gioia e si addormentò profondamente, stanca ma felice per essere riuscita a preparare di nuovo le sue prelibatezze da tutti ricercate.

 


 

Giada Biondi – Gaia Camilletti – Matteo Dalla Ragione
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR) 
 

INVENTA UNA STORIA Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda.

Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre…

Ad un certo punto la tigre saltò nel balcone della vicina, perché vide della carne che la attirava molto.

Lo stesso giorno il figlio della vicina doveva festeggiare il suo compleanno.

Poco dopo la tigre si nascose dentro un pacco regalo, il bambino lo aprì , vide la tigre e si spaventò. Sua madre sentì l’urlo del figlio e andò a controllare cosa era successo.

Chiamò quindi il proprietario dello zoo di Zootropolis, ma la tigre scappò, perché preferiva stare con loro.

La madre non voleva, ma il bambino andò a cercare la tigre e la trovò, la portò in soffitta e gli fece un piccolo rifugio, dove mise anche ciotole di cibo, acqua e coperte per dormire.

Il bambino portò il felino a passeggio e la gente rimase stupita, nella strada c’era anche il furgone dello zoo. Molte persone dissero di prendere la tigre e di portarla al sicuro, ma il bambino non ascoltò e decise di tenerla con sé.

Col tempo il bambino addomesticò l’animale fino a farlo diventare fedele e parte della famiglia, dopo di che divennero grandi amici.

Le persone smisero di averne paura e diventò la mascotte di tutto il paese.

Tutti si fermavano persino ad accarezzarla come se fosse  un animale domestico e, in effetti, lo era diventato.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 
Francesco, 12 anni
 

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre . Giulia si impegnò a scrivere quel tema non perché gli importasse solo del voto ma perché, grazie ai consigli del suo amico immaginario, si ritrovò in un nuovo mondo, scoprì che lei riusciva a creare con la sua mente una realtà diversa piena di elementi fantastici. Il suo testo raccontava di una ragazza ansiosa che non era per niente brava a scrivere ma che da un momento all’altro e nel guardar fuori dalla finestra ebbe una nuova visione e  da lì inizio a scrivere quello che vedeva realmente, ma romanzandolo. Lei scriveva quello che vedeva e ci aggiungeva un po’ della sua fantasia . Scrivere il testo era come raccontare ciò che guarda fuori dalla finestra ma, oltre a vedere le macchine e altre cose Giulia vedeva anche dei leoni e delle tigri. Con la sua immaginazione riusciva a portare avanti il racconto. Lei nella sua narrazione ogni tanto raccontava anche del suo amico Treb  e delle sue avventure. La storia fu un successo. Prese dieci e  divise il voto a metà con Treb. Giulia da quel momento iniziò a scrivere testi anche fuori dal contesto scolastico e divenne una scrittrice professionale e inventò un nuovo tipo di racconto “ il realfantasia”. Giulia si fece  riconoscere dal mondo intero per i suoi testi e se è diventata una scrittrice famosa deve ringraziare anche Treb perché da un suo consiglio è riuscita a tirare fuori di se la creatività che prima non sapeva neanche di avere. Giulia da bambina non pensava di avere fantasia ma proprio grazie al suo amico immaginario si rende conto che anche lei possedeva questa dote solo che non era mai riuscita a trovarla, infondo la risposta alla sua difficoltà era già dentro la sua mente, se ne rese conto solo da grande.


 


 

Francesco P., 12 anni

Inventa una storia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: inventa una storia. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardo` fuori dalla finestra sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlo`. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’ erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svolto` l’angolo correndo all’impazzata inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… 

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurro`: Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo e` pieno di storie, in ogni singolo istante.

Giulia guardo` di nuovo fuori dalla finestra. E comincio` a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre… La tigre aveva intenzioni crudeli e si capiva dal fatto che guardava attentamente un’altra tigre che giaceva sdraiata al sole leccandosi il muso sul terrazzo del piano di sotto. Con un balzo molto rapido la assalì e iniziò una lotta tra i due feroci felini per la conquista della ciotola di croccantini che la padrona della vittima assalita stava posando sul pavimento; per la paura la ciotola venne scagliata in aria causando uno spavento tale tra gli uccelli appollaiati sul palazzo che questi si levarono in cielo defecando a più non posso… Purtroppo ciò avvenne a spese di una anziana signora che pranzava beatamente sul balcone del primo piano. Si arrabbiò talmente che iniziò a scuotere la tovaglia “bombardata” dagli uccelli impauriti senza neppure levare le stoviglie e imprecando fece cadere tra l’altro una forchetta nel giardino sottostante. Furiosa, pensava a come poteva recuperare la posata, ma ignorava che i guai erano appena cominciati … 

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a meta` con Treb. 

Un intrepido giovane cacciatore che abitava al piano stradale stava entrando velocemente nel giardino con la sua potente moto inseguito da un colossale coccodrillo terrestre che se lo voleva ingurgitare vivo.

Che sfortuna per il cacciatore quando la forchetta gli bucò la gomma della ruota! Il coccodrillo non perse un attimo e addentò il braccio del giovane che, pur provando un dolore lancinante, non poteva fare a meno di bestemmiare contro la signora che, affacciata al balcone, assisteva a tutta la scena. 

La donna, sentendosi offesa, gli lanciò pure una padella che colpì precisamente in testa il cacciatore che si diede per vinto e dignitosamente aspettò la morte ormai prossima.


 


 

La misteriosa scomparsa di Alice Johnson

Racconto giallo di Francesca Italiano e Claire Fapom, 12 anni, classe II media
Lycée International di Saint Germain en Laye

Personaggi:
Sofy Donovan: la protagonista, investigatrice in erba
Katty Donovan: la mamma di Sofy
Michael Pearson: il capo della Polizia di Brodway
Nicolas Johnson: il sindaco di Brodway
Alice Johnson: la figlia del sindaco
Mary Stuart: la vittima, sorella del sindaco, zia di Alice
Jason: il fidanzato di Alice
Karl: il tecnico della scientifica
Luca: il fratello minore di Karl

 

In uno spazio angusto tra due case molto alte, c'era un negozio di dolciumi diretto da Katty, una giovane donna, mamma di Sofy che aveva adottato all’età di dieci anni e che aveva visto crescere fino ai suoi venti. Sofy Donovan, capelli neri, occhi verde scuro e un fisico alto e slanciato, era molto riservata e poco socievole, la qual cosa aveva sempre fatto preoccupare Katty. Tutti però minimizzavano dicendo che il carattere di sua figlia sarebbe cambiato una volta cresciuta, ma in realtà non cambiò mai. In ogni caso Sofy era una ragazza intelligente che studiava per entrare a fare parte della Polizia della cittadina di Brodway senza tuttavia mai riuscire a superare il concorso. Nel frattempo Sofy aveva deciso di prendere le redini del negozio di sua madre mentre continuava a fare piccole indagini collaborando saltuariamente con la centrale di Polizia. Dava il suo contributo e qualche volta risolveva i casi più misteriosi senza però mai ricevere un riconoscimento o un elogio. Secondo il capo della Polizia, Michael Pearson, la ragazza non era adatta per un lavoro del genere perché troppo riservata e impressionabile.

Un giovedì mattina, Sofy si alzò presto ma non per allestire la vetrina del negozio come sua mamma avrebbe voluto. L’unica spiegazione che le diede mentre stava per chiudere la porta del negozio era che stava andando a incontrare il sindaco della città, Nicolas Johnson, e uscì in tutta fretta. Katy pensò che Sofy dovesse prendere l'ordinazione dei dolci per il matrimonio della figlia Alice. La ragazza si sarebbe sposata di lì a pochi giorni con un giovanotto di cui in realtà nessuno in città conosceva il nome, ma i preparativi fervevano già da tempo. Così, quando Katy la vide tornare appena cinque minuti dopo, si meravigliò e  chiese se avesse già parlato con il sindaco. Sofy rispose seccamente: “No, non c'era”. Subito dopo nel negozio entrò una signora tanto bassa quanto grossa, e se la porta fosse stata di qualche centimetro più piccola la signora si sarebbe bloccata nel varcarla. La signora ordinò tanti dolciumi quasi si cibasse solo di quelli, infatti era chiaro che l'eccessivo consumo di zuccheri le aveva ormai danneggiato i denti dal momento che era costretta a portare una dentiera. Sofy, che era un'abile osservatrice, se n'era accorta subito perché la signora aprendo la bocca per parlare lascò intravedere la dentiera che si muoveva su e giù: "Non penserete che tutti questi dolci siano per me, vero? In realtà sono per mia nipote che andrò a trovare oggi per parlare di una telefonata che ha ricevuto da uno sconosciuto". "E cosa le diceva questo sconosciuto, signora?" chiese Sofy curiosa. "Beh, sembra che lo sconosciuto le abbia detto che l'amava e che prima o poi si sarebbe sposato con lei". E fece intendere che non voleva raccontare di più, ma prima di uscire mostrò con orgoglio la foto della nipote che - disse - era solita portare sempre con sé: era alta, magra, capelli tirati indietro da una bandana. Una volta che la donna fu uscita, Sofy pensò: “Che signora buffa” e poi scoppiò a ridere. 

Due ore dopo, lo squillo del telefono rimbombò nel negozio. Sofy osservò sorridente l'apparecchio telefonico, quasi sapesse già chi la stava cercando, e rispose immediatamente: “Pronto!”. Dall'altro capo si sentì una voce: “Ciao Sofy, vieni subito alla centrale: c'è un lavoro per te”. A queste parole seguì uno sbuffo. Era Michael Pearson, il capo della Polizia, che detestava chiamarla, ma lo faceva quando aveva urgente bisogno di un aiutante. 

Sofy non se lo fece ripetere due volte e corse subito in centrale dove le dissero che in una casa del centro città avevano trovato una donna morta. Si trattava di Mary Stuart, una signora di 64 anni. Dall’autopsia si poteva ipotizzare che fosse rimasta uccisa per soffocamento ma non si riusciva a capire come si fossero svolti i fatti e se ci fosse un colpevole. Michael chiese: ”Credi che possa andarti bene? Non sarai troppo impressionabile per questo caso?

“No signore, sono pronta a collaborare” rispose Sofy prontamente.

"Bene, da questo momento il caso è tuo, non ti aiuterò nelle indagini, non ho tempo da perdere con un caso così semplice da risolvere, e poi ho prenotato una settimana bianca sulle Alpi, quindi non disturbarmi".

"Ma come? Non parteciperà al matrimonio della figlia del sindaco?" domandò Sofy meravigliata. "Proprio no, non mi piace questo Jason! Alice merita di meglio". Sofy rimase colpita da queste parole, anche se lì per lì fece finta di non aver sentito.

Subito dopo la ragazza andò sulla scena del crimine. Era un piccolo appartamento arredato con mobili moderni e giovanili. Quando entrò, tutta la squadra scientifica era già sul posto. Sofy esaminò la casa: il corpo della vittima era disteso a terra, sul tavolo c’era del pesce. Sofy pensò che la donna si fosse soffocata con quello, poi nell’angolo vicino a una lampada trovò una videocamera ancora accesa. "La fortuna del principiante!" pensò, e infatti poté recuperare la registrazione in cui si intravedeva una tavola apparecchiata per due e un’istante prima che due donne - una giovane, l'altra più anziana che doveva essere Mary Stuart - entrassero in sala si sentì un gran rumore, quasi un tonfo, poi si videro le due signore mangiare del pesce e una di esse soffocare, mentre l'altra tentava di aiutarla senza poter fare niente. All’improvviso la videocamera cadde. Si udì il grido della ragazza seguito da un grande tonfo, e poi la videocamera si raddrizzò. Sofy pensò che il filmato era già un buon inizio, e inoltre le sembrava di aver già visto quella signora. Sì, ma dove?

Andò con la mente ai giorni e alle ore precedenti, cercò di ricordare dove era stata, chi aveva incontrato o visto... ma sì! Ora tutto era chiaro, o quasi! Si trattava della donna che era entrata nel negozio di sua madre e aveva comprato una gran quantità di dolci per la nipote... aveva fatto un discorso strano... aveva parlato di una telefonata ricevuta dalla nipote, ma Sofy non riusciva a mettere bene a fuoco i fatti.

Inoltre restavano da scoprire ancora parecchie cose: se effettivamente Mary Stuart si fosse soffocata con il pesce, dove si trovava ora la donna più giovane e che cos’era il rumore. Sembrava provenire da lontano. Sullo sportello di un armadio Sofy intravide un pezzetto di tessuto blu scuro che consegnò subito a Karl, il tecnico della scientifica, affinché lo analizzasse. 

Il giorno dopo si scoprì che era un tessuto simile a quello delle tute degli idraulici. Sofy ritornò con tutta la squadra nella casa del crimine, ma non sembrava ci fosse un seminterrato o un nascondiglio e comunque era impossibile lavorare con Luca, il fratello minore di Karl che correva dappertutto. A un certo punto il piccolo fece un lungo salto e Karl perse la pazienza. Era pronto ad acciuffarlo quando all’improviso sprofondò nel pavimento: sotto il tappeto c’era una botola. Nello stesso tempo quella piccola peste di Luca spuntò fuori dall’armadio dove il giorno prima Sofy aveva trovato il pezzo di stoffa. Mentre Sofy osservava la scena la sua mente cominciava a elaborare congetture finché realizzò che grazie a Luca aveva fatto un'importante scoperta: dalla botola all'armadio c'era un passaggio segreto. 

Nel frattempo delle sirene risuonarono in cortile, era il sindaco in lacrime: "Mia figlia è scomparsa da due giorni!" Urlò disperato. Un ragazzo alto, di nome Jason, arrivato sul posto nello stesso momento, era altrettanto sconvolto. Il sindaco spiegò che Jason era colui che avrebbe dovuto convolare a nozze con sua figlia. Sofy gli domandò:

“Come si chiama sua figlia, signor Johnson?”

“Si chiama Alice” rispose il sindaco Johnson in lacrime.

"Ha una sua foto da mostrarmi?" - chiese Sofy. Il sindaco estrasse una fotografia dal portafogli e in quel momento Sofy sgranò gli occhi: si trattava della ragazza di cuile aveva parlato Mary Stuart quando era andata nel suo negozio. Sofy aveva capito come si erano svolti i fatti e che il movente era passionale dato che Alice aveva ricevuto quella strana telefonata, ma le sfuggivano ancora dei particolari. Quindi corse in caserma e domandò a un poliziotto dell'ufficio se Michael Pearson si trovasse là il giorno del crimine. Lui rispose che non c’era. 

Allora Sofy si immaginò la scena: un uomo entra in casa fingendosi un idraulico e si infila nella botola; quando le due donne, Alice Johnson e la zia Mary Stuart, si siedono a tavola, lui esce dall'armadio e si strappa un pezzetto della tuta che indossa. Si guarda intorno e invece di vedere solo Alice a cui avrebbe voluto fare la dichiarazione d'amore, vede anche Mary Stuart che, accorgendosi della presenza dello sconosciuto in casa, afferra il cavalletto della videocamera - la qual cosa spiegherebbe l'inclinazione dell'immagine - e cerca di colpirlo, ma nella colluttazione è lei che rimane uccisa. 

Sofy aveva ricostruito tutto ma aspettò che Michael terminasse la sua vacanza, che Karl trovasse una baby sitter a suo fratello e anche che il sindaco si rimettesse un po’ dallo shock. 

Quando arrivò il gran giorno, manette in tasca, Sofy chiamò Michael per ringraziarlo del caso che le aveva ceduto ma anche per mettergli le manette perché il colpevole era proprio lui. Lui era l'uomo che aveva fatto la telefonata ad Alice e che era segretamente innamorato di lei. Il giorno dell'omicidio di Mary avrebbe voluto farle la dichiarazione e convincerla a non sposarsi e ad andare a vivere con lui, ma si era trovato davanti l'ospite di Alice: la zia Mary Stuart a cui la ragazza era solita confidare tutti i suoi segreti. 

"Adesso, signor Pearson, ci dica che fine ha fatto Alice!"

Michael Pearson si sentì braccato, quella piccola aspirante investigatrice era proprio in gamba, doveva ammetterlo. Scosse la testa ed ebbe appena la forza di rispondere:

"Non lo so, credo che Alice vedendo che avevo colpito mortalmente la zia sia scappata in stato confusionale e di lei si siano perse le tracce".

Nel frattempo ecco arrivare l'auto del sindaco Johnson: non era da solo, con lui c'era anche Jason e Alice, che non poté fare altro che confermare quello che Sofy aveva scoperto.

"Ho avuto una grande paura - confessò - dopo aver visto quell'uomo in tuta da idraulico colpire la zia sono scappata via perché pensavo che avrebbe voluto uccidere anche me. Così sono andata a rifugiarmi a casa della mia amica Laura, dove sono rimasta in tutti questi giorni. Solo dopo aver visto alla TV le immagini di papà preoccupato della mia scomparsa ho avuto il coraggio di tornare a casa.

Il capo della Polizia Michael Pearson fu quindi rinchiuso in prigione e Sofy non solo ebbe le congratulazioni di tutti ma anche il posto di lavoro fisso tanto desiderato. 

Visse una vita felice al fianco del marito Jason.

 
 


 
Flavia 12 anni
 

Inventa una storia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardó fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urló. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltó l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb sorrise e sussurró: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. e cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto d'una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. La tigre inizió a muovere la bocca, ma ero troppo lontana per sentire cosa aveva detto. Una signora al secondo piano doveva aver sentito cosa aveva detto la tigre, e inizió a urlare. Il suono dell’urlo venne messo a tacere dallo starnazzare di uccelli, mai visti prima. Da dove venivano, non si sapeva. Al primo piano invece la gente sembrava non prestare attenzione alla tigre e agli uccelli. Questo cambió quando una signora scosse la tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere sull’erba del giardino un pezzo di pane. Esso venne mangiato da un alligatore. Alla vista di quest’ultimo, tutto il palazzo si mise ad urlare. All’angolo della strada un ragazzo in bici inizió a correre,  era inseguito da un leone, che sembrava essere comparso dal nulla. Nel frattempo iniziarono a raggrupparsi gruppi di animali di tutti i tipi; passando dalle zebre alle giraffe, dai leoni agli elefanti, dai pettirosso ai falchi. Solo ora iniziai a capire cosa aveva detto la tigre. Era arrivata la fine della razza umana; ed era iniziata l’era degli animali. Giulia continuó il racconto per un altro pó, cercando di mantenere il tema del suo racconto concentrato sugli animali. Finito il racconto, apparve Treb. Sorrideva. Cercando di non piangere

Treb disse: “ Giulia puoi farcela, puoi continuare a vivere senza il mio spirito. Questo racconto é spettacolare, l’hai scritto da sola, su un tema che sappiamo entrambi é molto delicato.” Giulia inizió a piangere. Treb infatti non era solamente un suo amico immaginario. Era il suo migliore amico. Era morto in un incidente stradale, e da allora Giulia piangeva ogni sera. Treb era solito dirle: “Rimarremo amici per sempre!”, ma poi era morto, lasciando Giulia da sola. Proprio per questo lei non credeva molto nella parola: PER SEMPRE.

Guardando Treb per l’ultima volta, Giulia gli disse: “ Ricordi come parlavamo insieme sulla patente? Ricordi di come eri felice che io potessi finalmente guidare fino a casa tua? Ieri l’ho presa. Stavo guidando nel tuo quartiere, ma non mi sono fermata davanti casa tua, non ho avuto il coraggio di guardarla. Stavo piangendo perché tu non c’eri. Tu hai detto per sempre, ma ora guardami! Tutti i miei amici si sono stancati di sentirmi parlare di te, e di quanto mi manchi.” Detto questo Giulia e Treb scoppiarono a piangere. Ma proprio quando Giulia non guardava, Treb scomparve. Quella fu l’ultima volta che Giulia vide Treb. Il giorno dopo a scuola Giulia lesse la sua storia. Fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metá con Treb.


 


 

NOME: ETTORE
COGNOME: RENZI
ETÀ: 8 ANNI
SCUOLA: I.C. ELISA SCALA-ROMA
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte, Giuseppe il pasticcere non si era accorto di aver messo la pasta madre nel tunnel che conduceva nella caverna degli “Elfi Pasticcioni”, che si chiamavano Candito, Uvetta, Pasticcino e nocciolina e producevano buonissimi biscotti all’uvetta. Ma loro non sapevano cosa sarebbe successo: quando la pasta madre si unì al loro impasto, il lievito fece crescere i biscotti che divennero grandi e soffici. In una sola notte gli Elfi trasformarono quel nuovo impasto in milioni di piccoli panettoni che donarono al padrone della fabbrica Luigi, poiché conoscevano bene la sua triste storia.

Gli Elfi e Luigi chiamarono quel dolce “Pan degli Elfi” e lo fecero assaggiare a tutta la popolazione. 

Da quel giorno il “Pan degli Elfi” divenne il dolce di Natale della nazione e la fabbrica di Luigi e il Mastro Pasticcere Giuseppe divennero famosi in tutto il mondo.

 
 


 

Emma Giannini

Scuola Primaria “ C. Salvetti” Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR)
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvcinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte …

Il giovane pasticcere tirò fuori la pasta madre, perché non voleva che il giorno di Natale le famiglie, dopo aver mangiato, non potessero gustare il panettone.

Quindi il giovane pasticcere attivò tutte le macchine e intanto lui preparò le buste per confezionare i panettoni.

Ad un certo punto le macchine cessarono di funzionare e il giovane pasticcere andò in crisi, non sapeva cosa fare. Voleva chiamare qualcuno, però non voleva rovinare la sorpresa, quindi decise di rimboccarsi le maniche e fare tutto da solo.

C’era però un problema: lui non conosceva l’esatta ricetta.

Iniziò a cercare nei manuali e finalmente trovò un libro di ricette della nonna del proprietario dell’azienda e poté proseguire il suo lavoro.

Intanto era arrivata l’alba, il giovane pasticcere aveva lavorato tutta la notte e aveva fatto panettoni per tutto il quartiere e lui stesso li consegnò casa per casa.

In mezzo alle luci e all’atmosfera natalizia fu uno spettacolo bellissimo vedere la felicità delle persone che ricevevano questo gradito e inaspettato dono.

Furono così tutti contenti di poter mangiare il panettone.

 
 


 

Emilia Franchi – Firdaws Alloun – Lazzeroni Mattia – Ernes Andrei  Ursache
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR) 
 

INVENTA UNA STORIA
Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda.

Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre…

La proprietaria della casa la vide e cominciò ad urlare: “Aiuto! Aiuto! Chiamate Noemi!

Dal primo piano qualcuno scrollò una pelliccia che usava come tovaglia e lasciò cadere un coltello.

Il postino girò l’angolo inseguito da un leopardo.

Davanti a Noemi apparve un fantasma e le disse: “La sfortuna arriverà da te!!!”.

La città fu infatti invasa da zombie, alieni e millepiedi e Noemi si chiuse a chiave in camera sua e lì rimase per giorni e giorni.

Durante quelle giornate che parevano non finire mai, mise a punto una strategia per liberarsi definitivamente dai nemici venuti da lontano, ma poi pensò che l’unica possibilità di salvezza era quella di non uscire di casa.

Quando l’invasione finì, erano rimasti vivi solo pochi abitanti , tra cui Noemi.

Le persone rimaste uscirono, perché pensavano che l’epidemia fosse finita, ma trovarono gli alieni più grandi di loro, si erano ingranditi mangiando i millepiedi.

 Era impossibile sfuggire agli alieni giganti e solo Noemi sopravvisse, ma la sua casa era crollata e lei andò a vivere in una caverna, con molti insetti.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.

 
 


 

NOME: EMANUELE
COGNOME: OLIVIERI
ETÀ: 8 ANNI
SCUOLA: I.C. ELISA SCALA-ROMA
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.  

Durante la notte la pasta madre subì una trasformazione e diede origine a una pianta altissima con frutti dalle forme inimmaginabili.

Il giorno successivo il giovane pasticcere decise di dare un’occhiata per vedere cosa fosse successo alla pasta madre. 

La sorpresa fu grandissima! Il ragazzo vide che dall’albero di pasta madre penzolavano frutti simili a sfere come le palle dell’albero di Natale, dal colore verde scuro.  

Il pasticcere dall’aria un po’ confusa decise di assaggiarne uno: “Wow”, esclamò, “sanno di mela e banana”! Mentre gustava queste delizie si accorse che tutti i bambini del paese stavano fuori dalle finestre della fabbrica e chiedevano di entrare per mangiare i dolci. 

Fu così che la fabbrica riaprì per raccogliere, confezionare e consegnare i dolci della pianta della pasta madre a tutto il paese. 

Quel Natale fu per tutti molto speciale.


 


 
Elisa Marrocco, 8 anni
 

À la carte

In uno spazio angusto tra due case molto alte viveva un bambino con gli occhiali a specchio che sembrava perfettamente a suo agio, eppure il giorno prima gli era morta Lila la sua gattina.  Lila si era buttata dalla finestra per mangiare dei semplici croccantini che stavano davanti alla porta che a lei neanche piacevano. 

Il bimbo però la notte dopo la morte di Lila si era sentito solo e, ricordandosi tutte le scene più belle che aveva vissuto insieme a lei, non riuscì a dormire. 

Dopo un po’ di giorni il bambino volle prendere un’altra gattina per non sentirsi troppo solo. 

Anche se sentì un pochino di mancanza di Lila si divertì anche con la sua nuova gattina, con la quale vissero tutti felici ma allo stesso tempo anche ancora un po’ giù di morale, pensando e ricordando Lila.


 


 

Edoardo D’Aiello
II A Scuola Secondaria I grado Cesare Frassoni
Finale Emilia (Mo)

 
Durante la notte il pasticciere si introdusse nella fabbrica per prendere il lievito madre e seppellirlo, ma quando era stato sul punto di farlo sentì dentro di sé una specie di rimorso e pensò che anche se i suoi colleghi erano a casa con le loro famiglie, era giunto il momento di dare una svolta alla vicenda e dimostrare al proprietario della fabbrica che non c’era paragone tra i panettoni prodotti da loro e quelli nordici.

Pertanto chiamò un suo collega, che era anche il suo miglior amico, il quale avvisò tutti gli altri lavoratori della fabbrica, nonché un giornalista che riportò la notizia sul quotidiano locale.

