DACCI UN SEGNO - I VOSTRI RACCONTI DEL TAVOLO

 
 


 

I BAMBINI DI II C sbs SCUOLA SACRA FAMIGLIA MARTINENGO

 

UNA MAGICA AVVENTURA

In un caldo pomeriggio di sole un bambino con gli occhiali a specchio di nome Matteo e il suo amico Ettore passeggiavano allegramente per le vie del paese, cercando un posto in cui giocare a calcio con il loro pallone nuovo di cuoio. Si fermarono in una via abbastanza spaziosa e iniziarono a passarsi il pallone divertendosi molto, ad un tratto il pallone finì contro il vetro della finestra di una casa lì accanto… Era la casa della strega Marilù.

I bambini, vedendo il vetro della finestra frantumarsi, capirono subito di essere nei guai e non sapendo cosa fare rimasero immobili davanti al disastro che avevano combinato perché tutti conoscevano la strega Marilu: era molto severa, soprattutto con i bambini.

La strega, che stava beatamente riposando nel suo lettuccio, si svegliò di soprassalto spaventata dal gran fracasso e affacciandosi alla finestra capì subito che i bambini erano responsabili di tutto quel frastuono. Marilù uscì velocemente dalla casa e arrabbiata com’era decise di punire i bambini con una trasformazione: puntò la bacchetta verso di loro e lanciò il suo incantesimo, ma il piano andò storto e colpì solo il povero Ettore che si trovò in un baleno trasformato in un... cagnolino!

Per fortuna Matteo coraggiosamente prese in braccio il povero cane, che non era un cane, e corse a più non posso lontano da quel postaccio.

Quando i bambini furono abbastanza lontano dalla strega decisero di andare a parlare con la fatina Desy che era proprietaria di un negozio di caramelle, il più bello del paese.

Quando la fatina vide entrare Matteo capì subito che era successo qualcosa, chiese al bambino di raccontarle tutta la storia e in pochi minuti aveva già trovato una soluzione.

La buona Desy infatti andò velocemente nel retro bottega e prese dalla cassaforte un grosso libro di cuoio molto antico, lo sfogliò e trovò l’antidoto adatto: ai bambini serviva la lacrima di un draghetto.

La fatina spiegò ai due bambini che dovevano andare in cerca della lacrima di un drago e farla poi bere al povero Ettore, grazie a quella lacrima sarebbe infatti tornato velocemente ad essere un bambino. L’isola dei dragherei era lontana e per trovare la strada la fatina trasformò gli occhiali a specchio di Matteo in occhiali speciali che proiettavano sulla lente la mappa per arrivare a destinazione. I bambini si misero in viaggio immediatamente e poiché dovevano attraversare un grande mare la fatina prestò loro una barchetta magica e senza pensarci troppo si diressero seguendo la mappa degli occhiali sull’isola.

Dopo a molte ore di navigazione arrivarono finalmente all’isola dei draghetti e scesi dalla barca videro subito una cucciola di draghetto che riposava beatamente su i rami di un albero quando, ad un tratto, si svegliò e guardò un po’ stranita i due nuovi arrivati.

La draghetta era molto dolce e non appena Matteo le raccontò quello che era successo decise subito di aiutarli, purtroppo la cucciola era sempre felice e, nonostante i due bambini cercassero di rattristarla con storie malinconiche, alla poveretta non usciva neanche mezza lacrimuccia.

A quel punto ai due bambini venne un’idea: se non potevano farla piangere di tristezza, allora potevano provare a farla piangere di felicità. Iniziarono subito a fare versacci, boccacce, a raccontare barzellette, a fingere di cadere.... furono così bravi che già dopo qualche minuto la draghetta non la smetteva più di ridere e rideva così tanto che gli occhi iniziarono a lacrimare.  Velocemente Matteo raccolse con il dito una lacrima e subito la diede ad Ettore che all’istante tornò ad essere un bambino.

Per festeggiare il lieto evento la cucciola di draghetto andò chiamare i suoi genitori e tutti gli altri abitanti dell’isola e insieme organizzarono una festa divertendosi tutti molto. Dopo qualche tempo Ettore e Matteo ripresero la navigazione per tornare verso casa felici che la loro avventura si fosse risolta nel migliore dei modi.

Arrivati a casa decisero di passare dalla strega Marilù per porgerle le scuse e provare a fare amicizia con lei, così suonarono alla sua porta e le consegnarono un bel mazzo di fiori e un bel sacchetto di caramelle gentilmente offerte dalla fatina Desy.

I bambini chiesero alla strega di essere più gentile la prossima volta e, forse grazie alle attenzioni che i bambini le avevano rivolto, iniziò a diventare più buona e dal quel giorno Matteo ed Ettore diventarono suoi amici, i suoi primissimi amici!


 


 
 
Viola Paramatti

IIIB  I.C.C Sinopoli Ferrini

 

Ormai era famoso in tutto il mondo animale; tutta Roma parlava di lui: dal Colosseo a Ostia. Tutti avevano il suo nome in bocca.

 Manonèuncane, era tanto conosciuto quanto non considerato, non accettato e allontanato. In realtà la sua storia è comune a tanti, ben più famoso di lui c’è Mowgli, il ragazzo cresciuto dai lupi. Nella lontana Scozia si parla anche di un maiale capace di fare il cane da pastore. Il nostro eroe era semplicemente un gatto dei nostri tempi abbandonato in un secchio della spazzatura sotto le feste di Natale. L’unica “mamma” disponibile trovata dalle gattare di Largo Argentina era una cagnolina con un altro cucciolo in un rifugio. Il gattino cresce così in un mondo di cani; ogni volta che passava qualcuno in cerca di un cagnolino da adottare, vedendolo esclamava: “Ma non è un cane!”

Il gattino si convinse di chiamarsi così; cresceva tranquillo. Manonèuncane, scodinzolava, mostrava i denti e da poco aveva persino imparato ad alzare la zampa quando faceva pipì. Suo fratello venne adottato presto invece sembrava che non ci fosse nessuna famiglia per lui, era stupito perché si era convinto di essere molto simpatico in quanto tutti quelli che passavano vedendolo ridevano. Un giorno anche la mamma venne adottata e Manonèuncane si ritrovò da solo al rifugio. Finché un giorno arrivò un gatto randagio trovato senza un occhio. Manonèuncane rimase meravigliato da questo nuovo ospite che aveva la coda, dei lunghi baffi e le orecchie a punta come lui. Il gatto non aveva molta voglia di fare conversazione così Manonèuncane lo soprannominò l’Orbo. Ripreso dallo shock l’Orbo vide il nostro eroe e gli chiese: “Tu che cosa sei?” e Manonèuncane rispose stupito: “Mi dispiace che ci vedi ancora così male, io sono un cane, che non si vede?” e l’Orbo scoppiò in una grossa risata e gli disse: “Ragazzo a me mancherà anche un occhio, a te però manca il cervello!” Manonèuncane rimase colpito da questa affermazione, e rispose: “Io non ho visto molto il mondo fuori, sono passato dal secchio della spazzatura questo rifugio”

-“Ragazzo non è il mondo che ti manca di vedere devi guardare dentro te stesso per capire chi sei. Ci manca solo che abbai come un cane!”

-“Hai ragione, non sono bravo ad abbaiare, mi sto ancora esercitando”

-“ Smetti di esercitarti allora, prova a fare un miao vedi come ti riesce bene!”

Allora Manonècane provò e gli uscì un miao bellissimo, forte, nitido e spontaneo, proveniente dal cuore. Manonèuncane capì tutto. Capì chi era veramente e non chi credeva di essere. Attraverso le lezioni dell’Orbo imparò ad essere un gatto senza però dimenticare quanto appreso dai cani. Di lì a poco una famiglia si innamorò di un gattino che scodinzolava, e Manonèuncane ebbe finalmente una famiglia. 

 
 


 

Viola Camerelli – Alice Sampaoli – Federico Graziotti
Scuola Primaria “ C. Salvetti “ Classe IV A Pieve Santo Stefano (AR)

 

INVENTA UNA STORIA Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda.

Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre…

Giulia uscì dalla sua cameretta e si avvicinò alla tigre e tentò di farsela amica.

La bambina gli allungò la mano e lei si avvicinò.

Giulia la portò nella sua cameretta e le diede un nome, la chiamò Fulmine.

Da quel giorno fu il suo animaletto preferito. La portava persino a scuola e giocavano sempre insieme.

La sua mamma era tanto felice di vedere la  bambina sempre allegra e che cominciava a scrivere testi sempre più fantastici.