Il giorno dopo tutte le famiglie lessero il giornale e ricordandosi della loro infanzia legata al panettone decisero di andare a manifestare davanti alla fabbrica.

Il proprietario, una persona senza affetti, abitava proprio di fianco all’edificio. Si trovava a letto a dormire, quando udì le grida dei manifestanti: “Rivogliamo i panettoni”!!!

Si svegliò di soprassalto, aprì la finestra e vide quello che sognava da un sacco di tempo: la riapertura della sua fabbrica!

Tutto emozionato chiamò i lavoratori per dire loro che voleva salvare il Natale, ma a sorpresa i suoi dipendenti si trovavano già al lavoro.

Così si vestì e scese nel piazzale davanti alla fabbrica per promettere a tutti i presenti che avrebbero avuto i loro panettoni.

Nei giorni seguenti iniziò a ricevere talmente tante ordinazioni che il lievito madre non sarebbe bastato a produrre tutti i tremilacinquecento panettoni richiesti. Gli operai accolsero il loro datore di lavoro dicendo che era tutto merito del pasticciere ed allora lui gli aumentò lo stipendio. Il giovane lo ringraziò ma aggiunse che non c’era tempo da perdere: gli operai lavorarono per 12 ore di fila ma riuscirono a produrre solo tremila panettoni.

La notizia era giunta perfino ai produttori nordici di panettone allo zenzero, i quali generosamente inviarono dieci esperti pasticcieri affinché si producessero gli ultimi cinquecento panettoni.

Questo bellissimo gesto indusse il proprietario della fabbrica a proporre loro una collaborazione e da quel giorno, anziché farsi la concorrenza iniziarono a collaborare proficuamente.

Alla fine i panettoni arrivarono a tutte le famiglie e fu possibile salvare la tradizione del Natale.


 


 

Edoardo Emanuele Cona, 9 anni
Istituto Maestre Pie Venerini “Sacro Cuore” - Roma
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la Vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte, mentre tutti dormivano beatamente, la pasta madre fece qualcosa di strano. La pasta madre, che era una pasta magica, continuò ad espandersi e dopo una settimana si espanse così tanto che fece saltare in aria la fabbrica. Dopo, le cose iniziarono a peggiorare: la pasta madre continuava ad espandersi fino ad occupare l’intera città! Per fortuna un gruppo di scienziati progettò un oggetto che potesse trasformare istantaneamente in panettoni la pasta madre. 

Anche se sembrava una grandissima follia, provarono a costruire questo strano aggeggio ma le difficoltà furono molte e riuscirono a farne solo uno… per gli altri novantanove avrebbero impiegato almeno un mese. Allora, visto che la pasta si stava avvicinando sempre più alla città degli scienziati, dovettero prendere i progetti e costruire un bunker per poter fabbricare al sicuro questi “cuoci-pasta-2.0”. Presi dall’euforia decisero di rimanere altri due mesi nel bunker per costruirne duecento e nel frattempo andare a cercare delle persone che li aiutassero a cuocere. 

Ormai però era troppo tardi e la pasta madre si era sparsa per tutto il continente!!!!! 

Finalmente dopo ben due anni riuscirono a far cuocere tutta la pasta madre in circolazione anche se nel frattempo erano morte soffocate un milione e mezzo di persone. 

Gli scienziati dopo aver fatto scomparire dalla faccia della terra la pasta madre diventarono eroi mondiali ma tutti i sopravvissuti furono costretti a mangiare a colazione, pranzo e cena sempre e solo panettone!!


 


 

DOMINIK FAVALESSA, 10 anni, LEONARDO ORMESI, ISLAM SULKJA
SCUOLA F. CRISPI, VITTORIO VENETO, CLASSE V A

 
IN UNA CAVERNA SENZA FONDO

In una caverna senza fondo, una cucciola di drago, che si chiamava DRAGUNA, da tempo non faceva un pasto completo.

Un giorno era affacciata alla sua caverna, quando tutto ad un tratto notò un paesino dove, nella casa di un contadino, era pronto un falò pieno di cose inutili e vecchie. Il contadino però non riusciva ad accenderlo e allora, DRAGUNA, volle aiutarlo.

Dopo averlo aiutato, il contadino per sdebitarsi, le comprò del salame… tanto salame! e glielo diede. 

Dopo aver mangiato tutto quel salame, non riusciva più a volare e dovette restare in quella caverna per tanto tempo.

Voleva allenarsi per perdere peso ma non aveva voglia. Ad un tratto passò il sindaco del paesino e vide DAGUNA nella caverna senza fondo e decise di salvarla. Quindi chiamò i cittadini per salvarla, perché lui era il contadino che era stato aiutato da lei e che poi era diventato sindaco. 

Dragona fu aiutata da tutti gli abitanti del villaggio, però non riusciva a smettere di sentire quel senso di vuoto nello stomaco, stava ancora morendo di fame!! Per questo era molto nervosa e agitata, ma non le potevano dare ancora cibo perché non avrebbe potuto rialzarsi in volo così facilmente. Così i cittadini andarono in soccorso dallo stregone che abitava in fondo al bosco, che, dopo un lungo e duro lavoro, creò per Dragona una pozione “dimagrante e volante". Questa era estremamente potente: dopo avergliela fatta bere spiccò in volo come non mai, e non poteva essere più felice!


 


 

Alessandro Pari – Michelangelo Ceccherini – Diana Francesca Ursache
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR)

 

STORIA DI NATALE

Natale si avvcinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte … Accadde che la pasta madre si ingrossò e l’azienda si alzò di 10 cm.

Il pasticcere tornò la mattina seguente, si accorse che la fabbrica si era alzata e, preoccupato, chiamò i suoi amici e insieme indagarono sul fatto.

Decisero quindi di demolire l’azienda pericolante, così la pasta madre si alzò ancora, si alzò addirittura di un metro e gli amici organizzarono una festa, invitarono tutto il paese per mangiare un panettone gigante.

La vendita dei panettoni divenne così un grande successo e con i soldi guadagnati costruirono una nuova azienda.

Non tutto il male viene per nuocere infatti da quell’incidente nacque una fabbrica molto più grande e più produttiva di quella precedente, tanto che le vendite di panettoni subirono un grande incremento.

L’azienda assunse tante persone e tutta la popolazione risentì positivamente di questo evento eccezionale.

Da quel momento vissero felici e con tanti panettoni.
 
 


 

NOME: DELIA
COGNOME: TESFA
ETÀ: 8 ANNI
SCUOLA: I.C. ELISA SCALA-ROMA
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.  

Durante la notte la pasta madre si gonfiò così tanto che la fabbrica toccò il cielo. I cittadini si spaventarono e scapparono alla città vicina. Un giorno piovve così tanto che la pasta madre si squagliò e i cittadini vedendo la scena ritornarono e il pasticciere per scusarsi chiese al padrone della fabbrica di riaprire la fabbrica.  Il padrone gli rispose di sì e il pasticcere fece dei buonissimi panettoni che i cittadini mangiarono.


 


 

Cleo Barfucci – Flavio Carta – Marco Pigolotti
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR) 
 

INVENTA UNA STORIA Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda.

Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre… Di nome Carl.

Ines, una bambina che viveva in quella casa, si ritrovò davanti alla tigre, ebbe paura e scappò.

Però Carl la seguì, senza farsi notare; Carl aveva infatti un amico scienziato che gli aveva donato la pozione dell’invisibilità e la tigre la usò per infiltrarsi nella casa di Ines. All’interno della casa Carl vide il suo stesso ritratto disegnato dalla bambina.

Infatti Ines in sogno aveva avuto la visione dell’animale che era venuto a trovarla e l’aveva voluto dipingere.

Ad un tratto l’effetto della pozione svanì e Ines urlò: “Aiutooo!!!” La mamma andò a controllare cosa stava succedendo e vide la tigre.

Subito scappò insieme alla bambina, lasciando la tigre in casa.

Carl uscì dalla casa e si mise in cerca della bambina e della sua mamma, dopo un po’ si arrese.

Ad un certo punto comparve un bellissimo cane che si offrì di aiutarla e fecero amicizia. Il cane, avendo un grande fiuto le trovò e a quel punto la tigre riuscì a convincerle a diventare amici e divertirsi insieme.

Questa la storia di Giulia.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 


 

Alunna: Chiara Caprarotta 
Classe 2^G  I.C.R.Giovagnoli ,Via Ticino 72 Monterotondo (RM)
Prof.ssa Valentini Alessandra 
Prof.ssa La Loggia Luigia
 

Il mare in tempesta

Noah ,un bambino di 11 anni, ogni giorno è costretto a subire le prese in giro da parte dei suoi compagni di scuola. Noah è il classico bambino che preferisce leggere piuttosto che giocare a calcio. Il solito bimbo  mingherlino, con l’apparecchio ai denti e gli occhiali. Lui si sente solo  e con tante difficoltà da affrontare. Si sente un’isola circondata dal mare in tempesta. Un giorno riceverà in regalo un nuovo paio di occhiali un po’ speciali. Questi occhiali permetteranno agli altri di vedere se stessi. Una volta che i suoi compagni si renderanno conto di come sono e di come si comportano nei confronti di Noah cercheranno di cambiare? Ma soprattutto, Noah perdonerà le persone che ogni giorno hanno aumentato le sue insicurezze e le sue paure?

Secondo me le testimonianze sono importanti perché devono aiutare a dare una speranza. Il mare non è sempre in tempesta…
Il suono della sveglia risuona in tutta la mia camera. Mi alzo dal letto e mi infilo le mie ciabattine blu. Scendo le scale e vado in cucina. “Buongiorno tesoro, tieni qui c’è la colazione”. Ringrazio mia madre  con un bacio sulla guancia e vado al tavolo quadrato che si trova al centro della cucina  dove consumo il mio latte e biscotti. Mentre vado a lavarmi i denti, a prendere giacca e zaino, mio padre va in  garage ad aspettarmi per accompagnarmi a scuola con la sua formidabile Audi Q5 nera. Davanti scuola  mi fa uno dei suoi bellissimi  sorrisi, quelli veri che ti rassicurano e ti riscaldano. Scendo e mi addentro pian piano a passo lento in quello che ho soprannominato “mare agitato”. Cammino senza fretta, fino a che intravedo un gruppo di ragazzi più grandi che si  stanno avvicinando , capisco subito che il loro scopo è quello di prendermi in giro così accelero il passo ed entro in classe. Peggio mi sento. Lo sguardo di Tom , Harry e Dylan cade su di me e  mi vengono incontro. Iniziano  a deridermi ,a prendermi in giro  : “Ciao quattro occhi” “hai fatto i compiti quattro ossa?” , mi spingono facendomi cadere gli occhiali. Qualcuno me li pesta, ma a causa della mia miopia non vedo bene chi. Sento le lacrime agli occhi, pronte ad uscire. Ma non posso, non posso mostrarmi più debole di quanto già appaia. Vado  al mio posto e abbasso lo sguardo, vorrei fuggire ma non posso, sono su una piccola isola circondata dal mare in tempesta, vedo onde alte, minacciose che mi travolgono. Quindi rimango seduto immobile al mio posto. Diversamente da gli altri  giorni Allison si  siede di accanto a me. Ha gli occhi di un azzurro cielo e i suoi boccoli biondi le ricadono sulle spalle. Mi guarda con dolcezza, mi sorride e mi fa segno con il pollice in su, mi restituisce gli occhiali che mi erano caduti. Per un attimo mi sembra che il mare si stia calmando. L’insegnante entra poco dopo e richiama l’ordine. Le lezioni proseguono ma non riesco a concentrarmi a causa dei continui bigliettini che mi arrivano sul banco che non leggo perché già conosco il loro contenuto e non voglio che il mare torni ad agitarsi. Ogni tanto mi giro verso Allison e il suo sguardo mi dà serenità. Finalmente suona la campanella e anche oggi è finita. Mi alzo sorrido e ringrazio Allison,  sto per andare via quando lei mi chiama e mi chiede se possiamo fare un pò di strada insieme, io timidamente dico di sì. Durante il tragitto rimaniamo in silenzio, ho paura che qualcuno possa prendermi in giro davanti a lei, mi sento nervoso. E ad un tratto la mia paura diventa realtà, una voce dietro di noi urla:” Ehi Allison ,cosa ci fai con un tipo del genere? Lascia stare quattro occhi e vieni con noi a divertirti”. Mi sento sprofondare. Allison con molta calma, eleganza e tono autorevole si gira e  dice di preferire  la mia compagnia. Arrivati ad un incrocio Allison mi dice:” Ciao Noah, grazie della compagnia , vorrei chiederti  posso rimanere con te sulla tua isola circondata da mare tempestoso”.Io rimango pietrificato, non so cosa rispondere, non vedo bene senza occhiali ma sento benissimo. Ho sentito bene, come fa a conoscere la mia solitaria isola. Non riesco a dire nulla, faccio un cenno di assenso con la testa. Lei sorride e va per la sua strada.  Quando torno a casa mamma nota che non ho più gli occhiali così mi chiede “Noah, amore ,dove sono gli occhiali?” “Eh! sono inciampato mi sono caduti  e qualcuno accidentalmente me li ha calpestati” dico con un sorriso tirato. Non voglio arrecarle  preoccupazioni , già deve pensare a tante cose. “Oggi ne andremo a comprare un paio nuovi”. Vado  in camera mia. Non riesco a togliermi dalla testa ciò che mi ha detto Allison, forse non son più solo, qualcuno vuole stare con me, sulla mia isola e forse il mare potrebbe non essere più in tempesta,potrebbe tornare calmo.  Passano i secondi, i minuti , le ore. Mi annoio a morte. Aspettoche mamma mi chiami per andare a prendere gli occhiali nuovi. Finalmente mi chiama dalla cucina: “Noah scendi andiamo”. Arrivati dall’ottico provo numerose paia di occhiali, ma nessuno mi piace particolarmente. Improvvisamente l’ottico tira fuori da un cassetto un astuccio: ”Prova questi, sono sicuro che ti piaceranno. Li indosso e mi guardo allo specchio, che strani occhiali  penso, sono a specchio, io vedo tutto ma gli altri non vedono i miei occhi, mi piacciono. Erano speciali. Avevano una montatura blu notte e le lenti a specchio . Ritorno a casa tutto contento per l’acquisto dei nuovi occhiali. Il giorno dopo a scuola tutto  cambia. Come di routine ormai quei tre ragazzi si avvicinano con l’intenzione di prendermi in giro. È successo tutto in un secondo. Naso contro naso, pronti a insultarmi e farmi smorfie . Mi guardarono negli occhi. All’improvviso si fermarono .Ci fù silenzio. Non capivo. “Scusaci non pensavamo di recarti  sofferenza”. Sempre più confuso  chiesi con voce flebile “di che parlate?” “i tuoi occhiali a specchio, ci fanno vedere il nostro comportamento, mostrano a noi ciò che siamo e che facciamo, e di riflesso sento la sofferenza che provi. Sospettai che mi stessero facendo uno scherzo e che probabilmente tra qualche secondo iniziassero di nuovo a bullarsi di me. Ma non fu così. Mi sedetti al mio posto e accanto a me c’era Allison che con i suoi bellissimi occhi mi guarda e mi dice :”ben arrivato compagno d’isola”. Il mio cuore inizia a battere forte , non sono più solo e il mare è calmo, non mi importata se domani si agita.  I giorni seguenti il solito trio non mi prese in giro iniziarono  a parlarmi e divennero  miei amici. Dylan, Harry e Tom erano cambiati. Decisi di perdonarli. Quando sembrava che finalmente il mare si fosse calmato dissi tutto ai miei genitori. All’inizio dolcemente mi rimproverarono per non aver detto nulla ma poi mi strinsero in un forte abbraccio. Sono trascorsi dei  mesi e andare a scuola è diventato un piacere. I miei occhiali a specchio per quanto possa sembrare strano mi hanno salvato, perché mostrano alle persone quello che sono  veramente. Sono  in un certo senso magici. Questa è la mia storia. Dopo venti anni circa ricordo ancora Allison  che volle salire  sulla mia  isola circondata dal mare tempestoso ,fu la mia ancora, il mio salvagente, non le  ho mai chiesto il perché o come facesse a conoscere anche lei l’isola circondata dal mare in tempesta. Sono impresse nel mio cuore le sofferenze che ho provato, la solitudine, le paure. Forse  queste mi hanno aiutato ad essere l’uomo che sono oggi. Mi sentivo proprio come un’isola in mezzo al mare in tempesta. Ora il mare si è placato. Ogni tanto si agita ma so come affrontarlo. La sofferenza insegna, lascia il segno e ti rende forte, ti insegna a riconoscere la sofferenza altrui. Molte  insicurezze che avevo si sono trasformate in sicurezze. Non tutti i bambini vittime  di bullismo hanno degli occhiali a specchio speciali come i miei, questo lo so bene. Non tutti sono forti, molti soffrono, si chiudono in se stessi, finiscono per non parlare con nessuno. Non tutti riescono a sopportare una tale sofferenza così decidono di farla finita. 




  

Di Maria Beatrice Bernardini
Scuola Secondari di Primo Grado – IO Carsoli 
 

Una speranza per la fabbrica

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte, tutto era quieto e silenzioso, scendeva la neve che candida e soffice si posava sui tetti, sugli alberi, sulle strade e sui giardini… nel frattempo il giovane pasticciere si dirigeva verso casa con aria pensierosa, triste, il ragazzo se ne stava con lo sguardo basso e con qualche lacrima che gli scendeva dagli occhi, sapendo che aveva appena perso non solo il lavoro, ma anche un tesoro immenso dal valore inestimabile, forse più dell’oro!

Quella notte non era come le altre, perché solitamente durante la notte della vigilia e quella successiva la fabbrica rimaneva aperta fino all’alba per distribuire gratuitamente panettoni e dolciumi natalizi a tutti i cittadini. Invece quella notte era buia, fredda, vuota: metteva inquietudine vedere la fabbrica spenta, proprio come un corpo morto.

In tutta la città quei due giorni furono carichi di tristezza, poveri di spirito natalizio. Quello infatti fu un duro, durissimo colpo, non solo per la famiglia del proprietario, che rischiava una seria bancarotta, ma un po’ per tutta la città. Il panettone che veniva prodotto nella fabbrica era il fiore all’occhiello dell’intera regione, una delle tantissime eccellenze italiane esportate in tutto il mondo. Il panettone era soffice, dolce, fragrante, farcito con uva passa della migliore qualità, dolcissimi canditi e croccanti mandorle dolci.

Era squisito!

Nessuno in città si dava pace, né riusciva a capire perché questa bontà fosse stata rimpiazzata da alcuni dolcetti piccoli, secchi, che come unico sapore avevano quello dello zenzero.

Ma cosa sarà mai lo zenzero?

Questa purtroppo è la storia di tantissimi prodotti e fabbriche, quindi anche di tante industrie italiane: la globalizzazione accresce la concorrenza e surclassa a volte le peculiarità delle piccole realtà locali; i costi elevati e le spese costringono poi a ridurre la manodopera, si sostituiscono le materie prime di qualità con altre di meno pregio ed economiche, quindi alla portata di tutti.

La situazione rendeva triste e malinconico anche il figlio del proprietario: amava quella fabbrica, aveva studiato ed investito molto per onorare il lavoro ed i sacrifici della sua famiglia.

Quella notte però non si vedeva né speranza né futuro e il figlio era ancora più addolorato nel vedere i volti spenti dei genitori.

Il giovane pasticciere e il figlio del proprietario si conoscevano molto bene: sin da piccoli erano andati a scuola; vivendo nella stessa città, avevano proseguito il percorso di studio fino al conseguimento del diploma insieme e poi si erano ritrovati anche al corso di specializzazione pasticcera. Il giorno dopo, i due si incontrarono casualmente nei dintorni della fabbrica, perché presi dalla nostalgia andarono lì l’uno all’insaputa dell’altro per ricordare i bei tempi andati.

Il giovane pasticciere incontrando l’amico gli raccontò di aver seppellito della pasta madre sotto gli stabilimenti della fabbrica, proprio come un vero tesoro.

Man mano che i due parlavano, raccontandosi i loro stati d’animo, la tristezza si trasformò in un sentimento di unione e forza; i due si resero conto di sentire le stesse sensazioni e di avere le competenze adeguate per riaprire la fabbrica.

Senza dirsi nulla, si guardarono negli occhi. Corsero sotto un castagno vicino alla fabbrica dove scorgevano qualcosa e scavarono. Vi scoprirono della pasta madre. La tirarono fuori e, stupiti, si accorsero che questa era lievitata e, espandendosi da sotto la fabbrica, aveva raggiunto l’albero.

La pasta madre era viva!

Gli sguardi dei due giovani si riempirono di gioia.

Si guardarono intorno, si resero conto che al posto di comprare prodotti costosi, per fare il delizioso panettone potevano usufruire di ciò che la natura del posto offriva loro. La città era ricca di alberi da frutto: noccioli, castagni e alberi di molti altri tipi.

Passò qualche giorno e i due amici radunarono in piazza contadini, allevatori e anche un buon numero di altri concittadini per discutere sul da farsi. Finita la riunione si era giunti ad un accordo: la fabbrica avrebbe riaperto, tornando pian piano alla normalità e tutti i piccoli produttori locali avrebbero fornito latticini, frutta e altri derivati, perché da quel momento in poi la fabbrica non avrebbe prodotto solo panettoni, ma anche dolcetti locali assortiti, decisamente più saporiti di quelli di solo zenzero, perché avevano sapore di casa. La fabbrica così non solo usava prodotti genuini, ma anche a Km zero ed i costi di produzione erano più bassi di prima della crisi!

La notizia in pochissimo si sparse in tutta la città; infatti nei giorni che seguirono la fabbrica riaprì e ci fu una festa di tre giorni!

I cittadini, la famiglia del proprietario,… insomma, tutti lì in città erano felici e non erano mai stati più gioiosi e uniti di così.

 


 

Beatrice Caverni, 12 anni
 

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. il compito diceva: “inventa una storia”. a Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto...  

In quel momento accanto a Giulia comparve treb, uno dei suoi amici immaginari. era molto tempo che Giulia non lo vedeva. treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. e cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre era veramente bella ,aveva un pelo arancione che con la luce diventava quasi oro e delle strisce nere lineari, non si sapeva il perché fosse li ma si sapeva che con equilibrio camminava su e giù per i tetti delle case. Alla finestra del secondo piano qualcuno lamentandosi del continuo rumore provocato dalla tigre urlo "E POSSIBILE che …" e poi rendendosi conto della situazione si azzitti.  La tigre non gli diede ascolto ma comunque infastidita e stanca si mise a riposare sulla tenda di un terrazzo. Intanto al primo piano una signora travestita con uno strano cappello fece cadere a terra una polvere brillantata, la tigre cosi attratta dal luccichio con un balzo ci andò sopra ma , nello stesso momento una macchina passo e tutta la brillantina si attacco alle ruote. La tigre inferocita si mise a rincorrere la macchina... fino a quando  BOOM! La macchina scomparì. La tigre allora un po’ scossa si mise a pensare  che cosa fosse accaduto e dal nulla la macchina riapparve, la tigre si avvicinò alla macchina e vide una bimba che scriveva  si avvicinò ancora un po’ e... la bimba era Giulia!

Il compito andò benissimo e Giulia prese dieci.





 

Aurora Porcelli
Scuola Secondaria di Primo Grado – IO Carsoli
 

di Anna per fare il panettone. Finito di preparare l’occorrente, presero la pasta madre ed iniziarono a sperimentare nuove ricette. Dopo aver buttato sul foglio delle ipotetiche ricette scelsero la combinazione che più li ispirava ed iniziarono a cucinare. Dopo alcuni disastri finalmente riuscirono ad ottenere il panettone “perfetto”; lo assaggiarono sperando che fosse tanto buono, quanto bello. Ne rimasero estasiati, ma per avere un parere esterno lo portarono da Rita, la vicina.

Suonarono alla porta, Rita aprì e li fece accomodare in casa. Si preparò un bel thè e subito dopo assaggiò il panettone, che le piacque molto.

Qualche giorno dopo la vicina andò da Anna e chiese se fosse stato possibile preparare altri panettoni per le sue amiche. Anna entusiasta accettò e chiamò Giovanni per farsi aiutare. Dopo nemmeno un'ora Giovanni, Anna e Rita stavano preparando altri panettoni. Finito il lavoro li impacchettarono e Rita li portò alle sue amiche. Passarono alcuni giorni e Rita nuovamente chiamò Anna e le chiese di fare altri panettoni per altre sue amiche. Questa cosa si ripeté innumerevoli volte, così ad Anna e Giovanni venne un’idea: presentare la ricetta al proprietario della fabbrica per cercare di farla riaprire.

Allora la mattina seguente lo chiamarono e gli proposero la loro idea… All'inizio l’uomo era stato un po’ titubante, ma, poi, aveva deciso di sperimentare questa nuova ricetta e mettere in atto questo piano per riaprire la fabbrica.

La settimana seguente il proprietario radunò tutti i suoi dipendenti per renderli partecipi di “quest'ultima speranza” per riaprire. I dipendenti, vedendo una luce di speranza in questa idea, si misero tutti quanti a lavoro: forse per l'ultima volta o forse no, chissà! Furono prodotti e messi in vendita all'incirca 200 panettoni: toccava solo vedere se avessero riscosso lo stesso successo che avevano avuto con le amiche di Rita. A dispetto di tutte le loro più negative aspettative, tutti i panettoni in poco tempo furono venduti. A quel punto si capì che forse questa era l'occasione perfetta per poter riaprire la fabbrica e contrastare la produzione di dolci allo zenzero dell'industria rivale. Per la seconda produzione furono prodotti il triplo dei panettoni rispetto alla volta precedente. Anche questa volta tutti i panettoni furono venduti in men che non si dica, perché erano richiestissimi, e i guadagni salirono alle stelle. Nel giro di un mesetto la fabbrica si riprese totalmente e abbatté tutta la concorrenza facendo diventare l’azienda e il suo panettone molto famosi e apprezzati in tutto il mondo. 

P.S. Anna e Giovanni ricevettero un aumento ed una promozione (ci mancava solo che rimanessero dei semplici pasticcieri!).