Tutta la famiglia fu molto orgogliosa di lei, che aveva cominciato a prendere voti molto alti.

La famiglia però non sapeva che Fulmine era magica, infatti aveva il dono della parola, ma solo per comunicare con la bambina.

 Giulia aveva intenzione di rivelarlo, ma Fulmine la fermò in tempo e la supplicò di non farlo, doveva essere un segreto tra loro due, se lo avesse rivelato l’incantesimo l’ avrebbe fatta scomparire per sempre.

Questa è la storia scritta da Giulia.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

VIOLA BARRACO, 9 ANNI
SCUOLA PRIMARIA DA ROSCIATE BERGAMO CLASSE 4A

 

STORIA DI UN’AMICIZIA MAGICA

Quel giorno faceva un freddo infernale, nessuno sano di mente avrebbe pensato di poter uscire e raccontarlo a breve, considerando che sarebbe rimasto molto a lungo all’ospedale, paralizzato dal freddo. Nonostante ciò, nello spazio angusto tra due case molto alte, c’era un essere vivente, al freddo, che dormiva saporitamente: era un cane.

Dirlo con tanta spontaneità fa pensare che non ci sia niente di strano in un normalissimo cane che dorme nella neve, data la sua folta pelliccia, invece no: quel cane non era un cane normale ... insomma, non era un cane. Sembrava perfettamente a suo agio, eppure tradiva un intenso sguardo di innaturalezza che non avrebbe assunto nemmeno un cane malato, infatti era una strega. La burrasca che era in corso durò circa sei ore e mezzo e quando fu cessata, e il freddo diminuì, una bambina particolarmente eccitata uscì di gran carriera per andare a giocare con la neve. Fu in quel momento che lo vide o, meglio, la vide. Anche lei era una strega: si chiamava Neve. Alla scuola di magia le avevano insegnato a riconoscere i magici trasformati dal loro aspetto, dal loro carattere e dalle loro abitudini. Vedendo lo sguardo inquieto dell’animale, si avvicinò e quello, capendo che era una strega di cui si poteva fidare, si ritrasformò. - Chi sei? -, le chiese Neve, Come ti chiami? -. - Mi chiamo Fiamma - rispose l’altra. - Cosa ci fai tutta sola? -, le domandò Neve. - E’ una lunga storia e ho troppo freddo per mettermi a raccontarla qui fuori -, disse fiamma. Così Neve la invitò a entrare in casa sua e a raccontargliela. Neve apprese che Fiamma era orfana e, dopo averlo chiesto ai suoi genitori, le comunicò che poteva restare. I genitori di Neve erano sempre gentili e affettuosi nei confronti di Fiamma. Tutti i giorni, al ritorno da scuola, Neve insegnava alla sua nuova amica quello che aveva imparato. In breve, le due bambine diventarono amiche per la pelle, non si separavano mai, per questo si consideravano sorelle. A Fiamma piaceva molto la stanza che condivideva con Neve: era grandissima, adornata con decorazioni di ogni tipo: quadri luccicanti, mobili intarsiati nel legno di larice, bellissimi disegni che Neve aveva incantato e abiti che si cucivano da soli. Un giorno, Neve ricevette una lettera scritta tutta svolazzi che diceva:

Cara Neve,
sarei felice se tu venissi a vivere con me per farmi compagnia.
Poichè sono stata informata che ospiti una bambina a casa tua, mi farebbe piacere se invitassi anche lei. Tua zia,
Rodensia.

Neve corse subito a dare la notizia a Fiamma, che fece salti di gioia. - Zia Rodensia abita a Londra -, le spiegò Neve. Il giorno dopo erano in partenza. Arrivarono a casa della zia di Neve poco dopo: era una villa enorme con una fontana davanti. Zia Rodensia si fece raccontare tutto del ritrovamento di Fiamma, poi si rivolse a lei e le fece una domanda che Neve si poneva da tempo: Cosa ci facevi tutta sola? -. - Cercavo un posto sicuro -, rispose Fiamma come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Zia Rodensia ci pensò su e prese una decisione: avrebbe adottato Fiamma. Il giorno dopo lo comunicò alle bambine, che fecero salti di gioia. Si recarono al tribunale per compilare i moduli necessari e alla fine Fiamma entrò a far parte della famiglia di Neve. 

Da quel giorno Fiamma e Neve vissero felici, sicure che avrebbero vissuto insieme tante avventure.

Fine
 



 
Valentino Ripullone, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye 
 

La storia di Giulia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Tutti potevano vederla. All'improvviso dalla finestra del secondo piano urlò un ragazzo e chiamò la madre. Le altre persone, sentendo le grida, uscirono fuori per vedere che cosa stava succedendo: erano tremendamente spaventate dalla tigre. La tigre saltò nel giardino e dalla finestra del primo piano una signora fece cadere una tovaglia sull'erba affinché la tigre fosse intrappolata. La tigre si mosse velocemente e riuscì a evitarla.

Passava in bicicletta un ragazzo seguito da un cane, la tigre vedendoli si mise a inseguirli, saltò per prenderli ma all'improvviso apparve un domatore che richiamò la tigre. Il domatore prese un cerchio infuocato e la tigre ci saltò dentro. Tutti applaudirono il domatore salvatore che ritornò con la tigre al circo dal quale era scappata.

Giulia concluse il compito. La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 
Valerio C., 13 anni
 

Su un’isola circondata da mare tempestoso un bambino con gli occhiali a specchio, da tempo non faceva un pasto completo. Tutto d’un tratto Jim, così si chiamava, si risveglia per via dei morsi della fame ai piedi di uno spettacolo raccapricciante: la sua imbarcazione completamente distrutta che giaceva sulla riva della spiaggia. Il ragazzino di a mala pena nove anni si mise a cercare tra i rottami qualche superstite urlando i nomi dei genitori e delle poche persone che conosceva all’interno della vecchia nave da crociera. Tutto inutile, quel bambino infreddolito, affamato e pieno di tagli era il solo sopravvissuto di quella colossale barca andata a schiantarsi su questa isola. All’improvviso, poco prima di mettersi a piangere, il bambino sentì dei rumori avvicinarsi verso di lui; rumori di passi di almeno una quindicina di persone che correvano. Quando il ragazzo li vide notò che erano molto strani: avevano la pelle di un color tra il marrone e l’arancione chiaro, erano vestiti con pelli di animali come tigri e giaguari ed erano tutti (compresi alcuni bambini), armati di lance in pietra, archi e cerbottane. Questi individui si fissarono per un attimo e poi si avvicinarono al bambino; avevano capito da subito che era messo male e che aveva bisogno d’aiuto così, riponendo le affilate armi, lo invitarono al loro villaggio. Il ragazzino aveva capito che quella era brava gente e che nonostante i loro strani versi e i segni che facevano agitando le mani, c’era da fidarsi. Arrivati al villaggio, al piccolo naufrago brillarono gli occhi, quella piccola città era identica a quelle che si immaginava quando leggeva i libri d’avventura. Le capanne erano costruite su solide pietre, resistenti tronchi di quercia e moltissime foglie larghe come tovaglie ben assemblate; il tutto reso più magico da una ricca e vasta vegetazione e una cascata che terminava il suo corso in un lago non distante da lì. L’unica parola che uscì dalla sua bocca fu “wow”.  Appena giunti presso una grossa capanna sul picco di una verde collina da cui era possibile vedere qualsiasi cosa, un altro di quegli individui invitò solo il bambino ad entrare. L’interno della casa era molto particolare, su ogni piccolo spazio delle pareti erano accasciati sopra delle mensole, tantissimi barattoli contenenti insetti, erbe, spezie cortecce d’albero e minerali di ogni genere. Sopra un tavolino costruito chiaramente per uso pratico e non decorativo si potevano osservare un mortaio e qualche arnese rudimentale simile a quelli di un medico. Jim non capiva; poi però, l’umo che l’aveva invitato ad entrare gli fece cenno di andare nella stanza seguente. Il ragazzo pensoso allora ci andò senza chiedere spiegazioni perché inutile. Giunto sull’uscio della stanzetta al bambino brillarono gli occhi: se pur doloranti e malandati, vide i suoi genitori, che gli spiegarono come furono trovati per primi e soccorsi da questi “Tiwuayani” sì, così avevano detto. A quanto pare erano sulla leggendaria isola di Tiwuacq; l’unica cosa che uscì dalla bocca del ragazzo fu “ma allora siamo finiti nel triangolo delle Bermuda?”. I suoi genitori a quel punto gli spiegarono che erano stati trascinati lì da un uragano e che loro erano gli unici sopravvissuti. Il ragazzo disse che dovevano trovare un modo per andarsene, ma il padre spiegò che l’isola era situata al centro dell’occhio di un enorme ciclone che oltre a renderli invisibili al resto del mondo, impediva a chiunque abitasse sull’isola di uscirne, anche perché le barche più resistenti che avevano erano comunque in legno. Un momento di silenzio… “non partiremo” disse il padre con tono serio. Aggiunse poi che non avendo alcuno che li aspettasse in patria, quella era la loro nuova casa: avrebbero contribuito al benessere del villaggio e dei suoi abitanti e avrebbero conosciuto nuovi amici. Ci volle un po’ per abituarsi ma infondo, al piccolo Jim stava bene…dopotutto ora si sarebbe potuto sentire come gli esploratori dei libri che leggeva.