 

Arianna, 8 anni





 

Annaluce Martelloni
Scuola Secondaria di Primo Grado – I.O. Carsoli

Una fabbrica speciale

 

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte gli tornò in mente il gesto che aveva compiuto e, sentendosi terribilmente frustrato poiché aveva capito che non c’era più alcun modo di rimettere in funzione la fabbrica, decise di andare a dormire, per mettere a tacere i pensieri.

Una volta addormentatosi, sognò di essere in fabbrica a lavorare. Infornava, decorava, mescolava ma, soprattutto, era felice. Tutto era tornato alla normalità. Sentiva realmente, fisicamente, addosso a sé la fatica, il caldo del forno e la felicità enorme di star facendo ciò che più amava. Così, alle prime luci dell’alba, ormai sveglio, ma eccitato da quanto aveva riempito il suo sonno, ebbe l’impulso irrefrenabile di andare in fabbrica, consapevole però, che non sarebbe accaduto niente di tutto ciò che sperava. Una volta entrato, con grande sorpresa, notò che i panettoni erano esattamente lì, decorati proprio come nel sogno! La domanda al pasticciere sorse spontanea: era stato lui? Ma non sapeva dove si fosse procurato la pasta madre per fare tutto ciò.

Da quel giorno il sogno divenne ricorrente e la routine medesima.

Fin quando, un giorno, andò a dormire, ma al suo risveglio non vide panettoni decorati: la fabbrica – che ormai era una seconda casa – non c’era più, bensì c’era una sala bianca molto luminosa. E lui era in quella sala. Di fianco a lui c’era una donna che gli stringeva la mano, come fosse la cosa più preziosa al mondo, e, commossa, gli parlava. La donna in questione era sua moglie, che ogni giorno a partire dalla vigilia di Natale dell’anno precedente andava a fargli visita, dopo che lui, a causa di un incidente in fabbrica, era entrato in coma, un coma dal quale uscì esattamente un anno dopo. 

Il pasticciere in cui si era sempre immedesimato nei sogni scoprì essere suo figlio e lo sognava poiché la moglie ogni volta che andava a fargli visita gli raccontava della situazione della fabbrica e della bravura che aveva avuto il figlio nel portarla avanti. Era stato grazie a lui, infatti, se la fabbrica era diventata competitiva a livello mondiale e internazionale ed era uscita dalla crisi. Come lui era uscito dal coma.



 

Angelica Prosperi
Scuola Secondaria di Primo Grado – I.O. Carsoli
 

La magia di un bambino

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler aprire battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l'azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte il piccolo pasticcere sperava e credeva che qualcosa potesse nascere. Appena sveglio, si rese conto che era già la mattina di Natale. Si vestì velocemente e corse subito a vedere se qualcosa fosse cresciuto, ma niente. Non trovò niente. Ogni mattina con tenacia e speranza andava a vedere, confidando nel fatto che potesse crescere qualcosa. Passarono giorni, eppure, nonostante tutto, lui non era mai triste: aveva questo sorriso splendido in volto, ma dentro provava tristezza e amarezza, nascosti da una maschera che non rendeva visibili i suoi veri sentimenti. Una notte, però, una luce accecante lo svegliò: essa proveniva dalla fabbrica. Si vestì subito e corse a vedere: finalmente qualcosa era cresciuto. Il pasticcere saltò dalla gioia! Era felicissimo, ma questa volta era felice davvero. 

In quello stesso momento anche il cuore di un bambino, chiuso da tempo come la fabbrica, riprese a battere pieno di felicità, una felicità sepolta, curata e amata dalla sua volontà come la pasta madre, che era stata curata e amata dal pasticcere. Il bambino, infatti era stato svegliato nel cuore della notte e gli era stata data una bella notizia. Saltava dalla gioia! Il suo cuore era stato riparato e il suo desiderio avverato. Questo bambino anni prima aveva subito una perdita devastante: la morte dei genitori. Per lui fu traumatizzante. Da lì ogni pezzo del suo cuore si ruppe. Il bambino era stato messo in un orfanotrofio; ogni giorno fingeva di essere felice davanti agli altri ma non lo era: il suo cuore era chiuso, fallito! Ma quella notte la sua felicità tornò, perché ci fu un miracolo: qualcuno lo aveva adottato e poteva finalmente passare i suoi giorni con una famiglia come aveva sempre desiderato.

Non esiste, infatti nessuna fabbrica di panettoni reale, perché il pasticcere era la sua volontà che lo aiutava a fingere di essere felice, mentre in realtà era triste; infine, la sua felicità era la pasta madre che fu seppellita e non cresceva più ed ogni giorno la volontà cercava di farla tornare.  

Io ho scritto questo testo perché cerco sempre di dare un messaggio non banale e molto importante. Ho voluto dare questo messaggio per far capire che tutti possono ritrovare la propria felicità coltivandola e prendendosene cura, proprio come può fare un piccolo pasticcere con la sua fabbrica. 


 


 

Gioia Di Clemente  8 anni terza elementare
Scuola Maestre Pie Venerini Sacro Cuore Roma Monte Mario
 

Era Sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva:"inventa una storia ". A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull'erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svolto' l'angolo correndo all'impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto... in quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò:"sai come dicono i grandi scrittori?non inventare:guarda. Guardati a torno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante." Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. La tigre fissava la signora che sbatteva la tovaglia, poi incuriosita saltò giù dalla grondaia, attraversò la strada e un ragazzo in bicicletta ostacolo' il suo percorso . Arrivata alla casa della signora, la tigretta si avvicinò allasignora, e lei per la paura entrò dentro casa e si nascose lasciando cadere a terra la tovaglia. La tigretta non capì perché la signora si fosse spaventata tanto, e pure lei era ancora piccola. Così iniziò a pensare da grande, quanto avrebbe spaventato la gente. Così la tigre tornò sulla grondaia e iniziò di nuovo a camminare in equilibrio. Passò di lì  un'uccellino che voleva trovare un posto tranquillo dove cantare e spiegò alla piccola tigre che dove era passato una signora stava urlando. La piccola tigre disse all'uccellino che ogni giorno li, dove si trovava lui era tranquillo. L'uccellino felice di aver trovato un posto tranquillo, si posò sul ramo di un un'albero, i due diventarono amici inseparabili e ogni giorno nella piazza giocarono sempre insieme, donando felicità alle persone che osservavano divertiti la strana scena.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

Alvise Ghellere, 9 anni
Classe IV B Scuola Primaria Giovanni Pascoli Bassano D. G. (VI) 
 

La fabbrica di panettoni
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi ai cancelli, un giovane pasticcere di nome Mario si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la Vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte dalla fabbrica si udì un rumore strano, ma solo lui lo sentiva. Allora si alzò senza svegliare la sua famiglia, si vestì con la tuta da panettiere e un giubbotto pesante, uscì da casa e andò alla fabbrica. Appena scavalcò i cancelli vide un fascio di luce che proveniva dal centro dell’edificio e lo abbagliò. Si domandò cosa poteva essere? Magari la fabbrica stava diventando un panettone gigante???? No, non poteva essere… invece era proprio così!! Mario non conosceva la profezia dei panettoni che raccontava che un panettiere dal grande cuore seppellì la pasta madre del panettone la notte della Vigilia di Natale sotto la fabbrica e questa diventava un panettone gigante. Le persone che ci lavoravano dentro erano piccoli elfi: i maschi erano con la camicia a piccoli disegni di pandori e anche la cravatta, i pantaloni avevano dei piccoli disegni di bustine di zucchero a velo e in testa avevano un cappello classico degli elfi. Le femmine avevano la gonna che era un panettone gigante ed era molto soffice, la maglietta, invece, era con piccoli pandori e in testa avevano un cerchietto con pandori morbidi e penzolanti. Appena Mario entrò i piccoli elfi lo accolsero e gli spiegarono la loro storia e gli dissero che loro erano parenti stretti degli elfi di Babbo Natale. 

Mario era rimasto a bocca aperta per la loro storia. Andò al centro dell’edificio,  arrivò al ponte centrale e disse: "Voi fate i panettoni io penso a consegnarli". Tutti gli elfi si domandarono come avrebbe fatto a consegnare circa sette miliardi di pandori in una notte, però loro non sapevano che Mario aveva un asso nella manica, lui oltre a essere un panettiere era anche un meccanico quando nessuno lo vedeva. Lui piano piano aveva migliorato le sue qualità da meccanico, adesso era tempo di metterle in atto, gli elfi gli avevano dato una quantità industriale di cianfrusaglie: reattori jet, una vecchia slitta, carrelli d’atterraggio di un elicottero e tre sedili. Poi Mario andò al reparto esperimenti e disse all’elfo capo reparto di fargli scoiattoli volanti magici. Dopo un’oretta gli scoiattoli erano pronti, i panettoni erano sulla slitta ed era ora di partire. Mario saltò sulla slitta e cominciò a portare i panettoni. Dopo qualche ora… Mario fece ritorno alla fabbrica e incontrò Babbo Natale, lo vide per un nano secondo e poi scomparve in un portale magico. Mario allora disse tra sé e sé: "È stata la nottata più bella della mia vita". Mario tornò alla fabbrica ma era scomparsa, era tornata la solita vecchia e grigia fabbrica.  Lui allora si domandò dove poteva nascondere la sua slitta e gli venne un’idea: nella discarica sottoforma di macchina arrugginita. La mattina di Natale lui era già una leggenda, si era aggiunto alle cinque leggende, quindi… se ci credete… ci potrebbe essere davvero e vi sorveglia.



 


 

Lavinia Bagnini  –  Alex  Gregori – Aya Bahili El Idrissi
Scuola Primaria “ C. Salvetti  “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR) 
 

STORIA DI NATALE

 Natale si avvcinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte … Il pasticcere andò a controllare,  la pasta aveva cessato di lievitare.

Tornò la notte seguente e … magia! La pasta aveva ricominciato a lievitare.

Ad un certo punto arrivò un bambino di una famiglia povera che desiderava tanto un panettone da mangiare il giorno di Natale, insieme ai suoi cari.

Il bambino non trovò il dolce tanto desiderato e si mise a piangere.

Allora il pasticcere, dispiaciuto, promise che avrebbe fatto lui il panettone e si mise subito al lavoro.

Il mattino dopo il bambino corse a ritirare il suo panettone e … sorpresa! C’erano panettoni a volontà.

Sembrava proprio un miracolo di Natale!

Per qualche magia durante la notte un folletto benigno aveva pensato di far felici tutte le famiglie pensando anche a quelle che non avrebbero potuto permettersi dei grandi festeggiamenti. 

Il bambino prese il suo panettone, lo portò dalla mamma e insieme andarono a mangiare il dolce dai nonni e trascorsero una bella giornata di Natale.

 
 


 
Alessandro, 12 anni

I RACCONTI DEL TAVOLO

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva:

“Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto d'una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Raccontò tutto guardando ogni cosa accanto a lei, mettendo un tocco di fantasia come suo solito fare e in quel momento si sentì di vivere in una storia pazzesca. Raccontò che la sua città era stata invasa… ma non dagli alieni o cose scontate del genere, ma  era stata invasa da un’ intero zoo!  Si immaginò un mondo immenso, dove la natura prevale su qualsiasi cosa e gli animali che correvano su e giù per le ormai vecchie strade. Solo un animale non si divertiva a stare con gli altri a starnazzare, era una tigre molto maestosa ma anche molto timida, che si stava arrampicando su una specie di grondaia fatta di liane. Peccato che sopra di essa c'era un palazzo dove la vecchia signora dell’ultimo piano, che stendeva tranquillamente la sua tovaglia, si mise ad urlare e se ne scappò dentro casa, preoccupata anche della fine del figlio che ci stava mettendo un po’ troppo tempo per tornare. Proprio in quel momento egli uscì pedalando all’impazzata prima che quel feroce lupo non gli addentasse le chiappe in un batter d’occhio… mentre i bambini uscirono tutti contenti da scuola a giocare nel nuovo mondo, il mondo della vera natura. La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb, in fondo era anche merito suo. 


 



 
Agata Sessi, 9 anni 

Classe IV B Scuola Primaria “G. Pascoli” Bassano del Grappa
 

Il magico panettone

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte, però, a mezzanotte in punto, comparve una luce abbagliante: era una Dea! Precisamente la Dea dei Panettoni. La Dea andò a casa di Andrea, il pasticcere, e in sogno gli disse: “Dopo quattrocentoventidue anni tu mi hai risvegliata”. Il giovane pasticcere si svegliò di soprassalto, vide la Dea ed esclamò: “E tu chi sei?” Lei rispose: “Io sono la Dea dei Panettoni ma chiamami Cindy, per favore Andrea.” “Come fai a sapere il mio nome?” “Io so tutto, sono tutto e vedo tutto ma non importa, domani sarà Natale e i miei piccoli panettoncini non sono ancora nelle loro case.”

“Come… nelle loro case?” “Sì! I panettoni sono inviati in case precise e, se non vengono consegnati entro Natale…”. Cindy deglutì: “Babbo Natale non verrà.” “Allora li consegneremo insieme!” promise Andrea. “Grazie Andrea, adesso chiamo i miei panettunicorni.” Cindy si illuminò, i suoi vestiti cambiarono e diventarono normali. Ora indossava una maglia dorata con dei fiocchi bianchi, una gonna trasparente rosa glitter, dei pantaloni pesanti bianchi, delle scarpe rosse, una giacca mimetica e in testa aveva un cappello con disegnata una grande corona argentata. Prima indossava un vestito bianco-candido come la neve e una corona. I panettunicorni arrivarono sottoforma di normali unicorni (e gli unicorni non sono normali!). La Dea salì sopra il panettunicorno rosa, Andrea sopra quello blu e immediatamente ai lati degli unicorni apparvero dei sacchi con dentro i panettoni. Volarono sopra tutta la città, per tutto il paese, per tutta la regione e per tutto il mondo. Infine andarono a casa di una bambina di nome Jesse. La Dea lasciò il panettone sulla tavola della cucina: a quel punto la bimba si svegliò, andò in cucina e vide i due ragazzi. “WAA! Tu sei la Dea dei Panettoni e tu sei il suo amico, giusto?”. “Sì piccola Jesse, ma adesso che sai chi sono non devi di dirlo a nessuno, ok?” “Sì, lo so perché ho letto tanti libri e leggende su di voi.” “Torneremo l’anno prossimo e così ci rivedremo.” Cindy e Andrea salutarono Jesse, rimontarono sui panettunicorni e volarono verso le stelle. 

Da quel giorno, tutte le notti di Natale, Jesse si svegliava per salutare i suoi amici. 


 
 


 

Agata Maria Pedrabissi
Classe II A Scuola Media “C.Frassoni” - Finale Emilia (MO)
 

A la carte

  • In una caverna,
  • Un cucciolo di drago
  • Si riposa beatamente quando

In fondo ad una caverna, dalle pareti umide ricoperte da una strana sostanza verdognola, si trovava un animaletto immerso nell'oscurità: era un cucciolo di drago. Aveva occhi grandi di un azzurro intenso che parevano di vetro e il corpo  interamente ricoperto da squame verde smeraldo, che luccicavano e sembravano affilate come lame. Come ogni drago possedeva anche delle ali, ancora piccole vista la giovane età ma forti e in grado di volare. 

Stava riposando beatamente quando un molesto insetto a lui sconosciuto entrò nella caverna: era molto piccolo e mentre gli ronzava intorno illuminava tutto l’antro grazie a una luce che il corpicino emanava.

Il draghetto era molto incuriosito e affascinato da esso, avrebbe voluto seguirlo  fuori di lì, ma non sapeva se ne aveva il coraggio. 

Non era mai uscito dalla caverna e aveva paura di affrontare un mondo a lui sconosciuto, ma fra sé e sé era convinto di farcela, perché se un animaletto così piccolo riusciva a sopravvivere  poteva in fondo farcela anche lui.

Allora prese la rincorsa e uscì finalmente dalla caverna; era stupito, sorpreso, sbalordito  da quello che vedeva! Era circondato da grandi alberi talmente alti che gli sembrava che toccassero il cielo, vi erano cespugli, frutti, fiori colorati e animali di qualsiasi specie. 

Ma la cosa  da cui era più affascinato era il profumo della foresta, così fresco e pulito, non come quello inesistente  della caverna.

Ora non gli rimaneva che esplorare; voleva vedere, conoscere e sapere tutto di quel luogo perché sarebbe diventato la sua nuova dimora. Iniziò a girovagare nella foresta, attraversava ruscelli dall'acqua limpida, assaggiava nuovi frutti, si arrampicava sugli alberi e provava l'esperienza di volare all'aperto; insomma,  voleva fare tutto quello che non aveva mai fatto. 

Dopo diverso tempo passato nella foresta si accorse che c'erano centinaia di animali: cervi, lupi, orsi… ma non draghi; si chiedeva se da qualche parte del mondo ci fosse qualcuno come lui o se invece fosse l'unico.

Questa domanda lo tormentava, gli ronzava sempre nella testa; cercava di ignorarla ma non ci riusciva; fino al giorno in cui qualcosa cambiò. 

Era giunto in una parte della foresta che non aveva mai esplorato, si era ritrovato davanti un grande lago, profondo e limpido; sopra di esso volavano altri draghi, molto più vecchi e grandi di lui, ma ciò non era importante perché lui voleva solamente incontrare i suoi simili. Senza pensarci due volte spiccò il volo e li raggiunse; spiegò loro che era rimasto solo e che non sapeva  dove andare. I grandi draghi gli dissero che tutti i draghi del mondo abitavano in un'isola poco lontana e che avrebbe potuto seguirli. Dopo qualche ora di viaggio raggiunsero l'isola; agli occhi del piccolo drago era magnifica, piena di foreste, colline, prati fioriti… un posto adatto a qualsiasi drago. Il piccolo drago, ormai cresciuto, si sentiva  finalmente a casa; non vedeva l'ora di poter vivere felice in quel luogo.


 


 

Tiago & Gael Valesi-Ramos 
II media e V elementare, Scuola Italiana di Barcellona

 

Nello spazio angusto e buio tra due case molto alte, un bambino con gli occhiali a specchio aspettava

la quotidiana consegna del latte, ma all’improvviso vide un riflesso che dall'alto illuminava, come mai successo prima, quello spazio grigio tra i due palazzoni che emergevano ai lati della casetta nella quale viveva con suo nonno. Il latte arrivò ma il bambino non poteva che tenere gli occhi verso altro, verso l'alto. Da dove veniva? Chi o che cosa l'avevo provocato? Il riflesso si ripete' tante volte finche' non si intravide una creatura piccola ed agile. Il bambino gridò, la creatura si fermò ma non rispose.

Da lì ogni giorno il bambino lucidava i suoi occhiali e sfruttando la luce del sole comunicava, verso l'alto, disegnando traiettorie e parabole. Purtroppo per un lungo periodo nulla accadde. Ma un giorno, che giorno, dall'alto arrivò una risposta fatta a raggi di luce che riempì la cucina della casetta. Il bambino saltò di gioia, abbracciò il nonno e disse: lo sapevo non sono l'unico guerriero della luce! Siamo almeno in due, all'arrembaggio!

E da lì in avanti fu tutta un'attesa, certamente del quotidiano latte, ma anche e soprattutto di quei segnali di luce, di vita. E come d'incanto a partire da quel magico martedì 16 tutti i giorni alle 12:30 una spada di luce taglia non più solo la cucina della casetta ma anche la sala da pranzo, il bagno e la stanza del primo guerriero della luce che non puo' che saltare di stupore, gioia e felicità.  

Alle 12 era già tutto pronto e agli occhiali a specchio il guerriero 1 aveva aggiunto uno scolapasta in testa, un braccio di domopack e dieci anelli, appartenuti alla nonna, per essere il più brillante possibile! E puntuale alle 12:30 ecco arrivare dall'alto un fascio che ormai non solo più illuminava la casa ma che sembrava danzare ed addirittura scrivere nell'aria parole. Il guerriero 2 era evidentemente un virtuoso della luce. L'1 allora per non essere da meno iniziò ad improvvisare movimenti con la testa e con le orecchio, con le braccia  e con le mani, in maniera così precisa da poter rispondere con la stessa luminosità e precisione di guerriero 2.  

Non sapevano neppure come ma erano ormai in grado di comunicare, di scrivere e parlare.  Li giù: "Come ti chiami? Quanti anni hai? Com'è lì su'?  

E a turno rispondere: "Olmo, Luna- 10-12-alto-basso."  

Entrambi contemporaneamente: "ci vediamo? come faccio a salire? come faccio a scendere?"  

E i raggi di luce impazzirono fino a disegnare in un linguaggio comprensibile solo dai due guerrieri: "sii domani alle 13 io scendo di parecchi piani fino ad arrivare all'altezza del tuo tetto". "Riesci a salirci sopra? Così saremo allo stesso livello e non avremo bisogno ne' di occhiali da sole, ne' di luci per raccontarci cose!

Ok a domani!"

Timidamente: "Ciao"

Energicamente, essendo il secondo è più facile: "Ciao"

"Com'è stare lassù?"

"Bello si vede tutto il cielo, tutti i palazzi."

"E lì sotto?"

"Bello si vede un pezzo di cielo e si immagina che ci sia dentro i palazzi"

Contemporaneamente: "facciamo cambio?"

Sempre contemporaneamente: "Ci ho ripensato facciamo rimanere tutto così com'è!

Ed ogni tanto, come oggi, vediamoci sul tetto a raccontarci le nostre vite, le nostre luci."
 
 


 

SOFIA TOMBARI (11 ANNI)

1°B SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO “G. LANFRANCO” GABICCE MARE

 

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia comparve una tigre.  

Da una finestra della stessa casa qualcuno urlò, ma perché? il motivo c’era, ed era bello grosso, affianco al ragazzo c’era un’enorme pantera nera. In quel preciso momento le sue gambe parevano gelatina e il busto un mucchio di acqua e farina, le mani poggiavano su un tavolino accanto alla finestra, sembrava volersi lanciare. La pantera rimase confusa e nella sua mente pensò:” Ma che cosa sta facendo questo qui, perché ha paura di me, io voglio solo giocare!”. Intanto una signora scosse un tappeto dal terrazzo, che però pareva far cadere della polverina scintillante. Questa si posava sul prato verdolino sottostante l’appartamento, la donna non se ne accorgeva, quindi non sapeva neanche che quello fosse un tappeto magico. Il pulviscolo aveva un potere speciale, ovvero la capacità di trasformare in animale qualsiasi elemento della natura, però renderlo docile e con tanta voglia di giocare. Nel frattempo, per strada, un ragazzo passeggiava tranquillamente con la sua bicicletta color giallo fulmine, ma all’improvviso comparve un lupo che lo inseguiva, allora il giovane cominciò ad andare sempre più veloce fino a schiantarsi contro ad un palo. Sfortunatamente si bucò una ruota e il fanciullo si ritrovò faccia a faccia con la bestia, chiuse gli occhi per la paura che da un momento all’altro l’avrebbe addentato, ma l’animale fece il contrario, si avvicinò, si fece accarezzare e con molta calma gli spiegò: “Ciao umano, non avere paura, sono tuo amico, qualcuno da queste parti sta spargendo della polvere capace di dare vita ad animali fantastici in grado di parlare, però noi vogliamo solo stare tranquilli nel nostro mondo magico, tu devi aiutarci!”. Allora il ragazzo un po’ sbalordito accettò la missione e iniziò a girare per il quartiere, non appena giunto davanti ad un condominio vide una signora che sventolava un tappeto che gli pareva far cadere dei fiocchi di neve, poi però si avvicinò e capì che era una polverina profumata di sapone per piatti. Così cominciò a gridare per far capire alla donna di smetterla e non toccare mai più quel magico tappeto. Dunque il giovane buttò numerosi secchi di acqua sul prato, allora il lupo, la pantera, la tigre, che riposava sulla grondaia, ed altri animali scomparvero e ritornarono nel loro mondo fantastico.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

Sofia Tombari (11 anni)
1°B, Scuola Secondaria I° “G. Lanfranco” Gabicce Mare

 
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte la pasta madre si risvegliò, sentì che non era più avvolta dal suo speciale panno caldo, ma era ricoperta dalla terra, però le piacque ugualmente, la sensazione era piacevole e lì sotto era accogliente caldo, proprio come se fosse ancora ospitata nella sua comoda copertina. Nel mondo sotterraneo si trovava veramente di tutto, cartoni, semi, resti di cibo, insomma qualunque cosa, la pasta madre iniziò a spostarsi con tanta fatica, però non andò molto lontano.

Ad un certo punto si fermò, vide una scatola di cartone aperta, si recò lì vicino e cercò di entrare all’interno. Non appena giunse all’interno si addormentò, accolta dal forte calore. Passò una notte, poi un’altra e un’altra ancora e la pasta madre cominciò a lievitare, arrivò un ’altra notte ed essa si ingrandì di un altro centimetro; finalmente, dopo tante ore di lievitazione si svegliò.

 il Natale era già passato da un po ’di tempo e in quel giorno il giovane pasticcere si era posizionato davanti alla fabbrica per ricordare e dire veramente addio alla pasta madre.

Essa cresceva molto velocemente, ancora candida e paffutella come le guance di un bambino, con qualche chiazza marrone qua e là per la terra che era entrata all’interno; però, passate un po ’di notti, finalmente passò dal chiaro ad un colore scuro e ad una croccantezza in superficie. Trascorse un ’altra notte e all’improvviso la pasta madre, che oramai era giunta all’ultimo strato del terreno prima di venire a contatto con l’aria aperta, crebbe ancora e ancora fino a mostrare agli abitanti della città il suo capo soffice e profumato.

Da quel momento non si ingrandì più, per il freddo che la colpiva sulla testa e si diffondeva in tutto il suo busto. Un giorno, il giovane pasticcere fece una passeggiata nei dintorni della fabbrica e sentì un lieve profumo di panettone, allora cominciò a cercare quel buon odore e non appena si ritrovò di fronte alla fabbrica sentì un intenso profumo di panettone e si mise a cercare da tutte le parti per trovare quella strana fragranza, finché vide qualcosa di marrone sotto un cespuglio, cercò di toglierlo delicatamente e non appena lo rimosse vide che lì sotto c’era un vero e proprio panettone.