 


 
Valerio
 

STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. 

Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. 

Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticcere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone.

Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticcere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa. 

Durante la notte, però, una cucciola di drago si addormentò accanto alla fabbrica; ad un certo punto, la cucciola si svegliò e vide la pasta madre seppellita tre metri sotto la coltre di neve, così scavò e prese la pasta madre.

Camminava senza fretta, finché arrivò alla fabbrica, dove, lavorando la pasta con il suo calore, diede di nuovo …vita alla pasta e…al Natale!!!

 La piccola venne, così, ricordata da tutti per aver salvato la festa più importante del mondo…..IL NATALE!!!.


 


 

Valeria Martinelli   IIIB   Sinopoli
 
I RACCONTI DEL TAVOLO Concorso Palazzo Esposizioni

Nello spazio angusto tra due case molto alte, una misera sagoma scura trascinava il suo corpicino ansimante sull’asfalto. Era un bambino. Avrà avuto circa sette anni, poco più poco meno, non lo sapeva nemmeno lui. Nella penombra si intravedeva una figura gracile, capelli sottili, scuri, e pelle bianca. Pelle che quando non era bianca era verde e quando non era verde era viola. Il corpo fremeva, fragile sotto il vento autunnale che sembrava poterlo spazzare via, e tu più lo guardavi più ti convincevi che l’avrebbe fatto, che d’un tratto la corrente si sarebbe stufata di giocare a questo gioco, perché non c’era partita, e lo avrebbe finalmente scaraventato giù dal ponte, mettendo fine alle sue disgrazie. Il ponte quello piccolo e stretto, che collega il mercato alla parrocchia, di cui non c’è fiume che passi sotto che non è asciutto. Un bel posto devo dire. Il bambino era ancora lì, camminava così, che se lo fissavi ancora un po’ avevi l’impressione che fosse fermo. Gli occhi verdi tendenti al grigio sembravano di vetro. Non mangiava da giorni. Era messo male. Davvero male, anche per un bambino di sette anni che non gioca a baseball ma invidia i cani. Fissava un punto, dall’altro lato della strada, c’era un palazzo in costruzione; uno di quelli alti con poche finestre, che a guardarlo da lì sembrava uno scatolone di latta, come quelli che si usavano una volta per i biscotti. C’era un’impalcatura elevata, bella, molto più bella di come sarebbe stata la casa alla fine; era verde militare, e con tutte quelle travi sembrava un formicaio e gli operai formiche. E sotto, sotto ancora agli operai e all’impalcatura passavano le mamme e le mogli, con i cestini del pranzo ricolmi di pane e marmellata e crostini e ciambelline al vino, che passavano dal fioraio spesso e ridevano quasi mai. C’erano gli operai, c’era l’impalcatura, c’erano le mamme e c’erano le mogli, i cestini del pranzo ed il fioraio, e per ultimo, c’era un piolo. Un piccolo, minuscolo piolo che sporgeva alla base dell’impalcatura. Era da cinque giorni che il bambino fissava quel piccolo errore. Ora non c’erano gli operai, solo qualche mamma, qualche fiore e qualche pezzo di pane. Avrebbe potuto solo sfilare quel piolo, e sarebbe stato tutto così facile. Sarebbe caduta qualche asse, nulla di troppo estremo, forse due o tre assi, sarebbero cadute e avrebbero pensato loro alle mamme e ai fiori, lui avrebbe pensato al pane. Aveva gli occhi verde tendente al grigio. Gli occhi di uno che è appena nato. Gli occhi di uno che sta per morire. Sfilò il piolo. Da quel momento non si capì più quasi nulla, c’era qualcuno che urlava, le assi cadevano giù come bombe, qualcuno cadde a terra. Lui correva, correva solo, con tutte le forze che gli erano rimaste, che erano ben poche. Tutto questo per cosa poi, due pagnotte di pane, ne valeva davvero la pena? Si, si la valeva, avrebbe fatto questo ed altro anche per mezza pagnotta sola. Ad un certo punto non riuscì più a distinguere il sotto dal sopra, e cadde a terra, quella che gli sembrava il cielo. Quando aprì gli occhi grigio tendente al verde era in una cella. Era frastornato, ma non molto stupito. Lo avrebbero trattenuto lì per non molto in realtà, ma l’unica cosa a cui pensò fu che se l’avessero fatto uscire, avrebbe fatto qualsiasi cosa per  tornare dentro. Pane, acqua e una zuppa rancida, pensò, guardando il vassoio accanto a lui. In sette anni non aveva mai mangiato tanto in un solo giorno. Non sapeva dov’era, ma pensò forse in Paradiso. 