Provò ad assaggiarlo, anche se sapeva che era cresciuto nella terra, poi lo sputò immediatamente e mise un cartello con sopra scritto “Non rimuovere e non toccare, e soprattutto non mangiare!” Allora il giovane andava ogni giorno a controllare se il panettone era sempre tutto intero e una mattina il proprietario della fabbrica passò di lì e vide il dolce in terra, arrivò anche il giovane panettiere e gli raccontò tutta la storia.Allora il padrone decise di riaprire la fabbrica prendendo come simbolo il panettone lievitato nel terreno, in modo tale che tutti potessero vedere la straordinaria trasformazione del dolce da crudo a cotto sotto terra per fare invidia ai pasticceri che producevano i dolciumi allo zenzero di origine nordica.

 


 

Elena Panigada e Sara Intelisano 8 anni

Scuola primaria di San Genesio ed Uniti (PV) 
 

Storia di Natale 

…Durante la notte però, il pasticcere Paolo, ripensandoci, andò sotto la fabbrica per recuperare la pasta madre: non poteva finire davvero così.

Il mattino seguente il padrone della fabbrica si accorse che la pasta madre era un po’ sporca di terra, ma all’interno era ancora intatta. Il titolare era tornato in fabbrica proprio il 25 dicembre perché si ricordò di aver dimenticato lì il panettone per il pranzo di Natale. 

Inaspettatamente si trovò davanti un ragazzo e gli chiese: “Ma tu chi sei?”

Paolo rispose: “Sono il pasticcere dei dolci allo zenzero di origine nordica… Uso le ricette di mia nonna, perché anche io sono di origine nordica.” “Cosa?!” Chiese il padrone meravigliato. 

“Sì, sono qui per aiutarvi a far riaprire la fabbrica.”

“...di origine nordica? Io non mi fido sicuro di uno di origine nordica!” Replicò il signore con sospetto.

Il pasticcere rispose: “Vieni a vedere e ad assaggiare i miei dolci e magari se mi aiuti a cucinare facciamo amicizia”.

Il padrone assaggiò i dolcetti e rimase molto stupito: “Ok, allora facciamo amicizia anche con questa strana pasticceria nordica!”

Si misero subito in cucina insieme e crearono un panettone sperimentale al sapore di dolcetti natalizi speziati allo zenzero. 

Alla fine, il padrone, i suoi dipendenti e il pasticcere Paolo decisero di riaprire la fabbrica perché prevedevano che la nuova creazione sarebbe stata un successo. E così avvenne veramente: i clienti comprarono tutti i panettoni allo zenzero. 

  


  

Matteo Vercesi 8 anni

Scuola primaria di San Genesio ed Uniti (PV) 
 

Il bambino e la cucciola di drago (à la carte)

Un bambino con gli occhiali a specchio di nome Ginocarota aveva una amica molto speciale: una cucciola di drago che si chiamava Gina. 

Un pomeriggio di primavera Ginocarota ebbe l’idea di far assaggiare a Gina una torta alle fragole: “Andiamo in città: ti porto a fare un giro in pasticceria!” Le disse. 

Usciti dal negozio, andarono a mangiare la torta seduti sui rami di un albero. Gina era felicissima!

Due anni dopo Ginocarota e la cucciola di drago decisero di costruire una casa proprio su quell’albero dove avevano mangiato la torta di fragole. Allora con i soldi che aveva il bambino comprarono in un ferramenta i materiali necessari per costruire il loro nascondiglio. 

La casetta era bellissima e vissero felici e contenti.

  


 

Stefano Costa 8 anni

Scuola primaria di San Genesio ed Uniti (PV)
 

Tre tipi strani diventano amici(à la carte)

Il sindaco Germano viveva in una caverna senza fondo. 

Un pomeriggio mangiò una barretta al cioccolato in cinque secondi e corse in comune a fare un discorso:

“Dobbiamo salvare gli animali, perché loro ci servono e sono molto importanti, tutti, dal primo all’ultimo!”

Parlò come sempre molto a suo agio e venne apprezzato. 

Arrivò un bambino di otto anni con gli occhiali a specchio e chiese al sindaco: “Quando farà il prossimo discorso?” 

“Lo farò domani, ora devo andare a casa a guardare la tv.”

Il giorno dopo il sindaco si svegliò molto tardi. All’improvviso apparve fuori dalla caverna un cane (che non era un cane) che non mangiava dalle 2:56 di notte. Abbaiò per cinque volte cercando del cibo. Si intrufolò all’interno e trovò un piatto di arrosto: cercò di prenderlo con la coda, ma il piatto cadde e si ruppe. 

“È delizioso! Complimenti per la cucina!” Disse il cane (che non era un cane) leccandosi i baffi.

Il sindaco lo guardò sbalordito. 

Arrivò anche il bambino con gli occhiali a specchio a cercare il sindaco che era in ritardo per il discorso. 

Da quel giorno i tre divennero amici inseparabili. 
 


 
Scuola primaria Carlo Salvetti III A
 

INVENTO UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

All’improvviso, dalla finestra del secondo piano, qualcuno urlò: “AHHHHHH!” . Nel frattempo, al primo piano, la signora Marisa si stava affacciando al terrazzo per scrollare la tovaglia e, spaventata dal grido, chiese: “Oh,  Mirko,  che succede? Hai visto un fantasma?”  Mirko rispose: “Magari un fantasma mamma…. Sotto il letto c’è un pitone viscido, enorme, sibilante, vivo….. vero!” . La mamma, incredula, gli rispose: “Sei sempre il solito burlone, smetti di fare lo sciocco” e continuò a scrollare la tovaglia dalla quale, oltre alle briciole, caddero alcuni semi di mais che finirono tra l’erba del giardino. In quel momento si sentirono dei tonfi  fortissimi… la casa tremò…. La signora Marisa alzò lo sguardo e vide prima la tigre sul tetto, poi un enorme elefante cavalcato da un indiano arrivare a tutta velocità nel suo giardino. Pensò: “Stai a vedere che Mirko diceva la verità!”.  Mentre pensava così, una buffa scimmietta con il guinzaglio rotto sbucò da un cespuglio. Stava inseguendo l’elefante e quando lo raggiunse saltò sulla spalla dell’indiano che esclamò: “Eccoti Gerald, per fortuna ti sei messo in salvo anche tu!”. La signora Marisa, sempre più confusa, domandò: “Ma che succede qui? Una tigre sul tetto, un elefante e una scimmia in giardino, un pitone…. Oddio …. Mirko …. Il pitone….. svengoooooo!”” e cadde distesa sul terrazzo.  Quando riaprì gli occhi, si ritrovò davanti Mirko con il pitone a tracolla (ormai erano amici) e l’indiano che la sventolava con la tovaglia e intanto le spiegava cosa era successo.  Il suo circo era andato a fuoco, gli animali erano scappati e lui era disperato: già con il Covid gli affari andavano male e ora anche lo spettacolo di quella sera  saltava!!!

Mirko ebbe un’idea e disse: “Mamma che ne dici se gli prestiamo il nostro giardino per fare lo spettacolo?”.

La signora Marisa rispose: “Va bene, ma solo ad una condizione….”. L’indiano la interruppe dispiaciuto : “Sono mortificato, ma non potrò pagarvi l’affitto….. gli affari vanno malissimo!”.  Marisa sorrise e lo rassicurò:”Non intendevo questo, volevo dire che devi promettermi di non maltrattare gli animali e di mantenere ben distanziati gli spettatori!”. 

Lo spettacolo di quella sera fu un successo, come anche la storia di Giulia. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.

Treb, dopo aver letto il racconto chiese a Giulia: “E i chicchi di mais caduti in giardino?”. “ Mmmmm…. Fammi pensare”, rispose lei (ormai era diventata una campionessa di fantasia!) “Ecco, ci sono! La sera dello spettacolo un fulmine improvviso li colpì e li trasformò in gustosi pop-corn che l’indiano offrì a tutti gli spettatori, dopo avergli fatto disinfettare bene le mani”.


 


 

LORENZO GHINELLI

11 ANNI

1°B SCUOLA SECONDARIA DI I° GRADO “G. LANFRANCO” GABICCE MARE 

 

“Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.”

Il felino di colpo scese dalla grondaia, atterrando perfettamente su quattro zampe.

Più in alto, un goffo corvo, mentre volava, prese in pieno il terrazzo di fronte a lui e gracchiò a squarciagola per il dolore, accasciandosi a terra. Un pollo stava cuocendo un tacchino per mangiarlo con i suoi pulcini, quando si accorse di averlo un po' bruciacchiato. Lo scosse fuori dalla finestra, facendo cadere il nero della bruciatura negli occhi della tigre che stava soccorrendo il corvo.

Il pollo scese le scale per scusarsi con la tigre.

In strada, un motociclista sfrecciava come un fulmine impennando e facendo acrobazie per seminare, senza successo, il lupo che lo inseguiva. Il corvo riuscì finalmente a volare in strada e i tre animali corsero in aiuto del centauro. Bloccarono il lupo, il motociclista si salvò e diventò amico della tigre, del pollo e del corvo.

“La sua storia fu un successo. prese dieci. E lo divise a metà con Treb.”

 


 

Istituto Virginia Agnelli

Classe IV B

Insegnante Tutor: Angela Mennea

 

In un tempo rarefatto
Storie di parole e di luce
Abitavano nel vento e nell’aria…
Cantavano su un tappeto fiorito
La sorpresa della fantasia.

 

Questa tigre si stava dirigendo proprio verso di lei per urlarle “SORPRESA!!!”, proprio come quel quadro di Henri Rousseau, che le sembrava di aver visto chissà dove, chissà quando. 

Infatti così fu e trovò questo avvenimento davvero divertente…una magica sorpresa, proprio come ciò che stava accadendo sotto  la tovaglia bianca della sua scrivania: pareva farsi spazio una luce, un bagliore, qualcosa che si accendeva e spegneva ad intermittenza…Giulia era sopraffatta dalla fantasia  che la stava circondando e incontrò lo sguardo sorridente di Treb, soddisfatto che la sua amica avesse finalmente trovato l’ispirazione.

Giulia, come ipnotizzata, aveva infatti seguito la tigre, convinta di vivere sulla sua pelle il racconto che poi avrebbe scritto.

Passò davanti alla camera della mamma, intenta a leggere un libro, passò davanti alla cucina, dove c’era suo papà che preparava la cena, passò davanti alla camera del fratellino che giocava con un pinguino di peluches che cercava di far parlare. Nessuno si accorse di lei. Nessuno vide la tigre, che, con passo mansueto, la guidava lungo il corridoio, lungo il quale stava comparendo una fitta e rigogliosa vegetazione: incredibile, sembrava proprio che il quadro di Rousseau stesse prendendo vita, perché riusciva a vederlo attraverso le parole che una volta aveva sentito…parole nell’aria e nel vento, ognuna con il suo significato, ognuna con il suo colore, ognuna con l’importanza che ogni parola ha…affinchè qualcosa esista.

Erano tante, numerose e fruscianti, le cantavano vicende, le raccontavano storie: ed ecco, in una prima immagine, che compariva davanti a lei la famiglia della tigre e i suoi cuccioli, ed ecco in una seconda immagine che poteva vedere il salto che papà tigre faceva per catturare una preda…ed ecco una terza immagine di un tigrotto che che ruggiva dolcemente davanti ad un pinguino di peluches che parlava e gli raccontava le sue avventure. Poteva vedere la vita nella fantasia delle parole, una vita non tanto distante dalla sua.

Le parole continuavano ad avvolgerla, le suggerivano aneddoti antichi, storie dense e semplici, personaggi selvaggi e liberi.

Si distese sul tappeto di parole di erba e guardò l’inteso azzurro del cielo…e la tigre con lei. Si addormentarono, felici di condividere quel tempo rarefatto e trasparente, quel tempo in cui non esistevano nient’altro che fantasia e parole leggiadre e forti al tempo stesso. ciao tigre ciao foresta di parole leggere leggere ….

Giulia si svegliò e scrisse, scrisse fittamente…decise che la scrittura avrebbe abitato la sua vita…per sempre.

La sua storia fu un successo, prese dieci. E lo divise a metà con Treb.



 


 

DAVIDE GAUDENZI (11 ANNI)

1°B SCUOLA SECONDARIA DI I°GRADO “G. LANFRANCO” GABICCE MARE
 

Si precipitò sul balcone di una vecchietta un po' sorda, che la scambiò per il suo gattino. Accarezzandolo, si accorse che non era il suo gatto, allora tirò un urlo che spaventò addirittura il felino, che si lanciò in strada e fece cadere tre barattoli di riso nel giardino del vicino. Dopo un po' la tigre si ritrovò nel bel mezzo di un incrocio stradale; cercando di schivare le macchine, vide un ragazzo con una maglietta bianca e nera, scambiandolo per una zebra, iniziò a rincorrerlo ma il ragazzo pedalava fortissimo. Quando il ragazzo vide lo zoo si precipitò all’entrata dove presero la tigre e la misero nella gabbia delle tigri.
 
 


 

DEL PRETE CLARISSA (11 ANNI)

I°B SCUOLA SECONDARIA DI I° GRADO “G. LANFRANCO” GABICCE MARE
 

“Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.” 

Il grande animale era scappato dal circo più famoso della città, che si trovava lì vicino. Con lei c’era anche un’altissima giraffa maculata, che camminava nel ben mezzo della strada, fermando tutte le automobili del quartiere. Nel frattempo la signora Biddol aveva scrollato la tovaglia, lasciando cadere una fettina di pane fresco sull’erba del giardino. Il cibo aveva attratto la giraffa verso il palazzo e quando la signora Greis, che abitava al piano di sopra, la vide avvicinarsi, tirò un urlo per lo spavento che assordò tutti i cittadini che facevano una serena passeggiata. Mentre la signora Biddol se ne stava tranquilla a lavare i piatti sporchi di pomodoro, un ragazzo aveva preso la sua bicicletta e legato al guinzaglio il suo cagnolino per fare la passeggiatina quotidiana sul lungomare. Quando il ragazzo vide l’altissima giraffa che lo inseguiva, si spaventò tanto da dover pedalare più veloce. I pedali erano impazziti e il cagnolino cercò di correre più veloce che poteva, ma il suo padroncino era talmente sfrecciante che il guinzaglio gli si ruppe.  La tigre se ne stava immobile sulla grondaia a guardarsi intorno e la giraffa non fece in tempo ad afferrare la fettina di pane, che era già arrivato il clown con il cibo preferito dei due animali e che gli permise di riportarli al circo. Così la signora Biddol, la signora Greis e il ragazzo, insieme a tutte le altre persone della città, si goderono la straordinaria esibizione del clown insieme agli animali. 


 


 

ARON SIMONCELLI (11 ANNI)

1°B SCUOLA SECONDARIA DI I° GRADO “G. LANFRANCO” GABICCE MARE
 

La tigre scese giù dalla grondaia, camminò un po' per strada tutta sola perché spaventava tutti. Io mi feci coraggio e scesi le scale, la presi e la portai in camera mia. Ogni giorno, per ventuno giorni, le insegnai una lettera dell'alfabeto, poi le spiegai i verbi e i nomi, le insegnai a contare, addizionare, sottrarre, moltiplicare e dividere. Le comprai anche i vestiti, e finalmente un giorno la portai con me in piazza per farla conoscere ai miei amici. Tutti rimasero sbalorditi e la presentarono ai loro genitori che poi lo raccontarono ai loro amici e in poco tempo diventò “famosa”. La  tigre, che tutti chiamavano Tigrotta, si comprò una casa e venne assunta allo zoo per insegnare alle tigri e agli altri animali a vivere in comunità, tutti i paesi del mondo si popolarono di animali e Tigrotta divenne il simbolo della mia città.


 


 

Filomena Basso

Classe III elementare Istituto Maestre Pie Venerini
 

Storia di Natale

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali  Della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione Del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolica, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.                                                

Una notte il giovane pasticcere entrò stavolta dalla porta il proprietario lo vide entrare E il giovane lo supplicò di non chiudere ma non lo convinse. Ormai non c’era più speranza, il Natale era giunto e la fabbrica non avrebbe riaperto. Gli abitanti di quel villaggio erano disperati ma il giovane si ricordò della pasta madre, purtroppo non sapeva come usarla, non gli veniva in mente niente. In tanto, mentre il giovane pensava, stava arrivando la mezzanotte e con  la mezzanotte anche il Natale e Babbo Natale. Babbo Natale vide tutti gli abitanti là fuori, al  freddo e decise di scendere. Tutti lo accolsero  con molto piacere, avevano preparato un  divano gigante davanti all’albero in mezzo al villaggio dove di solito Babbo Natale metteva i   regali di tutti. Babbo Natale si domandò perché fossero tutti fuori. Lo chiese e tutti risposero con la felicità di parlare con lui ma allo stesso tempo con tanta tristezza di non poter festeggiare il Natale! Allora Babbo Natale gli diede qualcosa: era una palla gigante di Natale. Al giovane   Venne l’ idea per la pasta madre che aveva nascosto sotto la fabbrica. Andò a prenderla  E fece una scultura di Babbo Natale gigante e passarono un Natale bellissimo e unico.




 

Francesco Liberto, 8 anni

III Istituto Maestre Pie Venerini   
 

La storia del drago e il bambino

A LA CARTE

Un giorno un uomo con un cane (che non era un cane) e che viveva in una caverna senza fondo, camminava senza fretta per arrivare su un’isola circondata da un mare tempestoso e mentre andava ha visto un cucciolo di drago. Lo prese con se e lo portò sulla barca. Il drago mentre riposava beatamente sulla barca sparò fuoco e la barca si incendiò. L’ uomo stava annegando e il cane lo salvò. Il cane se ne andò con il drago. L’uomo sembrava perfettamente a suo agio, eppure aveva molta fame, con il cellulare ordinò un litro di latte. Aspettava la consegna del latte, ma ad aspettare si fece vecchio. Nel frattempo il cane morì ma il drago si ricordò dell’uomo e tornò indietro a salvarlo. Da allora vissero felici e contenti.
 
 


 



Classe 2°D della scuola Sacra Famiglia di Martinengo
 

DUE AMICI E UNA STORIA DA 10 E LODE

Era un sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato, camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.

Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante”.

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

 

Era proprio la tigre descritta dal giornale del paese che aveva letto stamattina il mio papà. Si diceva che questa tigre di Sumatra fosse scappata dallo zoo, mentre il guardiano stava aprendo la gabbia per darle da mangiare. La tigre era finita sulla grondaia perché era stata attirata dal delizioso profumino di salamelle e costine provenire dalla casa di fronte che stava facendo un barbecue per il compleanno del mio migliore amico.

La nonna Teresa, che abitava al secondo piano, ad un certo punto aprì la finestra perché sentì uno strano odore di bruciato provenire da fuori, così  decise di controllare, ma appena aprì la finestra vide una tigre che si stava arrampicando sul terrazzo della casa di fronte, che era proprio quella di suo nipote Alex, così iniziò ad urlare spaventata.

Nel frattempo la signora Maria, del piano di sotto, attirata dalle urla di Teresa, si avvicinò al balcone per scuotere la tovaglia, ma vedendo anche lei la tigre, lasciò cadere involontariamente il suo orologio, che si era da poco tolta per lavare i piatti e lo aveva appoggiato sulla tovaglia ancora da sparecchiare. L’orologio andò a finire nel giardino dell’appartamento a piano terra, ed essendo una bella giornata di sole, uno dei caldi raggi solari andò proprio a colpire il quadrante dell’orologio che creò un riflesso luminoso sulla facciata della mia casa. Ed ecco che in un batter d’occhio il riflesso catturò l’attenzione della tigre che si diresse verso casa mia.

A piano terra, abitava una tenera cagnolina di nome Chloe, che si stava rilassando, ma proprio in quel momento balzò la tigre che cercava in tutti i modi di acchiappare il riflesso, ma involontariamente con i suoi lunghi artigli tagliò il guinzaglio del povero cane che in quel momento si svegliò a causa dei rumori che faceva la tigre. Quando aprì gli occhi si vide davanti la maestosa tigre, così presa dal panico iniziò a scappare, ma non ci crederete, in quel momento passò di lì proprio il postino. 

Il cane pensò di chiedergli aiuto, così  decise di inseguirlo, ma il postino non capì la sua richiesta d’aiuto ed iniziò a pedalare all’impazzata. La tigre pensando che il postino e Chloe stessero giocando ad inseguirsi decise di unirsi anche lei al gioco. Il postino si voltò per vedere se era riuscito a seminare il cane, ma si accorse che c’era anche una tigre all’inseguimento. Mentre pedalava, notò che sui giornali che gli erano rimasti nel cestino c’era una scritta: “TIGRE DI SUMATRA SPARITA DALLO ZOO”, così si diresse verso lo zoo per riportarla, ma mentre la tigre inseguiva il postino riconobbe la strada e decise di svoltare verso la stazione.

Il postino arrivò finalmente allo zoo, ma una volta arrivato si accorse che della tigre non c’era più traccia, ma stava arrivando con la lingua di fuori la cagnolina; solo allora capì che lei stava cercando aiuto. Così riportò a casa la piccola e spaventata Chloe. Questa avventura andò a finire su tutti i giornali e telegiornali della mia città. Della tigre non si seppe più nulla, ma io e gli abitanti della mia città eravamo convinti che la tigre fosse salita sul primo treno merci diretto verso casa sua.

 

Appena Giulia terminò di scrivere, lanciò uno sguardo di felicità a Treb, i due si abbracciarono proprio come fanno due veri amici dopo che hanno realizzato qualcosa di davvero magico.

Giulia il giorno dopo andò a scuola con il cuore pieno di gioia e lesse la storia a tutti i suoi compagni.   

 

La sua storia fu un successo. Prese 10. E lo divise a metà con Treb.

 
 


 

Paolo, 8 anni
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. 

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. 

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte sempre lo stesso giovane andò di nuovo nella fabbrica di panettoni e mise al posto dei panettoni del proprietario i suoi panettoni cambiando il marchio e li mise in una stanza in cui c’erano le tombe dei familiari. La stanza si apriva solo all’una di notte di Natale per dire preghiere per i propri familiari ormai morti. Il giovane uscì dalla fabbrica quando il proprietario entrò e quando tutto triste all’una aprì la porta vide novecentomila panettoni e fu felicissimo. Allora riaprì la fabbrica e diventò la fabbrica più famosa al mondo e con i soldi guadagnati aprì una fabbrica in ogni città al mondo. La metà dei soldi guadagnati li diede ai poveri. Dopo qualche anno capì che in verità era la ricetta del giovane pasticcere e finalmente lo riprese nella sua fabbrica.

 





Mattia Costanzi

III media – IC Capozzi – Roma 
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte il pasticciere, di nascosto, si recò all’ufficio del suo capo per poter seppellire la pasta.

Quello gli sembrava il posto più adatto e onorevole per “l’ultimo dei panettoni”, oltretutto era l’unico luogo della fabbrica senza farina.

Voleva metterlo nel cassetto del padrone quando una voce interruppe quel che stava facendo «Che stai combinando ragazzo?» il pasticciere si girò all’improvviso «C..cc..capo io posso spieg..» «Non c’è nulla da spiegare ragazzo, fuori di qui!!» il padrone lo condusse all’ingresso della fabbrica «Non devi mai più mettere piede in questo luogo!» «Ma signore il pasticciere è la mia vita senza il mio lavoro non sono io» «Mi stai dicendo che sei al verde? Te lo chiedo perché mi sono stufato della tua scenetta» «No signore, anzi, ho una discreta somma in banca ereditata da mia zia» «Ma allora perché lavori?» «Io voglio solo sentirmi utile a qualcosa e praticare il lavoro della mia vita» il padrone rimase molto colpito dalle parole del giovane cuoco.

Dopo questi episodi il pasticciere fece visita alla moglie del padrone e in combutta con lei preparò il suo piano d’azione.

Il giorno dopo al padrone venne servito a colazione un panettone.

Il signore ci rimase di sasso «Cara dove l’hai preso questo? In città tutte le fabbriche sono chiuse» «Ne era rimasto un po’ in dispensa sai com’è…» l’uomo mangiò di gusto tutto il dolce tant’è che disse: «Ne è rimasto un po’?» «No caro quello era l’ultimo».

Ripensò tutto il giorno al gusto che aveva provato e andò a dormire agitatissimo; il giorno dopo, a colazione, il padrone chiese ancora stressatissimo: «C’è ancora panettone?» la moglie rispose «No caro lo sai che in città le fabbriche sono tutte chiuse» «Basta ho preso una decisione!» e con questo uscì di casa.

La moglie scoprì poi che suo marito era subito andato dal pasticciere ad annunciargli che lo voleva come vice dirigente della nuova fabbrica di panettoni.  


 


 
 
Isabella Malaguti

Classe 2^A Scuola secondaria di I grado “Cesare Frassoni” - I.C. “Elvira Castelfranchi” Finale Emilia (Modena)
 

INVENTA UNA STORIA

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Chiaramente, una città non era il posto adatto a una tigre, ci voleva qualcuno che la riportasse in una foresta, o in uno zoo.

Magari il cavaliere che stava scappando dal drago fuggito dalle segrete poteva essere la persona giusta, ma, a vederlo, non sembrava molto valoroso.

O forse poteva essere adatta a svolgere il compito la piratessa che aveva lanciato in mare, dall’oblò della nave, un tesoro, fino a pochi minuti prima avvolto in una coperta.

Dalla finestra di una casa si sentiva una voce, più un urlo in realtà, incessante.

Uscii di casa per aiutare il cavaliere a… beh, a non finire arrostito.

Si proteggeva dalle fiamme del drago grazie al suo scudo, che notai, sembrava incredibilmente resistente. In realtà, a vederlo da vicino, non sembrava cavarsela troppo male.

Aveva uno sguardo molto sicuro, insomma, di uno che sa quello che fa.

Sul momento non sapevo come aiutarlo, poi mi ricordai che qualcuno, non chiedetemi chi, aveva detto che i draghi detestavano l’acqua.

Andai in cantina e presi la cassetta degli attrezzi che avevo visto usare dai miei genitori solo un paio di volte. Per fortuna trovai subito la chiave inglese e così corsi fuori, per svitare i bulloni dell’idrante.

Tutta l’acqua si riversò sul drago, che perse conoscenza.Andai dal cavaliere per assicurarmi che stesse bene.