 


 
Tommaso, 12 anni
 

INVENTA UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”.

A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre affamata che era scappata da un circo, aveva adocchiato dei piccioni che voleva mangiare. Gli uccelli quando si accorsero della tigre volarono via. La tigre saltò in aria per prenderli e precipitò sulla strada dove, nel frattempo, si era radunata molta folla. La tigre era immobile e non sapeva dove andare, quando ad un certo punto arrivò il proprietario del circo che la prese, si scusò e la riportò nella sua gabbia.

Il signore di un primo piano lì vicino si affacciò per capire cos’era tutto quel trambusto. La signora sopra di lui, dal secondo piano sgrullò la propria tovaglia in testa al signore e sul giardino dove in quel momento stava passando un ragazzo in bicicletta. Allora il signore cominciò a urlare e Il ragazzo, ostacolato dalle molliche che gli caddero in testa, cadde dalla bicicletta e venne morso dal cane col guinzaio rotto che lo stava rincorrendo. 

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA A.S. 2020/2021  IIIª MEDIA

Maria Agnese Biju, Amalia Birsan, Eric Birsan, Carmen Colasanti, Chantelle Crisolo, Arianna Cristenco, Giovanni Garcia, Treesa Kalathoor, Elisa Mathew, Davide Oprea, Simone Valori, Andrea Sam Vidal, Callia Gaby Vidal.
 

GIULIA NEL MONDO DI TREB

Giulia, tornata a casa dalla scuola, iniziò subito a fare i compiti e cominciò proprio dal tema fantasy, che gli aveva assegnato la maestra. Spaesata nelle sue idee fu spaventata da Treb, che disse: «Che fai, usciamo a giocare?» Giulia rispose malinconica: «Non posso, devo fare i compiti…» Treb disse: «Ti posso dare una mano?» Giulia rispose felice: «Sì, per favore». Treb allora chiese che cosa dovevano fare e Giulia rispose che il compito era un tema fantasy. Treb disse: «Facile, basta che ti isoli e ti concentri sul testo!» Così Giulia si concentrò e iniziò a scrivere…

Un giorno sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Questo essere vivente spaventava e affascinava al tempo stesso tutti gli abitanti del mondo magico. La tigre emetteva quel caratteristico ronzio, rilassato e sereno, con gli occhi socchiusi, tutti erano certi che la tigre emettesse fusa di felicità, e lo paragonavano a un piccolo gattino. Ma come siamo arrivati qua? Da dove compare questa tigre? Come è iniziata questa storia? Iniziamo tutto da capo! Giulia, una giovane e bellissima ragazza, stava giocando da sola, nel suo piccolo quartiere. Come sempre sola, stava giocando con i suoi amici immaginari, ma quel giorno c’era solo il suo vecchio amico immaginario Treb. Tutti crederanno che avere un amico immaginario è una cosa da bambini, ma non per Giulia, per lei gli amici immaginari erano le porte che la guidavano nel mondo della magia, amicizia e immaginazione. Mentre stava giocando con il suo migliore amico, lei vide un ragazzo in bicicletta che svoltò l'angolo correndo all'impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto. Il ragazzo aveva la stessa età di Giulia, indossava un maglioncino blu e pantaloncini neri con un casco verde in testa. Vedendo la situazione, Giulia cercò di aiutarlo, prendendo il cane e lo accarezzò. Dopo un po’ quei due iniziarono a parlare:

«Perché stavi correndo come un pazzo, di qua e di là?» disse Giulia.