«Tutto bene? Ma da dove è venuto quel drago?» gli chiesi.

«Sì, niente di rotto o bruciato» mi rispose con un sorriso «comunque grazie davvero, il tuo aiuto è stato prezioso» aggiunse.

«Nessun problema. Sai per caso come potrei liberarmi della tigre su quel tetto?» chiesi, fiduciosa che avesse una soluzione al “problema tigre”.

«No, no, io non mi occupo di tigri, solo di draghi»A quel punto capii perché era così sicuro.

«Senti, io avrei anche un’altra missione. Devo catturare un pirata ricercato. È in questa città. Visto che mi hai aiutato con il drago, ti andrebbe di venire con me?» mi propose il giovane cavaliere.

«Sì, ma certo! Magari può aiutarci con la tigre...» accettai, porgendogli la mano «Giulia. Mi chiamo Giulia.»«Andy, molto piacere.» ricambiò lui.

 

Ci avviammo verso la nave pirata. Raggiungemmo l’interno senza problemi, non c’era nessuno a sorvegliare il ponte. Facemmo irruzione in quella che pensavamo fosse la cabina del capitano e ci trovammo solo una ragazza che piangeva.

Ci avvicinammo, diffidenti, e le chiedemmo cosa avesse. La risposta della ragazza fu questa:  

«Io non volevo, mi sono sbagliata… Non sapevo, giuro, non l’ho fatto apposta… Vi prego, non ditelo a

Wensly…»

Io ed Andy ci guardammo confusi: chi era la ragazza? In che cosa si era sbagliata? E chi era Wensly?

«È… è che non sapevo… non mi avevano detto niente… erano uguali… » continuò lei tra un singhiozzo e l’altro. «Sono morta. Wensly mi ucciderà… »concluse la ragazza, poi tornò a piangere ancor più fragorosamente.

«Non ti preoccupare» tentò di rassicurarla Andy «nessuno ti ucciderà… Vedrai che possiamo aiutarti… »La ragazza alzò il volto tremante, gli occhi lucidi e il labbro inferiore tremolante.

«D-davvero?» chiese, incredula. Poi sobbalzò «Grazie, grazie, grazie!» urlò.  

«Bene», disse «ora vi faccio un riassunto. Un tesoro molto importante è caduto in mare. Ho bisogno di aiuto per recuperarlo».

A quel punto scattai in piedi, felice di sentirmi utile.

«Io sono brava a nuotare! Potrei immergermi in acqua e provare a recuperare il tesoro!» dissi, molto entusiasta.  

«Grandioso» rispose la ragazza. «Seguitemi».

Uscimmo dalla cabina e lei ci condusse fino al ponte, dove disse: «Bene, puoi buttarti».

«Cosa?! Aspet...» Ma non potei finire la frase che la ragazza mi diede una spinta e mi fece cadere dal parapetto in mare. Per fortuna, la marea non era tanto alta e l’acqua era limpida, così riuscii a cercare il tesoro caduto senza troppa difficoltà. Dovetti emergere e poi reimmergermi diverse volte, ma alla fine intravidi sul fondo qualcosa di luccicante.  

La afferrai e risalii in tutta fretta, ansiosa di mostrare alla ragazza pirata il tesoro che avevo trovato.

Andy mi aiutò a risalire a bordo della nave, mentre la ragazza fissava la cosa luccicante che avevo sottratto al fondale marino. A essere sinceri, non avevo ancora guardato bene cosa avevo pescato, ma sembrava una sorta di calice impreziosito con tante gemme.

Mentre tossivo e sputacchiavo acqua, qualcuno mi prese la coppa dalle mani, e mi ritrovai una lama davanti alla faccia.

Sentivo la tensione di Andy diffondersi nell’aria.  

Mi asciugai gli occhi dall’acqua salina e vidi chi mi aveva sottratto il calice: la ragazza pirata.

«Bene, bene, bene » disse in tono strascicato «Guarda un po’ che cosa mi hai ritrovato. Una doppia, anzi tripla vittoria per me!». «Tripla?» chiesi. «Sì, tripla. Wensly non mi ucciderà, ho recuperato il Calice dei Sei mari e due ostaggi. Sì, Jamie Wensly ha giocato bene le sue carte. Jamie Wensly sono io» mi rispose.

Osservai per un impercettibile momento l’espressione di Andy, tanto sbigottita quanto spaventata.

«È meglio che non facciate cose strane, o potreste rimetterci il naso, o un orecchio» continuò Jamie. «Ebbene sì, vi porterò dalle vostre care famiglie e chiederò un ricatto parecchio alto, per voi due intendo».

A quel punto vidi qualcosa di rosso, viola ed enorme che volava proprio verso di noi: era il drago di poco prima!

Iniziò a sputare fuoco e a colpire la nave con la coda, distruggendola.

Stavamo per finire tutti e tre in mare, ma Andy fu svelto, mi agguantò una manica della felpa e si aggrappò a un artiglio del drago, cavalcandolo come un cavallerizzo.

Un “dragherizzo”, si potrebbe dire.  

Mi aiutò a montarlo, e quando mi assicurai che  non fosse tutto un magnifico sogno, guardai il panorama, era bellissimo.

Ci eravamo alzati molto di quota, da quando il drago aveva attaccato la nave.

Per un attimo mi preoccupai di come stesse Jamie, poi mi accorsi che non me ne importava nulla.

 

Il drago atterrò sulla strada di fronte a casa mia, poi si rimise in volo, con Andy ancora sulla groppa, che mi salutò vigorosamente con la mano.

Dopodiché fece scivolare l’estremità di uno spago sulla strada e la tigre, da bravo felino qual era, subito lo rincorse.

Mentre il drago si dirigeva in volo verso lo zoo più vicino, potrei giurare di aver sentito Andy dire: «Ah, i gatti… !».

Alla fine qualcosa la sapeva, sulle tigri.

 

Ero sfinita, ma volevo controllare una cosa, prima di tornarmene a casa.

Mi diressi verso il palazzo dal quale proveniva l’urlo incessante. Salii diverse rampe di scale, fino a ritrovarmi davanti a una porta dalla quale sembrava provenisse l’urlo.Entrai.

Non indovinerete mai chi c’era dentro: Treb.

Nell’esatto istante in cui misi piede nella stanza l’urlo cessò.

«Treb» dissi «eri tu che urlavi?».

«E chi lo sa » mi rispose lui. «Hai visto?» chiese. «Ti è bastato guardare fuori dalla finestra e guarda che storia hai vissuto!» esclamò Treb.

Ed era vero. Era stata una giornata grandiosa, in cui avevo trovato un nuovo amico, Andy, ma anche una nuova nemica, Jamie, e soprattutto, avevo imparato una lezione preziosa: se hai bisogno di vivere un’avventura, o anche solo di inventarla, puoi contare sempre sugli amici come Treb.

 

E l’avventura Giulia l’aveva vissuta davvero: aveva aiutato il ragazzo in bici a seminare il cane che lo inseguiva, aveva recuperato l’oggetto che era caduto alla signora e aveva aiutato il gatto a scendere dalla grondaia.

 

Il lunedì successivo, Giulia andò a scuola e consegnò il racconto.

La storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb. 

 

 


 

M.T. di Calcutta IC Olcese IV A




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 



 
 
Ryan Frisch, 11 anni, classe I media

Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye
 

Anno 2085: una triste storia a lieto fine

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. L’unica persona che la vide si trovava nel condominio di fronte e urlò di paura. Molta gente uscì fuori dalle abitazioni e si guardò attorno confusa perché non capiva il motivo delle urla. Tra essi passava un bambino in bicicletta che vide la tigre alzarsi dalla grondaia e saltare sul marciapiede, dove cominciò a giocare con un cane. Il bambino, molto coraggiosamente, gridò alla tigre di allontanarsi, ma lei iniziò a seguirlo. Allora la gente spaventata provò a chiamare i vigili. Nel frattempo successero altre cose strane: un borseggiatore rubò tutti i telefonini dei presenti, compreso il pupazzo di un bambino, dalle fontane l'acqua uscì con tutta la sua potenza e le auto, che fino a quel momento procedevano ordinatamente sulle strade, cominciarono a scontrarsi l'una contro l'altra. Tutta la città era nel panico e perfino la corrente smise di funzionare. Nessuno si mosse più... 

A questo punto, mentre il cielo diventava tutto nero, si incominicò a pensare che la situazione non poteva essere peggiore. 

Un bambino gridò: “Alieni”!!! 

5 anni dopo

Gli alieni avevano ormai preso possesso della Terra mentre gli uomini erano in preda alla disperazione. I governi di tutto il mondo decisero di unirsi in una organizzazione chiamata "la Torre" perché pensarono che “l’unione faceva la forza”. 

Quasi tutte le piante erano ormai estinte. Gli animali di allevamento come le mucche e le pecore, non potendo più brucare l'erba, venivano nutrite di cibo chimico, con la conseguenza che gli uomini, cibandosi della loro carne, morivano avvelenati. I sintomi erano: perdita di peso, febbre e ferite sulla pelle.  Gli anziani dissero che era ancora peggio di 60 anni prima, quando nel 2020 il virus del Covid-19 aveva distrutto milioni di vite. 

Ora l’insalata biologica valeva quanto l’oro. E se pensate che questo era il peggio vi sbagliate: c’era un gruppo di persone fuorilegge che si chiamava “L’ansia” e che rubava piante di verdura causando molti problemi. I membri di questo gruppo diventavano di giorno in giorno più numerosi e rubavano cose non ancora contaminate per poi cibarsene.

Il mondo era diventato un inferno. 

L’organizzazione dei governi cercava di fare del suo meglio ma il popolo pensava che non servisse a niente. Secondo l'opinione comune, essa non sapeva risolvere i problemi e non era ritenuta un esempio da seguire.  Un giorno si udì una signora dire: “Ci hanno promesso molto, ma non hanno fatto nulla”. Dopo qualche tempo, “La Torre” arrivò alla conclusione che da lì a ventotto mesi non ci sarebbe più stato ossigeno. Allora diede un ordine: tutti gli adulti di ogni nazione sarebbero diventati agricoltori a tempo pieno e se qualcuno de “L’ansia” avesse provato a rubare qualcosa sarebbe stato punito con la morte. 

Ventiquattro mesi dopo “L’ansia” non esisteva più ed era nata una foresta dieci volte piu grande dell’Amazzonia. Gli alieni, dal momento che non erano riusciti a dominare la Terra, se ne andarono misteriosamente come erano arrivati.

L’uomo a sua volta imparò a non distruggere più le foreste come nel passato.

Giulia guardò il foglio e con grande stupore si accorse che il suo racconto era terminato. A scuola la sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.

 
 



 
  
Paolo Paciello, 11 anni

classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye
 

Avventura nell'isola

Su un’isola circondata da mare tempestoso approdò un naufrago chiamato Mario che sbatté la testa su una noce di cocco e svenne; al suo risveglio pensò di essere un cane anche se non lo era: camminava a quattro zampe, abbaiava e sbavava.

In realtà sembrava a suo agio, eppure un po' dentro di sé sapeva che poteva finire nei guai. Si fece buio e Mario non aveva ancora un rifugio, ma a un certo punto più avanti vide una luce, andò verso di essa e trovò un uomo di nome Augusto, che era lì da tempo allo scopo di trovare un tesoro, di cui soltanto lui sapeva l’esistenza.

All’inizio Augusto non voleva fare compagnia a una persona che credeva di essere un cane, però ebbe pietà di lui e gli mostrò il suo rifugio. Gli disse inoltre di stare alla larga da alcune zone perché avrebbe potuto incontrare animali feroci.

Il giorno dopo Augusto lo lasciò andare dicendogli che nei momenti di bisogno poteva tornare da lui, ma in realtà Augusto voleva farselo amico perché pensava: "Mario con la sua ingenuità potrà aiutarmi a trovare il tesoro e poi me lo lascerà tutto".

Un giorno mentre Mario stava passeggiando gli cadde nuovamente sulla testa una noce di cocco e svenne. Al suo risveglio ritornò ad essere una persona normale e si ricordò tutto quello che era successo. 

I giorni passarono finché Mario decise di andare a trovare il suo amico Augusto, fingendo però di essere ancora un cane. Mario infatti era una persona furba e aveva già un piano per tenersi tutto il bottino.

Dopo quasi due mesi di ricerche i due trovarono il tesoro e quando Augusto chiese a Mario se poteva avere tutto l’oro, Mario stette al gioco: aspettò la notte e, non appena Augusto si fu addormentato, lo uccise, gli rubò il tesoro, si fece una zattera con il legno e andò nella città più vicina.

Mario aveva esaudito il desiderio di quando era piccolo: essere un chirurgo ed essere pure una persona molto ricca. Con tutto l’oro che aveva trovato e sottratto ad Augusto visse in una splendida villa e addirittura con un’isola tutta sua per l’estate.

 
 





Giulio Fiastri, 11 anni,

classe I media, Sezione italiana del Lycée International di Saint Germain en Laye

 
La penna magica

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.

Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo e pieno di storie, in ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre arcobalenata di nome Puffy che chiedeva aiuto perché si era persa. Appena Giulia sentì la richiesta di aiuto della tigre, le disse di andarle incontro, perché l’avrebbe potuta aiutare a ritrovare la strada di casa: disponeva infatti di una penna magica che poteva rendere reale tutto ciò che disegnava. 

Puffy non se lo fece ripetere due volte e con un balzo arcobalenato, entrò nella stanza di Giulia e si presentò dicendo di provenire da un posto chiamato Tigroncia. Tigroncia era una città colorata meravigliosamente, dove tutto era possibile, l’unica regola era quella di non oltrepassare le mura perché era facile perdersi e non ritrovare più  la via di ritorno. 

Giulia tirò fuori dal suo astuccio la penna magica e disegnò un teletrasportatore attraverso il quale Puffy sarebbe potuta tornare a casa. Prima però era necessario che Puffy facesse una promessa: quella di non oltrepassare mai più i confini della sua città. Puffy annuì, promise di non disubbidire mai più, salì sul teletrasportatore e partì per la sua città. 

Appena Puffy sparì, Giulia fu attirata da un grido che proveniva dal secondo piano. Si affacciò alla finestra e vide che era soltanto un ragazzo che sventolava la sua bandiera del cuore, perché la squadra per la quale tifava aveva vinto lo scudetto. Vide anche con stupore una strega che scuoteva dalla finestra i suoi mantelli magici dai quali cadevano tele di ragno e gocce di pozioni malefiche che facevano seccare tutte le bellissime piante del giardino. Giulia si affrettò a prendere la sua matita magica e disegnò un bellissimo  orto botanico che all’improvviso sostituì le piante del giardino che erano state bruciate. Anche la strega fu colpita dal bellissimo orto botanico e da quel giorno decise di utilizzare i suoi poteri per creare soltanto meravigliosi giardini. 

Poi, abbassando lo sguardo, Giulia vide un cavaliere che correva all’impazzata inseguito da un enorme drago che sputava fuoco, allora Giulia afferrò la sua penna magica e disegnò un fiume in piena, nel quale il drago cadde e annegò. Il cavaliere, in segno di gratitudine voltandosi verso la ragazza si inchinò, cavalcò verso il castello del drago, dove era imprigionata la principessa e la liberò.  Giulia tornò alla scrivania e grazie al consiglio di Treb si accorse che il suo foglio non era più bianco, perché era riuscita a scriverci un fantastico racconto. 

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 

 
 






Nome:
Gaia

Cognome: De Vincentiis

Età: 7 anni

Scuola: VII Circolo Montessori – IIIB Sede Centrale 

 

STORIA DI NATALE

“I PANTALONI PERSI DELL’OMINO”

Natale si avvcinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte … crebbe un pantalone gigante, fatto di pan di zenzero, di un omino gigante di pan di zenzero che li aveva persi; dal nulla, a cavallo di un drago, sbucò Uracan che aveva preso i pantaloni e voleva ridarglieli ma non lo trovava.

Il pasticciere sa come attirarlo: con altri omini di pan di zenzero! Infatti l’omino gigante di pan di zenzero cadde nella loro trappola e Uracan riuscì a restituirgli i pantaloni e ad aiutarlo; l’omino gigante di pan di zenzero andò a lavoro e tornato a casa lo raccontò ai suoi figli e i suoi figli risero e gli venne la ridarella.

 
 


 
 
 
Gaia De Vincentiis (7 anni)

 
LA DRAGHETTA CHE SVENÌ DORMENDO

Nello spazio angusto tra due case molto alte una cucciola di drago riposava beatamente quando, oh! Svenì…

D’un tratto si svegliò e si ritrovò appesa alla collottola morsa dalla mamma che la stava portando a casa e la cucciola di drago chiese alla mamma “Come ci sono arrivata qui?” e la mamma rispose “Le mamme sanno sempre tutto”

 
 


 


Frida Sia Bundu, 11 anni
Scuola Machiavelli Firenze


À la carte

Nello spazio angusto tra due case molto alte, un cane (che non era un cane) riposava beatamente quando tutto d'un tratto si sentì un rumore, una sorta di ronzio, molto debole però. Il cane si svegliò di soprassalto, si stiracchiò e si incamminò in direzione del suono. Una volta arrivato vide un uomo che a prima vista sembrava una persona più o meno normale. Poi lo guardò meglio e si accorse che gli mancava un pezzo di dito ed era scalzo, non completamente in realtà, aveva delle calze con grandi buchi, così grandi che gli coprivano soltanto le caviglie. Aveva le mani ferite e sembrava intento ad ascoltare qualcosa. Il cane (che non era un cane) si avvicinò piano e lo guardò negli occhi restando in silenzio. Nessuno di loro emetteva un singolo rumore o faceva un singolo movimento, sembravano quasi non respirare. Ero nascosto dietro ad un muro. Stavo immobile anch'io. Trattenevamo il fiato. Cercai di tendere l'orecchio e fu in quel momento che lo udii. Corsi accanto a loro e ci abbracciammo forte. Alzammo lo sguardo e quell'aereo fu l'ultima cosa che vidi. La guerra era finalmente finita.

 
 



 
 
Emma, 10 anni

 La leggenda della caverna

              SENZA FONDO 

Tanto tempo fa, quando non esisteva alcun tipo di paese o città, in una caverna senza fondo, abitavano le creature più strane mai viste sulla terra: una cucciola di drago, un cane (che non era un cane), una foglia che parlava, degli animali cannibali e altre creature fantastiche. Tra questi c'era anche l'uomo. 

Vi starete chiedendo perchè? Be' perchè tanto tempo fa (quando non esisteva alcun tipo di paese o di città), gli uomini erano delle creature “fantastiche” che avevano il compito di raccontare le storie, le leggende o i miti di tutti quei strani personaggi che abitavano nella caverna senza fondo. Gli uomini per questo erano considerati dei re. Ma oggi essi non le raccontano più perchè non ci credono a causa di un fatto terribile, accaduto tanto tempo fa (quando non esisteva alcun tipo di paese o città).

Gli uomini andavano molto d'accordo con gli abitanti della caverna senza fondo. Ma un giorno nacquero due gemelli chiamati “I gemelli reali” perchè le creature della caverna senza fondo decisero di eleggerli  re e  regina.  

 Quella idea, però, fu la peggiore che avessero mai preso. 

I gemelli reali quando ebbero l'eta di 13 anni vennero quindi incoronati reali della caverna senza fondo e da quel momento la vita di tutti non fu più serena, infatti qualcosa andò storto perchè i gemelli decisero che le leggi di quel posto  dovevano essere  infrante e che la loro caverna senza fondo dovesse rimanere senza regole, ne salvarono solo due. La  prima stabiliva che non si dovessero creare altre leggi, la seconda, che era pure peggiore, stabiliva che gli uomini non  potevano più raccontare storie, miti e leggende sulle creature di quella caverna senza fondo!

Questo portò alla rovina di quel posto. 

Dopo moltissimi anni gli abitanti della caverna senza fondo non ricordavano più le proprie origini e anche se alla fine i gemelli erano morti, gli uomini non seppero più come raccontare i miti o le leggende alle altre creature perchè a nessuna delle nuove generazioni veniva insegnato. Quando tutto sembrava perduto, un giorno di primavera nacquero altri due gemelli. Una volta cresciuti i due ragazzi si fecero coraggio e insieme a due loro amici decisero di trovare la fine della caverna per cominciare una vita più serena. Dopo tanto girovagare i gemelli non solo scoprirono la fine di quella caverna, ma capirono anche che non era infinita, anzi in poco tempo arrivarono a scoprire dove terminava, l'unico problema era che appena arrivati alla fine di quel posto, la caverna si richiuse e tutti gli abitanti che vi abitavano rimasero dentro. Gli unici a salvarsi furono i gemelli e i loro due amici. Con il tempo i gemelli e gli altri due ragazzi fecero dei figli creando una nuova civiltà che crescendo divenne un impero, un continente e infine l'intero mondo. Adesso le creature più strane che si siano mai viste sulla terra sono ancora intrappolate in quella  caverna senza fondo ad aspettarci.

Infine vi stareste chiedendo se gli uomini del mondo si siamo ricordati delle creature nella caverna. Rispondendo alla vostra domanda solo una parte degli uomini ci crede, l'altra no e pensa che sia solo una favola, ma chi ci crede  produce libri o film per farci conoscere le storie di “fantasia”, ma per me non lo sono … per me … è tutto vero! E per voi?

 
 



 
 
Claire Leanza, 11 anni

classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye

Il mostro dell'isola

C’era una volta, una signora di nome Lara, che era la proprietaria di un negozio di caramelle. Adorava questo lavoro, adorava vedere i bambini felici quando prendevano anche solo una caramella. Tutto questo succedeva su un'isola circondata da mare tempestoso. Per andarci era necessario prendere un sottomarino. Era infatti impossibile arrivarci con una barca o a nuoto, nel mare si trovavano addirittura gli squali. Dietro il negozio di Lara, c’era la sua casa, una piccola ma confortevole abitazione. 

Un giorno, arrivò un sottomarino, ma da esso anziché dei clienti ne uscì un cane. Allora tutti si chiesero come aveva fatto a prendere un sottomarino se era un cane. Il cane si avvicinò verso un negozio per animali e prese un pacco di crocchette spingendolo con la testa. La cassiera del negozio non credette ai propri occhi vedendo che il cane aveva preso con la bocca una moneta trovata per terra e gliela stava porgendo. Il cane uscì dal negozio, aprì il pacco delle crocchette e incominciò a mangiare. Dopo un po’, se ne andò lasciando il pacco a terra e si diresse al negozio di Lara. Lei, che aveva visto tutta la scena delle crocchette, si avvicinò al cane e incominciò a guardarlo e a chiedersi se aveva già visto questo cane. Lui si girò e se ne tornò al sottomarino. 

Mentre tutti gli abitanti dell’isola si stavano domandando se quello che era accaduto fosse vero, una scossa di terremoto fece vibrare la terra. 

Dopo alcune settimane, il cane tornò, questa volta insieme a un bambino con gli occhiali a specchio. Lara si avvicinò e chiese al bambino se conosceva il cane. Il bambino disse: "Dovete andarvene da questa isola, non siete al sicuro".

La signora, non capendo niente, gli chiese il perché ma il bambino si girò e rientrò nel sottomarino sempre accompagnato dal cane e le disse un'ultima cosa prima di partire: "Non posso dire altro, il maestro me lo impedisce" e se ne andò. 

Tutta l’isola, sorpresa, incominciò a preoccuparsi. Tante persone credevano che si trattasse di uno scherzo ma qualcuno ci credeva talmente da aver paura. Alcuni esitarono ad andarsene, perché una leggenda narrava che se una persona che era nata su quell'isola se ne fosse andata a vivere in un altro posto, poteva succedere qualcosa di terribile, sia alla persona in questione che all’isola. Infatti, mai nessuno era andato a vedere cosa c’era dall’altra parte del mare. 

Dopo che il cane e il bambino se ne andarono, un’altra scossa toccò l’isola. Qualche settimana più tardi, il cane tornò, da solo, con un biglietto in bocca, lo diede alla prima persona che passava. La signora gridò e subito Lara uscì dal suo negozio e andò verso di lei. Questa le diede un biglietto che diceva: "Dovete andarvene, il mostro delle profondità apparirà, non resta molto tempo, state attenti!!!!!!!".

Lara non sapeva cosa pensare, se era vero o falso. Ripensandoci c’era un’altra leggenda che diceva che una volta al secolo, un mostro usciva dal mare e veniva ad appoggiarsi sull’isola, schiacciando così tutte le case e i negozi. Tante persone credevano a questa leggenda. Quasi tutti volevano scappare ma non ne avevano il coraggio. 

Qualche giorno dopo, un signore decise di andarsene per vedere se le leggende erano vere. Tutti si radunarono intorno a lui che disse: "Faccio questo per l’isola, vediamo se la leggenda è vera oppure no, al massimo potremmo tutti scappare dal mostro".

Con queste parole, se ne andò. Dopo qualche metro in sottomarino, successe una cosa terribile, il signore venne aspirato dal mare. Tutti gridarono preoccupati anche perché la leggenda diceva che sarebbe accaduto qualcosa di brutto pure all’isola. 

Lara decise di andare alla biblioteca per vedere se c’era un libro che parlava di queste leggende. Ne trovò uno. Diceva che il mostro era attirato dalle cose zuccherate come pasticcini o caramelle. Diceva pure che il mostro aveva tre teste: una che sputava fuoco, una che sputava acqua e una che sputava aria. Lara non lo disse a nessuno, affinché non si preoccupassero ancora di più. Prese il libro con sé ed incominciò a riflettere. Le venne un’idea: se non si poteva andare passando dal mare si poteva forse andare passando dal cielo, nell’aria, ma come? Questa era la domanda che la tormentava da tanto tempo. Qualche istante dopo, le venne un’idea. Sull’isola c’era un ingegnere di nome Paolo che creava oggetti elettronici. Allora cercò il suo negozio e ci entrò. Paolo disse: "Buongiorno, che posso fare per lei?". "Sì buongiorno, mi piacerebbe lavorare con lei per poter creare un mezzo che possa volare".

Il signore, sorpreso, le disse: "Signora, io non ho mai creato qualcosa del genere, non so come fare, e poi perché lei vuole fare questo, soprattutto in questo momento di paura?" Lara rispose: "Mi sono detta che se non possiamo passare dal mare, forse potremmo passare dall’aria, dal cielo".

Il signore accettò, e insieme a Lara incominciò a lavorare e dopo qualche giorno crearono una gomma da masticare che funzionava in questo modo: si doveva fare una  bolla e poi farla scoppiare e in quel momento la bolla si sarebbe formata di nuovo, ma questa volta tutta intorno alla persona. Lara salì sul tetto del negozio in modo da essere ascoltata da tutti e disse: "Ehi, ascoltatemi tutti!!! Con Paolo, l'ingegnere dell’isola, abbiamo trovato un modo per scappare, ma non siamo sicuri che funzioni, quindi ci occorre un volontario!" Lara incominciò a spiegare l’idea. Una signora si propose: "Si, io vorrei provare!"  "Lei è sicura?" chiese Lara.

"Sì, lo sono".

"Bene".

Lara avanzò, fece la bolla, la scoppiò e due secondi dopo, la signora era all’interno della bolla gigante. Nella bolla era presente un volante per guidare. Dopo qualche metro non successe niente, la signora stava viaggiando normalmente. Tutti, felicissimi, incominciarono a gridare con gioia ma subito successe una cosa che li fece stare muti. Decine di squali stavano girando attorno all’isola. Lara capì che era per colpa del signore che si era fatto aspirare dal mare e che la leggenda era vera. Di conseguenza una cosa terribile doveva accadere alla persona in questione ma pure all’isola. 

Ogni minuto che passava, gli squali salivano di un centimetro, ogni ora, uno squalo spariva e ogni giorno una persona veniva mangiata da uno degli squali. 

Un giorno gli squali sparirono finalmente tutti. Ma ecco riapparire il cane, sempre con un biglietto in bocca che diceva: "Rimane ancora un giorno prima dell’apparizione del mostro delle profondità".

Lara disse: "Ascoltatemi tutti, non ci resta molto tempo, abbiamo tantissime gomme da masticare, dobbiamo sbrigarci, solo una persona per bolla perché altrimenti non ci sarà abbastanza ossigeno".

Tutti incominciarono a fare bolle e lavorarono tutto il giorno. Lara disse: "Ok, restano trentacinque persone, io e l'ingegnere". Lara incominciò a vedere il mostro che saliva lentamente, allora era vero. Tutti erano andati, mancava solo lei, stava incominciando a fare la bolla ma il mostro uscì dal mare lanciando fuoco con una delle tre teste testa, aria con la seconda testa e acqua con la terza. Lara si mise dietro la sua cassa. Subito, il mostro smise e si avvicinò al negozio incominciando ad annusarlo. Dopo un po’ Lara si ricordò che nel libro trovato in biblioteca si diceva che il mostro adorava le caramelle. Lara, impaurita prese una caramella e uscì dal negozio, tese la mano verso il mostro, e gliela diede. Il mostro prese la caramella e la mangiò e fece un rumore dolcissimo e come per magia, si trasformò in un piccolissimo animaletto viola e incominciò a camminare verso il negozio di Lara. Qui incominciò a mangiare tutte le caramelle del negozio poi si avvicinò a Lara e si strofinò sulla sua gamba, come se volesse coccole. Lara mise la sua mano sul suo piccolo dorso peloso. Dopo un po’, l’animaletto incominciò a parlare e disse: "È il momento di dire tutto. Tu, Lara, mi hai fatto diventare un animale buono, è da secoli che sono cattivo, ma con la tua dolcezza sono diventato buono, grazie".

"Sono contenta di averti fatto diventare così buono".

L’animaletto aggiunse: "Ho pure un’altra cosa da dirti. Ti ricordi del cane che andava in sottomarino, questo cane non è un cane ma è il maestro del mare, una persona orribilmente cattiva". Lara capì tutto e l’animaletto le disse pure che il cane non era veramente un cane ma era stato trasformato dal maestro in un bambino. "Ti ricordi che ogni volta che se ne andavano il cane e il bambino una scossa faceva muovere l’isola? Era il maestro che non voleva che si sapesse la verità sul mostro".

Subito Lara trovò con l’animaletto il modo per far tornare tutte le persone del villaggio che se ne erano andate nelle bolle e da quel giorno vissero tutti felici e contenti e il maestro se ne dovette andare per colpa di tutta questa gioia che c’era sull’isola. 

Lara a volte andava dall’altra parte del mare e non aveva più paura delle leggende. 

Tutti vissero felici e contenti in compagnia del cane e del bambino ormai tornati nelle loro vere sembianze.
 
 


 

Miriam Sereni, 12 anni
I.C. Via delle Carine, Giuseppe Mazzini

À LA CART
Un bambino con gli occhiali a specchio
Credi alle fate?

Nello spazio angusto tra due case molto alte, un bambino con gli occhiali a specchio attendeva. Sembrava a suo agio eppure c’era qualcosa che di certo non andava: continuava a disegnare piccoli cerchi sul terreno fangoso, accucciato con le gambe tra le braccia, alzando lo sguardo di tanto in tanto per vedere se la misteriosa persona che aspettava stava arrivando. Quale ragazzino di tredici anni si comporta in questo modo?
- Manfredi?- mormorò una vocina poco distante. Manfredi alzò il capo: una bambina gracile con due grandi occhi azzurri lo osservava.
- Che cosa vuoi Celeste?- chiese infastidito. La sorellina aveva la brutta abitudine di seguirlo dappertutto.
- Voglio vedere le fate- rispose la piccola. Il fratello sgranò gli occhi: perché Celeste sapeva delle fate?
- Non esistono le fate, stupida!- esclamò, cercando di non far passare l’agitazione nel suo tono di voce.
Celeste fu sul punto di scoppiare in lacrime sentendo quelle parole. Ma lei le aveva viste! Tre creaturine luccicanti dalla figura vagamente umana che volteggiavano intorno alla testa di Manfredi, quel freddo mercoledì di poche settimane prima. - Vattene via - disse ancora il ragazzino, tornando ai suoi cerchi sul fango - Vattene via, prima che...-
Troppo tardi: un raggio della luna appena sorta colpì gli occhiali semitrasparenti del ragazzino, illuminando il terreno.
Minuscoli esseri danzanti cominciarono a spuntare dalle figure che Manfredi aveva ai suoi piedi.
Celeste osservava rapita, mentre il fratello corrucciava lentamente la fronte, per niente contento della situazione.
- Cantafiabe? - chiamò una vocina del gruppo. Era una femmina, vestita elegantemente di petali azzurri, la testolina coperta da un fiore campanula.
Manfredi tese la mano ma l’attenzione dell’esserino si rivolse alla sorellina. Un grande sorriso, per quanto fosse possibile
visto le dimensioni del viso, illuminò la fata.
- E questa? È la tua Celeste, Cantafiabe?- chiese.
Manfredi grugnì in risposta mentre si alzava, scuotendosi i pantaloni dalla terra. Le fatine schizzarono da tutte le parti per evitare i getti di sudiciume. Celeste ridacchiò.
- Ora torna a casa, però - sbottò Manfredi.
- Perché? È da tanto che volevamo conoscerla- disse la fata, che
si chiamava Nuvola. Il ragazzino alzò gli occhi al cielo.
- Va bene- disse, poi si rivolse alla bambina - Prometti che ti comporterai bene e che non dirai nulla a nessunoCeleste annuì energicamente.
- Prometto - disse.
Gli esseri fatati cominciarono a unirsi in gruppi e a spostarsi, seguiti dal ragazzino che teneva ben stretta in una mano la sorella. - Perché conosci le fate? - chiese la bambina mentre camminavano.
- Gli racconto delle storie. Storie nuove, storie felici- rispose
Manfredi che si era notevolmente addolcito.
- E perché hanno bisogno di storie? -
- Per creare nuovi sogni per i bambini. Devono essere storie belle perché così i bambini possono possedere un bel ricordo -
- E a cosa servono i bei ricordi? -
Manfredi sbuffò, senza sapere bene se per l’irritazione o il divertimento.
- Le fate dicono che le persone in possesso anche di un solo ricordo veramente felice, tendono a fare meno del male agli altri - disse.
Celeste era sicuramente sul punto di fare un’altra domanda ma una fatina molto piccola rispetto alle altre le svolazzò davanti al naso. Aveva una carnagione scura e un abitino verde salvia.
Subito un’altra creatura, questa volta maschio, si unì a lei e cominciarono a danzare un valzer, facendo ridere la bambina.
- Queste sono fate molto giovani- spiegò Manfredi - Si chiamano Campanello ed Edera. Di solito si prendono cura dei neonati -.
- Dormi, dormi, neonatino, tra le tue morbide coperte di lino.
Grandi occhi di nera pece, sogna in grande, sogna pace! - cantilenarono i due.
- Cantafiabe? - chiamò la fata che per prima aveva parlato.
- Siamo arrivati, Nuvola? - chiese Manfredi.
La fatina annuì. Il ragazzino guardò la sorella. - Ora chiudi gli occhi - disse. La bambina obbedì e, quando ebbe il permesso di riaprirli, rimase a bocca aperta: si trovavano in mezzo ad un cerchio di alberi, con la luna e le stelle che illuminavano le goccioline sulle foglie. Uno spettacolo così era impossibile trovarlo dentro una città. Le fate fecero crescere tanti funghetti e germogli su cui si posavano delicatamente, lasciando un buco con un sasso muschioso, in modo che
Manfredi si potesse accomodare. La sorellina si accucciò accanto al fratello e rimase a guardarlo mentre tirava fuori da sotto la maglietta un’agenda. Una fata maschio, vestita di petali di rosa, porse al ragazzino una penna, volteggiando in aria come un ubriaco, tanto era pesante per lui l’oggetto.
Tutti, compresa Celeste, attendevano le parole del Cantafiabe.
- “C’era un volta...- cominciò roco. Tuttavia si interruppe, lanciando un’occhiata nervosa alla bambina che, con uno sguardo innocente, aspettava la storia.
- Non ho mai raccontato una storia... davanti a mia sorella - ammise il ragazzo con imbarazzo.
Tutte le fate si misero a sghignazzare, facendolo arrossire.
Nuvola dondolò la testa divertita.
- Come ce la fai difficile, Cantafiabe - mormorò. Si librò nell’aria, avvicinandosi alla bambina. I suoi piedini sfiorarono il naso di
Celeste che starnutì.
Improvvisamente la corporatura della piccola cominciò a mutare: il viso rimpicciolì velocemente, apparendo per un attimo sproporzionato al resto che però non tardò a mutare.
Dopo pochi secondi, una Celeste decisamente più piccola ondeggiava su due alucce piumate. Manfredi scoppiò in una lunga risata, facendo volare via la mini-sorellina. Due fate presero la bambina per mano e la condussero su un funghetto.
- Così va bene, Cantafiabe? - chiese Nuvola con un pizzico di ironia.
- Guarda che sei tu che l’hai voluta qui- ribatte l’altro.
Scosse la testa e cominciò a raccontare:
Né tanto né poco tempo fa, un bambino di nome Josh, camminava per delle campagne né poco né tanto lontane. Dove andava? E che ne sapeva lui. Insomma, chi sa veramente in che direzione sta andando?
Ma Josh si trovava in una situazione davvero bizzarra: quella mattina si era svegliato con un bigliettino accanto al letto.
“Vai alla spiaggia di Sant Freek” c’era scritto. E lui aveva obbedito. Non perché era stupido, ma perché mai qualcuno gli aveva fatto del male e quindi era inconsapevole del possibile pericolo.
Camminava fischiettando una melodia allegra. In lontananza intravide il verde della spiaggia libera e si mise a correre.
Si sfilò le scarpe e si fece largo tra le macchie di vegetazione. Il vento fischiava e il bambino sentì qualcosa alle sue spalle. Si voltò velocemente e scorse qualcosa in mezzo alle fitte piante.
No, non in mezzo, ma sulle piante. Parevano schiene di cavalli al galoppo lungo i cespugli, Josh ne poteva sentire i nitriti. Poco a poco, altre figure comparvero: dai fauni ai centauri, tutte le creature che il bambino tanto sognava cominciarono a danzare.
Erano turbinii di sabbia, onde del mare e soffi di vento.
Così come erano apparse, svanirono.
- Sei venuto - disse una voce alle sue spalle.Josh si voltò e vide suo nonno Tom davanti al mare, con le braccia magre incrociate dietro alla schiena e un sorriso che illuminava il volto rugoso.
Il bambino gli si avvicinò.
- Ti avevo promesso i tuoi sogni, vero piccolo Josh? - chiese il vecchio, accarezzando la testa del nipote.
- Tu mantieni sempre le tue promesse - mormorò questi.
- Non sapevi che ero io - disse ancora nonno Tom.
- Mi sono fidato - fece il bambino stringendosi al suo fianco.
Il nonno sorrise.
- La fiducia è un dono - bisbigliò - Bisogna sapere a chi donarlo. Mi prometti che starai attento, piccolo Josh? -
- Te lo prometto, nonno - rispose l’altro.
Mentre le creature fantastiche scomparivano tra le onde, il sole tramontò.
Celeste dormiva già da un pezzo, quando Manfredi finì la storia. Le fate la sollevarono per trasportarla fino a casa.
Quando ritornarono nella loro cameretta, Manfredi, che aveva la bambina alle sue dimensioni normali tra le braccia, la poggiò delicatamente sul lettino.
- Manfredi - lo chiamò assonnata.
- Cosa c’è? - chiese in un sussurro il fratello.
- Cosa ti danno le fate per le tue storie? - domandò Celeste.
- È un segreto - rispose Manfredi.
Stava per allontanarsi ma si fermò.- Credi nelle fate, Celeste? - chiese.
La sorella non rispose.
Manfredi scrollò le spalle e si diresse verso la finestra. Salì sul parapetto senza indugi. Sorrise alla luna ormai alta.
Saltò giù. Dopo un attimo schizzò in alto e cominciò a camminare per aria, facendo acrobazie e salti. Era questo che le fate gli regalavano ogni notte.
La felicità dei bambini per il più grande sogno dell’umanità.
A Manfredi era parso un buon accordo. Intanto Celeste era già a un passo dal sonno.
“Credi nelle fate?” - gli aveva chiesto il fratello.
- Sì - mormorò la bambina al buio.
 
 
 


 
 
Luca Ascani, 10 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye
 
Salviamo il panettone!
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l'azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.
Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.
Durante la notte, che sarebbe stata l'ultima notte di Natale per la fabbrica, un Consiglio di spiriti si riunì. Tra essi c'era anche lo Spirito Natalizio che disse:
- Ecco svanita la nostra ultima speranza di salvare questo dolce, che ha reso contenta così tanta gente...
Un altro spirito gli rispose:
- È vero. È troppo tardi ormai per cambiare le cose...
Uno spirito ascoltando queste parole si arrabbiò:
- Possiamo ancora farlo!
- Ma come?
- È semplice! Dobbiamo trovare la persona adatta. Questa persona dovrà ritrovare la pasta madre e riavviare la fabbricazione del panettone in un altro posto.
- Ma sarà difficile!
- Ce la faremo. Ne sono sicuro.
Dopo una notte molto impegnativa trascorsa a osservare le azioni di tutti gli uomini della Terra, gli spiriti trovarono la persona adatta: era un giovane studente di pasticceria, che sognava di avere un'azienda di panettoni tutta sua. Si chiamava Giovanni, aveva una grande passione per i dolci, e stava per vivere un'avventura che non si aspettava affatto...
Il Consiglio degli spiriti decise di mandare a casa di Giovanni il suo membro più rappresentativo in quel periodo dell'anno: lo Spirito Natalizio. Egli entrò nella camera di Giovanni e lo svegliò di soprassalto. Gli spiegò che era stato scelto per salvare il panettone di Natale e che era il solo a poter rimediare alla situazione. All'inizio, Giovanni pensò che si trattasse di un sogno, ma dopo si rese conto che era tutto vero, e ne fu molto contento. Ma dovevano agire velocemente se volevano salvare il panettone prima del Natale.
Lo Spirito Natalizio disse a Giovanni:
- Forza, andiamo a cercare la pasta madre!
E così partirono di corsa, e finalmente, dopo qualche ricerca, la trovarono: era ancora viva!
Gli spiriti dissero a Giovanni:
- Vai, corri alla tua fabbrica e salva il panettone!
Giovanni rispose:
- Quale fabbrica? Io non ho nessuna fabbrica e per costruirla occorreranno mesi!
Allora gli spiriti gli risposero:
- Siamo degli spiriti, no? Siamo magici! Ecco una fabbrica tutta per te!
E dal nulla comparve una fabbrica nuova di zecca.
Fu così che Giovanni salvò il panettone e tutti trascorsero un bellissimo Natale.
 
 
 



 
Joachim Galland, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye

Il mistero della tigre
Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…
In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.
Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”
Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era un bellissimo esemplare di tigre delle nevi bianca e nera. L'animale, saltando dalla grondaia, fece spaventare la signora Marisa del secondo piano, che urlò:
«Mamma mia! C'è una tigre sul mio balcone!».
Poi la tigre scese con un balzo e si mise a inseguire un ragazzo in bicicletta. Improvvisamente, arrivò un branco di cani che aiutò il ragazzo a fuggire ostacolando la tigre. Dopo avere combattuto contro i cani, la tigre se ne andò a nascondersi nella foresta vicino alla città. Nel frattempo la signora Marisa aveva chiamato la polizia:
«Aiuto polizia ! C'è una tigre bianca in città! Era sul mio balcone pochi minuti fa!»
«Signora, ne è proprio sicura? Le tigri bianche si trovano solo in Siberia, rispose l'agente».
«Certo che ne sono sicura! Sarà fuggita da uno zoo o un circo! È andata nella foresta!»
«Stia tranquilla signora, ce ne occupiamo noi!»
Dopo avere detto questa frase l'agente riattaccò e avvertì gli altri poliziotti, che partirono in missione. Dopo ore e ore di ricerche, trovarono la tigre rintanata in una piccola grotta e decisero di riportarla al circo, che nel frattempo aveva annunciato di aver perso una tigre. Ma quando gli agenti furono sul punto di catturare l'animale, un bambino arrivò di corsa annunciando di aver visto al telegiornale che la tigrescomparsa era di colore arancione e non bianca e nera come quella che si trovava davanti a loro. I poliziotti a quelle parole decisero quindi di lasciar tranquilla la tigre, ma da quella volta la signora Marisa non tornò più nella foresta.
Giulia guardò il foglio e si accorse di essere riuscita a svolgere il compito grazie all'aiuto di Treb. La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 




Irina Balmès Lichtner, 11 anni
classe I media, Lycée International Saint Germain en Laye

À La Carte

In una caverna senza fondo
Nello spazio angusto tra due case molto alte
Su rami di un albero
Tre metri sotto la coltre di neve
Su un’isola circondata da mare tempestoso

Il sindaco
Un bambino con gli occhiali a specchio
Un cane (che non era un cane)
La proprietaria di un negozio di caramelle
Una cucciola di drago

Riposava beatamente, quando
Camminava senza fretta, finché
Aspettava la consegna del latte, ma all’improvviso
Sembrava perfettamente a suo agio, eppure
Da tempo non faceva un pasto completo. Tutto d’un tratto

Il mistero del negozio di caramelle
Sui rami di un albero, la proprietaria di un negozio di caramelle riposava beatamente, quando un gatto le saltò sulla pancia e la svegliò… Vi starete sicuramente chiedendo come mai una giovane donna, proprietaria di un negozio di caramelle, si sia ritrovata a dormire su un albero, ma non vi preoccupate vi spiegherò tutto!...
Gabriele, un bambino di dodici anni, abitava nel palazzo dove tanto tempo prima esisteva il negozio di caramelle.
Questo negozio, che non vendeva caramelle ma pozioni magiche, era stato chiuso trentasette anni prima quando la figlia della proprietaria, Sofia, era scomparsa. Molte persone erano convinte che fosse morta a causa della sua pazzia, infatti Sofia diceva di vedere mostri, fate e altre creature.
Il padre Eduard, uno scienziato molto noto, era morto da anni. La causa della sua morte era ancora incerta. Si diceva che avesse sbattuto contro un albero perché era troppo concentrato a guardare intorno a sé. La madre Elisabetta, proprietaria del negozio prima di lei, era stata portata in una casa per anziani e nessuno ne aveva avuto più notizie.
Gabriele era molto curioso e aveva molta immaginazione, si era trasferito lì con la sua famigliavuna settimana prima e già voleva sapere cosa fosse successo veramente.
Il lunedì mattina, dopo la colazione, Gabriele si vestì per andare a scuola. Era pronto, ma visto che faceva molto freddo, andò a scaldarsi vicino al camino. Sul mobile c’era un grande specchio con una cornice dorata, delle candele, un vaso con i fiori e delle stelle di Natale.
Vicino al camino c’era un enorme albero di Natale ben decorato.
Dopo essersi riscaldato, Gabriele si mise a guardare intorno a sé per vedere dove fosse Marta, la sua gemella. Marta e Gabriele erano molto uniti anche se alcune volte litigavano tanto e potevano non parlarsi per una settimana anche solo a causa di un cioccolatino rubato…
Marta era molto più intelligente di Gabriele, lui era spesso tra le nuvole!Gabriele diede ancora uno sguardo intorno e vide che non c’era nessuno, allora tirò fuori dalla sua tasca un biscotto che chiaramente non poteva mangiare dopo essersi lavato i denti! Ma approfittò che sua sorella si stesse facendo la doccia per non essere visto. Marta l’avrebbe sicuramente detto ai genitori!
Non appena ebbe messo in bocca il biscotto, Marta apparve all’improvviso e disse: “Lo sai che lo posso riferire alla mamma e che lei ti obbligherà ad andare a scuola fino ai tuoi diciotto anni?!”
Gabriele sbuffò e le mise in mano il biscotto, come molte mattine era successo. Ma quella mattina non era come le altre perché era il primo giorno nella nuova scuola e Marta e Gabriele dovevano essere impeccabili. Si misero le scarpe e andarono a scuola in skateboard. La mamma non poteva accompagnarli, era un medico ed era molto impegnata con il suo lavoro; neanche il padre poteva, infatti faceva il pompiere e usciva di casa molto presto la mattina. Ma la sera stavano sempre insieme e si riunivano tutti a vedere un film sul divano vicino al camino.
La mattina dopo, Gabriele si svegliò di colpo tutto sudato: aveva avuto un incubo ma si ricordava solo una scena, lui e Marta su un albero con una signora di circa quarantacinque anni!
Questa scena non era brutta, ma Gabriele era spaventato…
Quando andò a far colazione vide sua madre Coralie e sua sorella Marta che stavano parlando con un tono preoccupante. Marta stava raccontando il suo sogno ed era lo stesso di quello fatto da Gabriele! Erano tutti e due molto sorpresi ma Coralie disse che era normale perché erano gemelli.
Il sabato successivo tutto cominciò…
Marta e Gabriele si svegliarono e dopo la colazione andarono a cercare dei libri da leggere nella libreria di legno del salone, alcuni erano vecchi e rovinati. Ci trovarono solo romanzi d'avventura e racconti gialli... Marta prese un libro dalla copertina rigida e all’improvviso sotto i loro piedi si formò un tunnel. Caddero e si ritrovarono in uno studio con tanti libri, un tavolo da lavoro e una scrivania. Tutto intorno a loro era pieno di polvere e di ragnatele. Sul tavolo c'erano tanti barattoli con insetti morti, polvere, esperimenti strani... Sicuramente erano stati fatti da Eduard, il marito della precedente proprietaria, alcuni anni prima.
Intanto che Marta osservava i libri, Gabriele aprì una porta che conduceva fino al negozio.
Faceva buio perché tutte le finestre erano coperte da giornali.
“Gabriele vieni! Ho trovato qualcosa che può essere interessante!!! Wowww che belli questi disegni!!!” - disse Marta tutta agitata.
“Arrivo, arrivo!!! Aspettaaaaaaaaa!!!!” - si arrabbiò Gabriele
“Guarda tutti questi disegni! Che belle creature! Hai visto!??!!??” esclamò Marta stupefatta.
A un tratto il libro si sfogliò velocemente da sé ed uscirono delle scintille. Poi si sentirono delle voci di creature strane che urlavano molto forte come se i gemelli avessero commesso un errore grave.
Il giorno dopo, i gemelli decisero di andare a cercare Elisabetta, la proprietaria del negozio, per saperne di più. Si recarono quindi alla casa per anziani più vicina e la incontrarono. Lei raccontò della scomparsa di sua figlia e disse che avrebbe voluto rivederla prima di morire perché ormai era molto anziana.
Marta e Gabriele tornarono a casa e sull’autobus Gabriele disse:
“Andiamo a cercare Sofia in modo che possa essere presente domani al compleanno di Elisabetta”
“Non ce la faremo mai per domani e inoltre non abbiamo neanche un indizio di dove possa essere! È impossibile!” - disse Marta rattristata.
Arrivati a casa, Gabriele corse alla libreria e cercò di corsa il modo di tornare nel misterioso studio.
“Marta, come hai fatto ad attivare il tunnel??! Dai dimmi!” - si arrabbiò Gabriele.
“Non lo so ho preso questo libro”- spiegò Marta estraendolo dalla libreria, “E aaaaaaaaaaaahhh!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
“Ma sei matta! Mi è preso un colpo!” - disse sorpreso Gabriele. Cercarono in tutti i libri dello studio, ne mancavano pochi da sfogliare ma i gemelli non avevano più speranze. Erano seduti su vecchie sedie a rotelle. Marta si alzò e aprì uno di questi ultimi libri. Prese un piccolo libro d'oro, su cui era scritto “Diario”. Lo sfogliò e vide una foto di Elisabetta e di Sofia con un cuore disegnato sopra. Era il diario di Eduard!
Lo sfogliò ancora e lesse: ”13 febbraio 1987 Sofia rapita dagli elfi impazziti”. Sono preoccupato perché la mia famiglia è in grande pericolo, sento delle voci strane e non riesco più a concentrarmi!” Dopo non c’era scritto più niente: sicuramente Eduard nel frattempo era morto.
Era un'importante scoperta, ora era necessario cercare negli altri libri dove fosse il paese degli elfi. Dopo aver sfogliato pagine e pagine lo trovarono ma non sapevano come arrivarci.
All’improvviso Gabriele disse: “So come ci possiamo andare, stanotte in sogno ho visto Edouard con un animale magico. Per chiamarlo dobbiamo pronunciare questa frase in latino” disse Gabriele senza esitazione.
Recitò la frase e un vento assurdo fece cadere i gemelli. Quando riaprirono gli occhi, videro un enorme Phoenix che toccava con la testa il soffitto!
Marta aveva il sorriso fino alle orecchie e Gabriele la bocca aperta fino alla pancia!
Salirono sulla schiena dell'uccello e andarono nel paese degli elfi. Per andarci dovettero attraversare migliaia di posti.
Il paese era bellissimo, sembrava che le creature non fossero più impazzite, sicuramente Sofia le aveva curate. I gemelli chiesero agli elfi dove fosse Sofia. Loro risposero: “La regina?” E proprio in quel momento una donna apparve: era Sofia.
Dopo aver tanto parlato e aver spiegato tutto a ognuno, Sofia fu d’accordo di andare a trovare la sua mamma. Allora partirono tutti sulla schiena della Phoenix.
Ma un temporale arrivò e caddero tutti sui rami di un albero come svenuti. All’improvviso Sofia, che dormiva beatamente, fu svegliata da un gatto che le saltò sulla pancia e vide accanto a sé i gemelli già svegli. L’uccello invece non c’era più.
I gemelli, Sofia e il gatto - che Marta adorava - andarono in autobus fino alla casa per anziani.
Questo fu un momento magico, in cui tutti si abbracciarono, felici finalmente di ritrovarsi.
Il week-end dopo, la famiglia dei gemelli, Elisabetta e Sofia cenarono insieme e festeggiarono tutti contenti.
 
 
 



Giuseppe Albano, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye

La Storia nella Storia
Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…
In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come
dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”
Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:
Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era feroce e in cerca di qualcosa da mangiare. Ad un certo punto, vide un ragazzo in bicicletta che trasportava cibo (poteva essere il ragazzo di Deliveroo o di Uber Eats) e che correva all’impazzata per andare a fare le consegne. La tigre sentì l’odore di cibo e si mise a rincorrerlo. Il ragazzo, che si chiamava Greg pedalò ancora più veloce e cominciò a zigzagare per non farsi raggiungere dalla tigre. Dopo una grande pedalata era davvero stanco e trovò una grande siepe in cui nascondersi. La tigre, arrivata alla siepe, disse tra sé e sé: “Il cibo è scomparso non vale più la pena di continuare, tanto ormai il ragazzo è sparito e il mio pasto con lui”.
Intanto Greg, che si trovava ancora nella siepe, a un certo punto vide una porta. La attraversò e si trovò in un mondo completamente diverso dal suo, così iniziò ad esplorarlo per capire dov’era. Vide delle giraffe, dei serpenti, degli elefanti, degli ippopotami e addirittura dei leoni. Capì allora che si trovava nella giungla. Scoprì poi che non c’erano solo animali feroci ma anche tribù molto pericolose come quella degli ipnotizzatori che solo guardandoli negli occhi ti ipnotizzavano e solo un antidoto molto raro poteva salvarti. Proprio quest’ultima tribù lo rincorse, Greg allora scappò fino ad arrivare a un nascondiglio, riuscendo così a sfuggire agli ipnotizzatori. Sapeva però che sarebbero tornati a cercarlo e che aveva solo poco tempo per riposarsi. Così fece e quando ebbe ritrovato le forze si rimise in cammino, ma dopo pochi metri incontrò un cobra inferocito; Greg allora iniziò a indietreggiare senza mai togliere lo sguardo dal nemico altrimenti lo avrebbe mangiato vivo ma, quando stava per cedere, alle sue spalle arrivò una ragazza che tagliò la testa alcobra. La ragazza si presentò, il suo nome era Sarah e si trovava lì da ben dieci anni; disse che era entrata in questo mondo a causa di una siepe magica. Anche Greg si presentò parlandole della stessa siepe magica. Sarah allora disse: “Andiamo al mio riparo cosicché tu possa nutrirti e riposare”.
Il giorno dopo, Greg, pieno di energie, spiegò a Sarah il suo obiettivo: ritrovare la siepe magica per poter uscire da quel mondo a lui sconosciuto.
Ad un certo punto, mentre parlavano, videro delle scimmie su delle moto che venivano loro incontro. I due capirono subito che quelle scimmie volevano attaccarli e iniziarono a correre. Sarah spiegò che in questa giungla gli animali avevano dei mezzi di trasporto per spostarsi o per catturare le loro prede. Disse anche che tutti questi mezzi di trasporto erano forniti dal capo degli animali: Provolone.
Egli aveva il potere di fornire mezzi di trasporto agli animali ma anche di comandarli grazie a un amuleto. Provolone lo aveva rubato ad una statua nel bel mezzo della giungla, quella statua era chiamata “L’aquila feroce” e se si fosse rimesso l’amuleto nel becco dell'aquila avrebbe permesso a tutti gli animali di ridiventare liberi e ai ragazzi di ritornare nel loro mondo grazie alla siepe magica. Sarah sapeva che senza tutto ciò non sarebbero mai potuti ritornare nel loro mondo.
In quel momento però il problema era un altro: sconfiggere le scimmie. Greg domandò come avrebbero fatto così Sarah tirò fuori due spade di ferro, ne diede
una a Greg dicendo: “Per poter combattere devi ballare. Fai come me!” e iniziò a ballare. Greg la seguì e i due riuscirono ad abbattere tutte le scimmie.
Dopo essersi messi al riparo, Greg disse: “Adesso il nostro obiettivo è di sconfiggere Provolone e tornare nel nostro mondo.”
Così si misero in cammino dirigendosi verso la zona dove abitava Provolone. Arrivati, si accorsero che all’entrata c’erano due lupi armati fino ai denti. Sarah sapeva che combatterli sarebbe stato troppo pericoloso allora tirò fuori dalla sua saccoccia una grande bistecca che lanciò in un angolo. I lupi sfrecciarono verso la bistecca lasciando l’entrata libera. Sarah e Greg entrarono e si diressero verso la sala principale. Lì videro Provolone che si stava vantando del suo potere. I due ragazzi, di soppiatto, si avvicinarono al trono e quando Provolone fu distratto dal rumore dei lupi-guardia che mangiavano, Greg gli strappò l’amuleto. Da qui scoppiò il finimondo: Greg e Sarah si misero a correre verso la statua “dell’aquila feroce” inseguiti da Provolone insieme alle sue truppe. Arrivati alla statua Greg iniziò ad arrampicarsi su di essa. Provolone richiamò tutti i volatili e tutti i rettili capaci di arrampicarsi per dare fastidio a Greg e farlo cadere ma senza successo. Greg fu più veloce e riuscì ad inserire l’amuleto nel becco dell’aquila.Immediatamente la terra iniziò a tremare e Provolone diventò una zanzara che fu
mangiata da un’iguana. Greg scese dalla statua e si diresse, insieme a Sarah, verso la siepe magica. Salutarono questo mondo e i suoi abitanti ritornati liberi. Entrarono nella siepe e usciti da lì si ritrovarono nella loro realtà. Si salutarono ma si promisero di rivedersi ancora. Greg tornò a fare il suo lavoro, anche se sempre con qualche piccolo imprevisto.
“Finalmente ho finito, grazie Treb per il tuo prezioso aiuto” - esclamò Greg.
A scuola la sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 
 
 



 
Giulia Chillé, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International di Saint Germain en Laye

L’isola segreta

Capitolo 1

Stavano viaggiando sul get privato da almeno due ore, quando finalmente cominciarono a scorgere la terra attraverso le nuvole. Il generale Ippan era impaziente di arrivare sull’isola e vederla con i suoi stessi occhi. I suoi amici gli avevano assicurato che in quel posto i fossili erano stati conservati molto bene e che avrebbe trovato pane per i loro denti. Appena atterrarono, Ippan si precipitò nella piccola caserma dove lo aspettavano i suoi soldati.
Dopo aver fatto qualche provvista, tutti insieme si spinsero verso la foresta di palme, in direzione del villaggio di indigeni. A mano a mano che il gruppetto avanzava, la foresta si faceva sempre più fitta e buia. Un tucano spiccò il volo da un ramo, facendo sussultare i soldati. Arrivarono nei pressi del villaggio che si estendeva per un paio di chilometri.
All’entrata, li accolse una vecchia indigena con gli occhi a mandorla e il viso rugoso; era vestita con pelli che le ricadevano malamenta sul corpo asciutto. La vecchia accennò al gruppetto di sedersi intorno a un fuocherello così che potesse loro raccontare la leggenda dell’isola.
«Signori, tanti anni fa, su quest’isola, un monaco si rinchiuse nel centro della caverna e dedicò la sua vita al bene, pregando per le povere anime». Spiegò la vecchietta.
A quelle parole Ippan si fece più attento.
«Si dice che questo monaco avesse creato nel centro della grotta un portale che permetteva di andare in un altro mondo dove i draghi potevano coesistere con gli umani in pace e armonia. Alcuni ritenendo che questo impossibile, suppongono che sia la Perla de Shikon a mantenere la pace». Incuriosito, il generale domandò: «Ma cosa sarebbe questa Perla de Shikon?» La vecchia avanzò e, come presa da una gioia infinita, rispose: «La Perla de Shikon equilibra il Male e il Bene del mondo».
Detto ciò ella si alzò pigramente ed entrò in una delle capannine in legno. Dopo di che, Ippan si diresse verso l’elicottero senza una parola e fece cenno agli altri di seguirlo.

Capitolo 2

In un quartiere residenziale di Londra, una sveglia suonò e due adolescenti uscirono di fretta dalla porta di casa. La ragazza si fermò e dopo essersi voltata gridò: «Plue vieni qui!», per poi seguire il fratello. Quello che apparve da dietro l’angolo della casa faceva pensare ad un cane anche se per nulla convincente: aveva il corpo a forma di pupazzo di neve bianco, con normali zampe da cane, il naso arancione e a forma di carota e le orecchie carine quanto la coda. Il cane sembrò esitare al richiamo, ma finalmente s’inoltrò nella via scodinzolando.
Il gruppetto continuò la sua strada fino ad arrivare ad una piazza ricoperta di piastrelle dorate situata davanti al post radio. Senza fermarsi, continuò la sua strada e varcò la soglia dell’imponente edificio. Dopo una salita di scale, gli adolescenti, accompagnati dal cane, arrivarono in un sala che aveva al centro un grande tavolo circolare. Vi erani sedute diverse persone indossando cuffie pronte ad entrare in azione. Un signore bruno si alzò di scatto, quasi facendo cadere la sedia e si precipitò verso i due giovani dicendo: «Dovete essere la signorina Kikyo e suo fratello Jin. Io sono Hardock, Brock Hardock, accomodatevi prego».
Ed indicò con un cenno le due sedie poste una vicino all’altra. Appena si sedettero, il cameraman azionò la macchina e nell’inquadratura comparve Brock tutto sorridente come un manichino di cera. Disse con voce gioviale:
«Buongiorno signori e signore, eccoci qui alla nostra trentesima puntata di "I nostri men show", abbiamo qui due nuovi invitati: la signorina Kikyo e suo fratello Jin, lasciamoli presentare».
Kikyo prese il microfono tutta raggiante. I suoi occhi verde smeraldo brillavano per l’emozione:
«Buongiorno a tutti, mi chiamo Kikyo, ho sedici anni e sono la sorella minore di Jin. A proposito degli scavi fatti in Egitto...» ma Brock non le lasciò il tempo di finire la frase e disse:
«Ci parli piuttosto della sua vita, della sua infanzia» e passò il microfono a Jin che lo fissò con distacco.
Il ragazzo era di una bellezza mozzafiato, con i capelli neri che scendevano in morbide onde dalla fronte ampia fino alle spalle, gli occhi blu come il mare che continuavano a fissare il microfono. Finalmente lo prese e disse: «La nostra infanzia è stata molto difficile ed è per quello che preferiamo non parlarne... ehm...». Ad un tratto s'interruppe e restò con lo sguardo assente nell’aria, poi sbattè il microfono sul tavolo producendo un suono acuto che fece sussultare il personale. La sorella lo incenerì con lo sguardo, ma non ebbe il tempo di dire altro che Jin la trascinò via. Correndo giù per le scale, i due uscirono all’aria aperta. Lei lo tirò per la manica per chiedere spiegazioni. Ma quando vide la sua espressione dura, si zittì. Continuarono a camminare in fretta fin quando Jin si girò e disse: «Ho appena ricevuto un messaggio dalla vecchia, ha detto che c’è un gruppo di militari che è andato sull’isola ed è probabile che vorranno stabilirsi lì per fare ricerche». Kikyo sgranò gli occhi per poi ricomporsi e dire:
«Dei militari! Sull’isola dei draghi! Per fare ricerche! O mio Dio, bisogna fare qualcosa Jin!»
Lui la trascinò dietro l’angolo della strada al sicuro dai sguardi indiscreti e disse: «Dobbiamo partire. Ora!»

Capitolo 3

I fratelli arrivarono senza problemi a destinazione anche se il mare era un po' mosso. Al generale Ippan non sfuggiva mai niente, dunque non gli sfuggì neanche che quel giorno stavano sbarcando due stranieri che avrebbero potuto mettergli i bastoni tra le ruote.
- Devo impedire loro di arrivare nel centro dell’isola, non posso permettermi che scoprano la grotta, devo tenerli d’occhio - pensò.
Li accolse educatamente e li invitò a prendere un caffè, cogliendo l'occasione per chiedere loro cosa venivano fare su un’isola sperduta in mezzo all'oceano. Kikyo rispose prontamente:
«Veniamo da lontano per salutare una nostra vecchia parente». Dopo altre domande imbarazzanti, i fratelli si congedarono, ma quando Kikyo stava per uscire Ippan la richiamò con un cenno e le chiese:
«Quanti anni avete?»
«Ho sedici anni».
«E tuo fratello?»
«Ha diciotto anni».
Ippan si strofinò una cicatrice sulla fronte e poi disse: «Lo facevo più grande». Poi cominciò a ridere, come divertito dalla propria battuta. Un po' perplessa, Kikyo sgaiattolò fuori e si diresse verso la casetta dove lei e Jin alloggiavano.
Lì davanti alla porta, l’aspettava Plue buono come l’oro. Appena la vide, corse verso di lei scodinzolando. Poveretto, con l’aiuto di Jin, Kikyo aveva rinchiuso con la forza Plue nella valigia, e costui era quasi morto soffocato. Quando uscì all’aria aperta aveva i muscoli rigidi e per poco non si era rotto il naso. Solo grazie al suo buon umore e all’aiuto di Jin era riuscito a camminare di nuovo normalmente. La ragazza aprì la tendina e si lasciò cadere pesantemente su una poltrona di cuoio nero e soffice che scricchiolava ad ogni movimento.
L’esercito aveva a disposizione soldi per permettersi di avere certe cose, ma a quanto pare non abbastanza per sfamare quella povera gente. Kikyo sentì la rabbia salirgli in volto, non poteva permettere che questo accadesse! Poi si calmò pensando che presto tutto si sarebbe risolto. In quel momento entrò Jin, Kikyo si alzò ed esclamò: «Ho un piano: andiamo nella grotta, chiediamo aiuto a Zolfina e mandiamo via questi bastardi dalla nostra isola prima che tocchino la Perla con le loro zampacce».
Jin alzò gli occhi al cielo, gli fece un sorriso fasullo e disse: «Sì, un piano magnifico! Sfortunatamente non ci aiuterà molto con i soldati posti alla porta, armati fino ai denti che sorvegliano ogni nostro minimo movimento. Per oltrepassare queste barriere, ci vuole più di un semplice piano come lo intendi tu, che è piuttosto un’idea». Dopo quella discussione, Jin si era rinchiuso in camera sua ed aveva lavorato ad un piano tutta la notte. Il mattino, erano entrambi pronti ad entrare in azione.

Capitolo 4

Stavano lavorando su quel caso da almeno due settimane. Ippan aveva convocato i migliori scienziati, ingegneri, matematici, ma niente.
«Maledizione!» disse battendo violentemente il pugno contro la roccia irregolare che presentava solchi e fessure tracciate dal tempo. Un soldato si accasciò contro la porta, stanco del lavoro eccessivo svolto negli ultimi due giorni. A quel movimento, la pietra si mosse e cominciò a spostarsi verso destra rivelando una caverna senza fondo. Ippan gli diede una vigorosa stretta e disse: «O è un miracolo, o sei speciale! Sei congedato e ti raddoppio la paga, ragazzo!». Successivamente Ippan fissò l’entrata, poi si girò ed esclamò:
«Io, generale Ippan, guiderò una missione d’investigazione nella caverna. Che i volontari si preparino, ci incontreremo domani alle nove in questo stesso punto. Congedatevi!».

**********

Kikyo e Jin si misero d'accordo sugli ultimi dettagli del piano e la ragazza uscì. Davanti alla porta c’era un giovane soldato, aveva al massimo un anno in meno di Kikyo. Kikyo continuò ad avanzare verso di lui, incerta sulle sue gambe e cominciò a balbettare: «D...devo vedere il generale Ipp...». Non finì la sua frase che svenne e si accasciò pesantemente fra la braccia del poveretto. Nel frattempo, mentre il soldato gridava aiuto, Jin uscì dalla porta accompagnato da Plue che guardava la padroncina preoccupato. S’inoltrarono nella foresta, quando Jin sentì delle voci. Si appiattì dietro un’albero e tirò Plue dal collare mettendogli le mani su muso. Sentì la voce di Ippan: «...guiderò una missione d’investigazione nella caverna. Che i volontari si preparino, ci incontreremo domani alle nove in questo stesso punto. Congedatevi!».
- Quell'Ippan si meriterebbe un bel pugno in faccia – pensò Jin, e poi sussurrò : «Ne abbiamo sentito abbastanza, vieni Plue, andiamo a riprendere Kikyo». Ippan tornò nel villaggio e trovò il giovane soldato in sudori, che gli spiegò a malapena l’accaduto. E quando entrò nella tendina militare, la trovò vuota. Sul letto c’era un biglietto con scritto:
ragazza è venuta e ragazza se n’è andata. Ma scoperta il generale non l’ha
«Lo sapevo che erano ambigui quei due. Dannazione, dannazione!» gridò il generale, «Li seguirò, scoprirò il loro segreto e troverò la Perla!».

**********

Stavano correndo, arrivarono davanti alla grotta, senza fermarsi e varcarono la soglia. Quando penetrarono nella caverna rallentarono come rassicurati.
La caverna era immensa, segnata dal tempo. All’entrata, sul muro c’erano solchi; erano apparentemente segni di unghie, ma non erano normali, infatti erano grandi il doppio di quelli che avrebbe fatto una tigre. Quelli erano graffi di drago. Plue abbaiò e il suono rimbombò sulle pareti. Kikyo continuò a camminare sfiorando le pareti con il dorso della mano. Le pareti erano umide, ricoperte di muschio, e la roccia pulsava come un cuore; quella caverna era lei stessa un essere vivente.
Arrivarono nel centro dove c’era il portale. Jin si spostò di lato e disse: «Dopo di te». Kikyo avanzò, il braccio destro sparì, poi il sinistro e infine l’intero corpo. Jin prese Plue in braccio si girò ed entrò nel portale. Da dietro un angolo apparve Ippan accompagnato dai soldati. Sul suo volto aveva un ghigno terrificante.

Capitolo 5

Zolfina, una piccola cucciola di drago rosa, riposava beatamente su una foglia di palmaamaca quando sentì un odore che non aveva sentito da tantissimo tempo. Si dondolò e finì per terra, poi si rialzò di scatto e cominciò a correre verso “la porta della realtà”.
Quest'ultima era una porta permetteva di comunicare con un altro mondo molto speciale, dove vivevano solo draghi senza squame. Zolfina continuava a chiamarli così, anche se la sua mamma aveva provato ad insegnarle quella che secondo lei era la parola giusta: si chiamavono “u-m-a-n-i”.
Kikyo, Jin e Plue uscirono dalla porta e si ritrovarono in un altro mondo ancora risparmiato dalle bombe. Kikyo gridò: «Zolfinaaaa!», «Kikyoooo!» fece lei. Kikyo prese la draghetta in braccio e cominciò a muovere le braccia come per cullarla. La piccoletta saltò giù e diede una stretta amichevole a Plue, il suo migliore amico. Poi Zolfina condusse i suoi amici dai suoi genitori. Arrivati alla loro casa, Jin presentò loro il problema, e questi annuirono.

**********

Ippan sbucò dall’apertura, seguito dai soldati che rimasero senza parole davanti alla bellezza del posto.
Le palme dondolavano nel vento fresco del mattino. I cespugli frusciavano e il mare sbatteva con violenza contro gli scogli ricoperti di alghe. Una collina era rivestita di fiori colorati che profumavano l’alba. In lontananza si vedeva il luccichio del sole su una cupola d’oro; un palazzo si ergeva maestosamente davanti a un giardino ricco di alberi dalle foglie d’oro e fontane dall'acqua colorata.
Alcuni soldati si tolsero il cappello e lo misero sul petto, altri caddero in ginocchio. Il generale continuò la sua strada senza preoccuparsi di coloro che si erano fermati. I sacchi delle munizioni caddero a terra rumorosamente. Si fermò, fissò la stradina che continuava davanti a lui, si girò e disse: «Soldati, ho un piano, ma voi dovrete eseguirlo senza un lamento, chiaro?!». I soldati risposero tutti in coro un: «Sissignore!»

**********

«Venite a vedre i miei fratellini. Sono così cresciuti da quando siete partiti» escamò Zolfina.
Il volto di solito gelido di Jin si addolcì a quelle parole, come se avesse scostato una maschera dalla sua faccia che nascondeva la sua vera personalità. Al contrario, Kikyo era tesa come una corda di violino. Il suo precedente sorriso era solo un pallido riflesso della faccia dura che mostrava in quel momento. Jin non sembrò notarlo, troppo attratto da piccolissimi draghetti di tutti i colori che giocavano fra le ceneri di un falò.
«Jin, dobbiamo sbrigarci e...» ma quando vide il fratello lasciò perdere e si sedette su una roccia scaldata dal sole. Jin aveva poi cominciato a coinvolgere i piccoli, Plue e Zolfina, in un giochino da bambini. Verso sera, i cuccioletti si addormentarono; a quel punto Zaffiro, il padre di Zolfina, disse: «Se dovete combattere quei draghi senza... hem... umani, dovrete armarvi». Poi entrò in una tenda, dalla quale usciva del fumo ed un odore di pesce fritto. Ne uscì cinque minuti dopo, con un piccolo pacchetto che aprì: dentro c’era la Perla de Shikon.
Zaffiro disse: «Penso che sia meglio che la teniate voi». i fratelli annuirono, si fecero uno sguardo d’intesa e Jin la mise nella tasca dei sui jeans. Finalmente Zaffiro e Zolfina lasciarono Kikyo e Jin prepararsi nell’armeria.

Capitolo 6

Jin si stava cambiando quando sentì un rumore, si girò di scatto pronto a combattere e vide la sagoma di Kikyo. Allora si tranquillizzò. «Mi hai fatto prendere una paura!» disse Jin con i nervi a fior di pelle. Si girò, la forma si mosse e la luce illuminò il coltello, Jin uscì ma l’ordine arrivò appena mise piede fuori: «Fermo!» la parola era molto più impressionante della voce che l’aveva pronunciata. Il giovane soldato era terrorizzato, ma questo non l’avrebbe fermato. Stringeva Kikyo all’altezza della vita. Le premeva un coltello alla gola. «Non fare un altro passo!» tremava incontrollabilemente e aggiunse: «adesso dammi la Perla!»
Jin non staccava lo sguardo da sua sorella. Cercava di farle capire che sarebbe andato tutto bene e disse: «è impossibile».
«No che non lo è», il soldato strattonò Kikyo, era agitato, ansioso. Jin doveva guadagnare tempo e pensare a un modo per distrarlo.
«Io non voglio farle de male, voglio solo quella maledetta Perla». Lì vide qualcosa alle sue spalle; il lampo di un movimento alla luce della luna sfrecciava in silenzio da un’ombra all’altra. Poi, mentre si nascondeva dietro un albero, la vide bene: era Zolfina. Jin si ricompose appena in tempo e riportò lo sguardo sul soldato prima che costui si accorgesse che aveva scorto qualcosa. Doveva guadagnare tempo. «Non preferiresti tornartene a casa e vivere in pace? Lasciala andare e andrà tutto bene». Il soldato non sembrò sentire le sua ultima frase: «Non posso, io devo eseguire gli ordini del mio generale, è in gioco il mio onore». Era chino in avanti, disperato, cercando di convincere Jin. Non voleva fare del male alla ragazza ma doveva eseguire il suo dovere; aggiunse: «io ho una famiglia che aspetta con impazienza un misero gruzzolo che ricevo in paga. Io devo farlo!». La sua voce tremava e faceva scorgere la sua confusione. Zolfina gli era addosso, la luce della luna la illuminò appena uscì dal riparo degli alberi, proiettando la sua ombra ai piedi del soldato. Lui spalancò gli occhi e si voltò per affrontare la nuova minaccia. Zolfina si lanciò sul soldato quasi schiacciandolo. Kikyo abbracciò il fratello singhiozzando.

**********

Il soldato aprì gli occhi, si passò una mano sul volto. Fece un gemito quando le sue dita toccarono un enorme livido dove la coda di Zolfina lo aveva colpito. Era sdaiato su un tavolo di marmo, e quando si alzò fece scivolare la coperta per terra. Le finestre erano aperte e delle diafane tende rosa fluttuavano nell’aria calda del pomeriggio. Non sapeva se poteva uscire dalla stanza, era probabilmente un prigioniero. Aprì la porta e cominciò a camminare lungo il corridoio; arrivò in un’enorme sala con le pareti ricoperte di mosaici d’oro e una grande cupola di vetro, dalla quale la notte si potevano vedere le stelle. In mezzo alla stanza c’era un grande tavolo intorno al quale erano seduti Zolfina, Zaffiro, Jin e Kikyo. «Siediti!» disse Zaffiro con voce ferma.
Il soldato si sedette intimorito. Zaffiro disse: «Anche se sei un traditore, dobbiamo comunque scusarci per il cattivo comportament di Zolfina».
Poi lanciò un’occhiata ricca di significato a Zolfina: «Scusami» disse imbronciata arrossendo.
«Dato che adesso sei con noi dovresti aiutarci a ritrovare il tuo generale; piuttosto che giocare al salvatore della patria». Sisse Kikyo arrabbiata. Un po' meno impaurito il soldato disse: «Risponderò alle vostre domande. Prima, però vorrei chiedervi dove avete trovato quel “cane” a cui ho dato un calcio all’entrata dell’armeria».
«Allora sei tu che hai fatto del male a Plue?» Jin si alzò facendo cadere la sedia e avanzò con aria minacciosa verso il soldato che indietreggiò. Non si rese conte che aveva sollevato il braccio verso il giovanotto, fin quando Kikyo non gli aveva stretto con dolcezza la mano e gli aveva sussurrato: «No, non farlo Jin!» Si erano poi seduti nuovamente e il soldato aveva incominciato, con infiniti dettagli, a parlare del piano di Ippan e della loro localizzazione. Alla fine aveva chiesto: «il vostro cane non é normale, vero?». Kikyo rifletté un momento, gli lanciò un’occhiata e poi disse: «In effetti...», ma non aggiunse altro.

Capitolo 7

Kikyo uscì da sotto gli alberi e strisciò fino ai cespugli, l’ultimo riparo prima di un grande campo senza copertura. Jin e il giovane soldato la seguirono e si fermarono al suo fianco.
Zolfina svolazzò ancora qualche istante e poi si posò anche lei. Kikyo e Jin si alzarono e cominciarono a correre in perfetta sincronia, a metà strada si appiattirono al suolo fra le erbe alte. Kikyo alzò il braccio: era il segnale! Sam, il giovane soldato scattò in avanti seguito da Zolfina. Poi cadde a terra inciampandosi in una fune e la draghetta a sua volta inciampò sul suo corpo. Lo schiacciò coprendolo interamente e lasciando solo spuntare la sua mano. Kikyo rimase a bocca aperta chiedendosi come potevano essere così pasticcioni. Ma quando Zolfina si stava alzando, una rete li mandò in aria lei e Sam rendendoli prigionieri. Dal nulla risuonò una fragorosa risata che raggelò Kikyo e Jin. Poi tutti e due svennero cadendo a terra.

**********

Kikyo si svegliò sbattendo le palpebre davante alla luce di una torcia posta lì vicino. Era incatenata come i suo amici. Quando tutti si svegliarono intorno a lei, Ippan esclamò: «Buon lavoro Sam, mi hai portato, come ti avevo chiesto, tutti i prigionieri vivi!». Sam era il solo a non essere legato, era seduto a terra e sul suo volto aveva un’espressione terrificata.
«Non ho fatto niente, ve lo giuro!» disse Sam, ma Kikyo ribatté inorridita: «Tu ci hai traditi!! Io credevo in te quando ci hai detto che ci avresti aiutato. Ti credevo, ma tu sei solo un traditore come i tuo amici. Traditore!» Durante quel conflitto Jin non aveva aperto bocca e aveva fissato Ippan, o piuttosto quello che teneva in mano, con un’espression dispiaciuta. Per porre fine ai loro battibecchi, Ippan gridò brandendo la perla tra il pollice e l’indice:
«Tutti voi vedrete come il generale Ippan ha salvato la sua patria, riportando la Perla al suo vero posto!» Poi, ripensò a quello che il soldato gli aveva chiesto prima di entrare nella grotta: «Generale, generale! Cosa accadrà se lei non tornerà... da questa missione...?».
A quel punto Ippan aveva alzato gli occhi al cielo sorridendo e aveva detto: «Telefonate al Capo, lui parlerà con mio nipote, è lui che dovrà prendere il mio posto e continuare la missione nel caso in cui io fallisca». Poi entrò nella grotta.
Jin ridacchiò sotto i baffi e disse: «Proprio non capisci! La Perla non può essere portata via da questo mondo! Se tu ci provassi, verresti incenerito nel portale che si chiuderebbe immediatamente e la Perla riprendrerebbe il suo posto! Se solo qualcuno riuscisse a portarla
sulla Terra, essa diventerebbe una semplice pietra e perderebbe tutti i suoi poteri. O peggio, potrebbe fare esplodere la Terra intera!» in quel momento un brivido avvolse tutti i presenti.
«Sei il peggior traditore della tua specie!»
Ippan non sembrò intimorito, ma il suo viso si trasformò in una maschera impenetrabile. Fece cenno ai soldati di slegare i prigionieri, si avvicinò a Jin sussurrandogli qualche cosa nell’orecchio e partì verso il portale accompagnato dai soldati.
Kikyo cominciò a correre verso di loro per fermarli, ma Jin la tirò per il braccio lanciandogli un’occhiata come per dire – mi dispiace Kikyo, ma non possiamo aiutarli più di così – Kikyo annuì. Aspettarono ancora un po' e dopo un quarto d’ora sentirono un grande boato. Era finita.

**********

Ippan era arrivato sulla soglia della grotta, si fermò all’entrata e disse: «Soldati avete sentito quello che hanno detto. Non siete abbligati a seguirmi». Ma i soldati dissero che l’avrebbero seguito ovunque, lui era il loro capo. Nel momento in cui entrarono, Ippan pensò – forse è meglio che finisca così... – e poi ci fu una grande esplosione, i soldati si disintegrarono, mentre la Perla riprendeva il suo posto originario.

Capitolo 8

In una piovosa notte a Londra, un uomo vestito di nero entrò in una cabina telefonica, compose velocemente un numero e si guardò intorno. Dall’altra parte del telefono, una giovane voce rispose: «È lei Capo? » la persona in nero disse: «Sì. Tuo zio Ippan ha fallito... mi dispiace Vincent. Sai cosa fare, hai tutte le informazioni necessarie». Il giovane Vincent rispose con la voce rotta da un sighiozzo, ma pur sempre determinata: «Sì, signore».

**********

Kikyo era seduto su uno scoglio scaldato dagli ultimi raggi di sole del tramonto. Guardava il mare mentre il sole stava scomparendo tra le onde all’orizzonte. Jin si sedette alla sua destra, Sam alla sinistra. Presto li raggiunsero Zolfina e Plue. Kikyo si strinse le gambe al petto, un po' infreddolita dall’aria fresca della sera. Dopo un po' chiese: «È possibile che il portale si riapra e che i soldati tornino?» Jin le disse: «Poco probabile, per riuscirci dovrebbero avere tutte le informazioni necessarie». Sam disse ridacchiando: «Chissà, non si può mai sapere cosa aspettarsi con il Capo e le sue truppe».
Una fiamma di speranza era stata accesa, e l’intero universo aspettava di vedere se si sarebbe spenta. Loro non potevano far altro che trattenere il fiato... e attendere.

Fine
 

 




 
 
Federico Tegon, anni 11
classe I media, Lycée International di Saint Germain en Laye

Il sindaco, il cane che non era un cane e Marco
In un’isola circondata dal mare tempestoso viveva tutto solo un uomo che si era autoproclamato sindaco di tutta l’isola, con un cane (che non era un cane).
Un giorno, il sindaco e il cane (che non era un cane) riposavano beatamente sulla riva del mare quando un vento fortissimo li spazzò via come foglie morte e li depositò in un altro luogo dell’isola ancora inesplorata.
Passarono i giorni e i due trovarono rifugio sotto delle enormi palme finché al sindaco, che non ne poteva più di vivere da solo, venne in mente un'idea: con il legno delle palme avrebbe potuto costruire una barca robusta per lasciare definitivamente l’isola e il suo mare sempre tempestoso.
Il sindaco si rivolse al cane dicendo:
- Dai, amico mio, aiutami a tagliare queste palme!
A quelle parole, in un batter d’occhio, il cane (che non era un cane) si trasformò in una motosega. Dovete infatti sapere che il cane (che non era un cane) era in realtà un oggetto che si trasformava in qualunque cosa il sindaco desiderasse.
Dopo aver tagliato il legno e assemblato i pezzi per la barca, d’un tratto una grossa noce di cocco cadde sulla testa del sindaco il quale esclamò:
– Ahi, che ma…
Ma non ebbe il tempo di finire la frase che svenne.
Magicamente, al suo risveglio, trovò la barca terminata e pronta a salpare verso terre sconosciute.
La navigazione non fu per niente facile e il mare era sempre più tempestoso; passarono giorni, settimane e mesi e la terraferma non si scorgeva neanche con il binocolo.
Finalmente, quando le speranze cominciavano e svanire, un’isola apparve all’orizzonte ed era proprio come il sindaco l’aveva sempre desiderata: mare calmo, acqua cristallina, sole, alberi carichi di frutti esotici, fiori colorati e profumati e una bellissima casa pronta ad accoglierlo.
Al suo arrivo sull’isola trovò anche nuovi amici simpatici e divertenti che, vista la sua esperienza, lo proclamarono sindaco!
Invece il suo fedelissimo amico decise di restare sull'isola col suo mare sempre tempestoso perché a causa delle violente ondate arrivavano spesso naufraghi moribondi con i loro relitti e lui avrebbe potuto essere loro d'aiuto E infatti, qualche giorno dopo la partenza del sindaco sull'isola approdò un giovane marinaio di nome Marco e il cane (che non era un cane) gli corse subito incontro e lo aiutò trasformandosi prima in una capanna accogliente, poi in fuoco
scoppiettante e infine in un letto così confortevole che Marco si addormentò in un sonno ristoratore. Al suo risveglio, un po' incredulo ma estremamente felice, alla vista di tutto quello che il suo nuovo strano amico riusciva a fare, Marco decise di restare a vivere per sempre in quell'isola.
E così il sindaco, il cane (che non era un cane) e Marco trovarono finalmente pace e serenità nella loro nuova vita e vissero felici e contenti!
 
 


 
 
Carlotta Ariaudo, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International di Saint Germain en Laye

Il miracolo del panettone
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti.
Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.
Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.
Non sapeva però che un giovane disoccupato di nome Lorenzo lo aveva seguito e si era introdotto all'interno della fabbrica dopo aver recuperato la preziosissima pasta madre.
Lorenzo cominciò a impastare molti panettoni mentre ascoltava una canzone natalizia per rallegrare la fabbrica; al suono di quella musica coinvolgente le sue idee per i dolci iniziarono a venire una dopo l'altra senza più fermarsi.
Mentre stava lavorando, il ragazzo vide dalla finestra una vecchietta che camminava tranquillamente per la strada ed ebbe un po’ di sospetto vendendola. La signora infatti entrò nella fabbrica e Lorenzo le disse:
- Buonasera signora, ci scusi ma siamo chiusi.
La signora sembrava non volersene andare via e con molto discrezione restò nella fabbrica offrendo a Lorenzo tantissimi cioccolatini dorati. Lorenzo, felice ma sospettoso, ne prese uno e lo mise nell'impasto del suo panettone. Dopodiché la signora uscì dalla fabbrica.
Poco tempo dopo, il primo panettone era pronto ed era quello che conteneva al suo interno il cioccolatino dorato. Lorenzo non lo assaggiò perché pensò di offrirlo ai suoi primi clienti e si rimise al lavoro per creare altri dolci.
Nel frattempo, la mattina di Natale il padrone volle andare a vedere la sua azienda. Era da tanto che non ci andava.
Quando arrivò alla fabbrica, rimase sorpreso: non pensava che qualcuno sarebbe riuscito ad entrarvi. Notò subito Lorenzo che stava decorando una busta e gli chiese:
- Mi scusi, lei chi è?
E Lorenzo rispose:
- Mi chiamo Lorenzo. Immagino che lei sia il padrone della fabbrica.
- Esatto - esclamò il padrone - che ci fa lei qui?- Sono entrato perché non c’era nessuno, e la porta era aperta. Così ho cominciato a decorare e a creare.
Il padrone lo guardò con aria perplessa, non capiva se il ragazzo stesse scherzando o facesse sul serio, così aggiunse:
- Lei forse non sa che ormai questa fabbrica è chiusa e la produzione del panettone è ormai ferma.
Lorenzo però non si lasciò scoraggiare da quelle parole e balbettando dall'imbarazzo disse:
- Mi scuso per essermi introdotto di nascosto nella fabbrica. Ma se mi permette, signore, non trovo giusto che questo posto debba chiudere, pertanto le faccio una proposta: lavorerò gratis per lei e se riuscirò a vendere tanti panettoni potrà decidere di assumermi. Ho già cominciato a creare i primi dolci.
- Mmh!! Questo lo vedo e dal profumo sembra che il tuo panettone sarà molto gustoso!
- Non l’ho ancora assaggiato perché oggi è Natale e potrebbe essere il giorno giusto per riaprire la fabbrica e offrirlo alle persone che verranno. - Aggiunse il ragazzo con decisione.
- Giovanotto, mi hai convinto! Oggi è un giorno speciale e chissà che non si verifichi un miracolo. Apriremo alle 10 in punto e se riuscirai a vendere tanti panettoni il posto di pasticcere sarà tuo.
E così, alcune ore dopo la fabbrica riaprì.
Fuori nevicava e la gente passeggiava per le strade addobbate a festa. Sembrava che tutti fossero intenti a chiacchierare o a giocare con la neve. Qualcuno però presto si accorse che il negozio della fabbrica di panettoni era aperto. Lorenzo osservò la prima cliente da lontano...
non aveva un aspetto sconosciuto, al ragazzo sembrava di aver già visto quell'anziana signora da qualche parte. La nonnina entrò quasi senza salutare: aveva occhi solo per quel panettone che profumava di cioccolato:
- Mi scusi - chiese - è un panettone tradizionale?
- No... è un panettone realizzato da me, sono il nuovo pasticcere. L’ho inventato io, con la mia creatività e con un po’ di ingredienti deliziosi e fantastici.
La signora lo prese, ne assaggiò una fetta e disse:
- Che buono e che bella l'idea di farcirlo con il cioccolato dorato! Lo compro subito!
Nel frattempo, seguendo l'esempio dell'anziana signora, tanti altri clienti entrarono nel negozio e fecero acquisti.
Lorenzo fu fiero della sua creazione. Il dolce inventato fu un successo e lo comprarono in tanti.
Il padrone rimase sorpreso:
- Bravo ragazzo mio, il tuo dolce ha avuto successo.- Grazie signore, ora però sarebbe molto bello se potessimo creare nuovi dolci insieme. Accetta?
- Certo che accetto, forza andiamo a lavorare.
I clienti continuarono a venire nei giorni seguenti e per molti altri ancora. Lorenzo ebbe il lavoro e fu il ragazzo più contento del mondo.
 
 




<

 


  
  


 
 


 


  
  
 




 
 
 




  
 


 

 
 
 




 


 
 


 
  



SCUOLA PRIMARIA “Sacra Famiglia”

Martinengo – Bergamo
Classe 2B
Proseguo di….. “Inventa una storia”

UN PAZZO POMERIGGIO
Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.
Voi lettori penserete: “Ma cosa ci fa una tigre su un tetto?”
Questo primo mistero è subito spiegato... la storia che sto per raccontarvi narra di una famiglia speciale: il papà della famiglia Calzini fa un lavoro particolarissimo, lavora in un circo, precisamente è un clown, il clown Puzzolino.
La famiglia Calzini di certo non aveva solo un papà pazzerello, ma era composta anche dalla coloratissima mamma Rosetta che amava vestirsi ogni giorno di almeno cinque colori diversi, dal figlio maggiore Leone con una capigliatura pazzesca, tutta riccia e arruffata ma e che a differenza del nome che gli avevano dato aveva tantissime paure diverse e dalla figlia Luna che purtroppo era sempre arrabbiata con la luna storta.
Ma torniamo a noi cari lettori, ci stavamo domandando cosa facesse una tigre sul tetto...
Quel giorno il clown Puzzolino durante la sua esibizione, per far ridere gli spettatori, si era spruzzato addosso un profumo all’aroma di carne, la tigre lo sentì e siccome il guardiano aveva lasciato inavvertitamente aperto il recinto, quatta quatta l’animale seguì il clown fino a casa. Una volta arrivato a casa il clown chiuse velocemente la porta perché aveva un bisogno fortissimo di usare il bagno, la tigre proseguì allora è salì fino in cima e usando una scala a chiocciola arrivò sul tetto.
Nell’appartamento del secondo piano abitava il ricchissimo nonno Ferruccio, a quell’ora si stava godendo la lettura di un buon libro sul suo super terrazzo. Mentre era impegnato a girare pagina gli cadde lo sguardo sul tetto e avvistò la tigre. Rimase spaventato e impietrito, senza far rumore si rifugiò in casa e chiuse la porta che dava sul terrazzo. Una volta in casa pensò di lanciare l’allarme nel modo meno tecnologico che si conosca: andò alla finestra e lanciò un urlo spaventoso!!!
AIUTOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Proprio in quel momento la Signora Geltrude del primo piano stava sbattendo la tovaglia, quando sentì l’urlo agghiacciante del Nonno Ferruccio, fece un salto spaventoso, le sfuggì di mano la tovaglia che cadde sul prato. In quel momento passò a tutta birra in bicicletta Leone, il figlio di Puzzolino, seguito da un cane che si era sganciato dal guinzaglio del padrone poiché spaventato dall’urlo terrificante del nonno Ferruccio.
È sorprendente come tutto questo accadde nello stesso momento: la tovaglia fatta cadere dalla signora Geltrude finì addosso al cane che rimase intrappolato.
Fortunatamente arrivò di corsa il suo padrone che lo liberò e lo coccolò per tranquillizzarlo dallo spavento preso. Certamente più spaventato del cane era Leone che da sempre, fin da piccolo, aveva paura dei cani. Il padrone del cane capì che Leone aveva paura del suo cagnolino, ma vedendo la tigre sul tetto
chiese al bambino: «Come fai ad aver paura dei cani quando sul tetto di casa tua passeggia una tigre?».
Leone alzò gli occhi e vedendo la tigre sul tetto di casa sua iniziò ad avere dei forti capogiri fino a svenire stramazzato sull’erba.
Quando si risvegliò vide fortunatamente che i guardiani avevano recuperato la tigre e la stavano riaccompagnando al circo.
Era stata veramente una giornata impegnativa e quella sera la famiglia Calzini, il nonno Ferruccio e la signora Geltrude decisero di rilassarsi tutti insieme andando a vedere al circo lo spettacolo serale del papà Puzzolino.
 
Gustavo e il suo dolcissimo Natale.
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettoni non sembrava voler riaprire i battenti.
Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.
Ma la viglia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.
Durante la notte...
Durante la notte ci fu un devastante temporale e all’improvviso il cielo nero fu illuminato da un accecante lampo, seguito dal fortissimo rombo di un tuono. Un violento fulmine colpì proprio il luogo in cui era sepolta la pasta madre e dal centro della Terra apparve uno spirito, avvolto da una delicata luce azzurra. Era Alabaster, uno dei più fedeli folletti di Babbo Natale che intenerito dalla passione del pasticciere Gustavo, così si chiamava, per il proprio lavoro, aveva deciso di aiutarlo. Alabaster gli apparve così in sogno e gli disse di non arrendersi e di continuare a cucinare con amore quei deliziosi panettoni.
Gustavo era un po’ preoccupato, come poteva da solo creare tutti quei dolci?
E perché continuare a farlo? Lo spirito sembrò leggergli nel pensiero e gli disse “Tutti gli abitanti di questa città sono cresciuti mangiando queste delizie ed è una tua missione renderli felici e poi, pensa ai bambini, che altrimenti cresceranno senza aver mai conosciuto un dolce talmente buono che ti riempie il cuore di gioia”.
Al pensiero che i piccoli della sua città non avrebbero mai conosciuto una così grande felicità, il pasticciere si convinse e si mise all’opera. Riaccese le macchine e la fabbrica abbandonata tornò a vivere. Lavorò per alcune ore senza mai fermarsi, ma da solo riuscì a sfornare solo pochi panettoni e quando pensò di non farcela più sentì bussare alla porta.
Erano gli abitanti della città che incuriositi dalle luci accese e dal frastuono che proveniva dalla fabbrica, avevano capito cosa stava facendo per loro Gustavo.
Decisero così di aiutarlo e scoprirono quanto fosse bello lavorare insieme per fare felici gli altri. Al mattino la città si svegliò immersa da un delizioso profumo di dolci appena sfornati, tutti andarono alla fabbrica e con grande stupore si videro regalare un panettone caldo e morbido che rese speciale il giorno di Natale. Il pasticciere era stanco, ma felice per aver regalato la gioia, anche se poi si rattristò pensando che sarebbe stata l’ultima volta. Chiuse la fabbrica e se ne tornò solo a casa sua.
Ad un tratto sentì delle voci, uscì e vide che tutta la città era arrivata da lui per festeggiare insieme il Natale e ringraziarlo con tanti doni.
Il sindaco allora, propose che la fabbrica riaprisse e che ogni cittadino potesse lavorare per tenerla in vita.
La notizia si sparse ovunque e da ogni parte del mondo arrivarono persone per assaggiare quel magico panettone che era così speciale da aver unito una città intera.

Pensato e scritto dai bambini della seconda A, scuola Sacra Famiglia di Martinengo, Bergamo
 
 
 


 

Martina

9 anni, IV A Scuola Primaria “I.C. S. C. Donati”

STORIA DI NATALE
Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.
Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. Durante la notte la moglie del padrone andò dove il pasticcere aveva seppellito il lievito. Lo prese e lo portò dal padrone, che stupito gli chiese dove l'aveva trovato, e lei gli rispose subito che aveva seguito il pasticcere. Il marito arrabbiato perché non voleva più riaprire la fabbrica, buttò il barattolo per terra e lo spaccò. La moglie spaventata per ciò che era successo, andò a dormire senza dire una parola. La mattina dopo si svegliarono come se non era successo niente quella notte. Nel pomeriggio arrivò il pasticcere perché la moglie del padrone doveva spiegare quello che era successo. Il pasticcere ebbe un’idea: ristrutturare la fabbrica, spargere volantini per la città dicendo che quello era il miglior panettone di sempre, e dicendo che dovevano fare una sorpresa al padrone della fabbrica. Dopo di che dovevano bendare il padrone dicendogli che gli avevano fatto una sorpresa speciale.
Il giorno di Natale era tutto pronto e portarono il padrone nella fabbrica e lui stupito di ciò che avevano fatto per lui per riattivare la fabbrica si emozionò molto. Tutta la sera fecero festa nella fabbrica. La mattina seguente il padrone andò nella fabbrica e vide molte persone in fila che volevano comprare il suo panettone, perché nei supermercati il panettone non era molto buono in confronto a come lo faceva lui.
Grazie alla moglie del padrone e del pasticcere, il Natale era salvo.







Matteo, 7 anni
 
 
 


 
Zorawar Rorandelli
nato il 28/1/2013 (8 anni)
frequenta la III elementare presso la St George's British International School (Roma)

Su un'isola circondata da mare tempestoso, una cucciola di drago da tempo non faceva un pasto completo. Tutto d'un tratto la mamma le chiese: “Perché anche oggi non mangi?”. La mamma diceva sempre a Maki – questo il nome della cucciola – che doveva finire tutto quello che le dava da mangiare, ma lei non ascoltava sua madre perché non le piaceva quello che in genere mangiavano i draghi, e cioè sangue. A Maki piacevano invece salsicce, pane e burro, e gelato vaniglia e mango. Non che li avesse mai provati, ne aveva soltanto letto nei libri, e lei pensava che fossero buoni. Aveva letto anche di altre terre, lontane, gli alberi erano verdi, e non neri come sulla sua isola.
Così un giorno Maki decise di scappare. Costruì allora un aeroplano tutto in metallo, e andò via. Quando la madre vide che non c'era, era molto, molto, molto arrabbiata, e anche un poco triste.
Dopo un lungo viaggio Maki arrivò su un'isola fatta di pane e burro, con fiumi di gelato e cascate di salsiccia, era così felice e si lanciò col paracadute, atterrò sull'isola e subito si immerse in un lago di gelato e provò tutto il resto del cibo. Fortunatamente Maki trovò un amico, un cucciolo di panda, di 4 mesi, e lei lo chiamava Jack. Jack e Maki si divertivano tantissimo insieme e vissero felici e contenti.
 
 
 


 
Sikandar Rorandelli
nato il 28/1/2013 (8 anni)
frequenta la III elementare presso la St George's British International School (Roma)

Un giorno, sul tetto di casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era grande e camminava su due zampe e annusava l'aria, in cerca di un posto dove andare. Ad un tratto la tigre con un gran balzo entrò nella casa di un bambino di nome Antonio Ricotta. Antonio aveva 8 anni, era più alto dei suoi compagni di classe, ed era molto appassionato di animali: gli piacevano gatti, cani, pappagalli e in particolare le tigri. Conosceva tutte e 6 le razze di tigre che esistevano nel mondo, e in particolare gli piaceva la tigre siberiana, la più grande di tutte. Antonio quel giorno era solo in casa, i suoi genitori erano in vacanza su un isola lontana, nell'Oceano Pacifico. Ma Antonio non aveva paura di stare da solo, anzi, era felice quando non c'erano i suoi genitori perché poteva fare tutto quello che voleva, e il suo sogno era di poter carezzare una tigre, cosa che i suoi genitori non volevano fargli fare. Quando Antonio vide la tigre riconobbe che era la tigre siberiana, era enorme, e subito pensò: “Devo prendere la macchina della clonazione in caso la tigre ma mangi!”.
Antonio corse in salotto, azionò la macchina per la clonazione e in quel momento la tigre si affacciò nella stanza. Antonio le chiese: “Vuoi qualcosa da mangiare?” e la tigre rispose “Voglio mangiare delle salsicce!”. Antonio pensò che doveva affrettarsi a trovare le salsicce per evitare di essere mangiato dall'animale affamato. Quindi andò in cucina, aprì il frigorifero e tirò fuori tutte le salsicce che trovò. Erano novanta! Quando la tigre ebbe finito, aveva però ancora fame, ma fece finta di addormentarsi. Antonio pensò: “Ho sete, voglio un bicchiere d'acqua”. Andò in cucina, e la tigre lo seguì e in un balzo gli fu addosso e lo mangiò. A quel punto, sazia, la tigre se ne andò, uscendo dalla finestra.