«Ma non vedi, quel cagnaccio mi stava inseguendo, forse mi voleva mordere o ancora peggio…mangiare!»

A queste parole Giulia iniziò a ridere, tenendo in mano il cucciolo e dicendo: «Questo tenero cagnolino, mangiarti?»; e iniziò di nuovo a ridere. Giulia chiese il suo nome, e lui rispose che si chiamava Martin. Si presentarono. Non so come lo intendiate voi, ma a me sembra che loro due avessero fatto amicizia e tutto il giorno parlarono di tante cose e scoprirono di avere tanto in comune e giocarono insieme. Mentre stavano giocando a Mosca cieca, i due si colpirono per sbaglio, e svennero entrambi. Quando si svegliarono, si trovavano nello stesso posto, ma era molto differente da come era prima. Allora sentirono una voce e videro un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli biondi avvicinarsi, lui gli disse: «Nel mio mondo domina l’immaginazione: ogni desiderio degli abitanti si materializza come per magia.  Non ci sono re, nessun presidente, tranne me e a proposito, non ci sono soldi nel mio mondo, tutto è gratis. Ma non ti è permesso avere più degli altri.  Nulla viene rubato, viene solo richiesto e condiviso. Nel mio mondo tutto è come vuoi tu, qui ogni persona si sente come a casa, questo è come un paese delle meraviglie!»

Giulia e Martin ascoltarono con entusiasmo la descrizione di questo mondo del ragazzo biondo. Poi quando finì, il ragazzo biondo disse a Giulia: «Sono felice che tu sia venuta a farmi visita.» Giulia rimase sorpresa e chiese il suo nome.

Il ragazzo disse: «Come non mi riconosci? Sono io, il tuo amico immaginario Treb, il tuo migliore amico, ricordi?» A quel punto Giulia capì che quando era svenuta aveva perso momentaneamente la memoria e subito dopo si ricordò del suo amico immaginario, che gli era stato sempre accanto, che sempre gli dava una mano. Lo abbracciò e gli chiese scusa per non averlo riconosciuto subito. Invece Martin stava lì a guardare e non capiva la situazione. Osservando questo, Giulia presentò Treb al suo nuovo amico Martin. Dopo aver fatto amicizia, Treb mostrò ai suoi amici il suo mondo pieno di magia e felicità. I ragazzini videro molte cose interessanti, tappeti volanti, fatine che volavano sopra di loro, alberi di zucchero filato, farfalline gommose, c'era anche una cascata di succo d'arancia. L'erba era all’ aroma di vaniglia. I fiori al gusto di panna. Gli abitanti facevano tutti parte dell’immaginazione di Giulia. Principesse e cavalieri, eroi e eroine, e molti altri personaggi che Giulia ha incontrato nelle favole. C'erano diversi animali mitici: la Fenice che portava il simbolo di risurrezione. I ragazzi videro anche Pegaso che volava sopra le loro teste. I Grifoni che giocavano a nascondino con i loro padroni. Gli unicorni che si rincorrevano. Treb continuò a descrivere gli abitanti del suo mondo, dicendo : «Ci sono anche animali normali, ma che nel tuo mondo non puoi vedere sulla strada o sugli alberi; sono animali della giungla o quelli che troviamo allo zoo.  Qui invece puoi incontrarli ovunque. Questi animali, che nella vita reale li considerate feroci, in questo mondo sono così buoni e carini che non farebbero del male a nessuno. Sono come dei cuccioli!»

Adesso siamo tornati al nostro punto di partenza. Sul tetto di una casa comparve una tigre. Questo essere vivente spaventava e affascinava al tempo stesso tutti gli abitanti del mondo magico. L'espressione della tigre emetteva il caratteristico ronzio, era rilassato e sereno, con gli occhi socchiusi, tutti erano certi che la tigre emettesse fusa di felicità e lo paragonavano a un piccolo gattino. La tigre iniziò a scendere le scale di emergenza, per arrivare dal suo padrone. Treb la chiamò e la accarezzo sulla testa. Giulia e Martin rimasero sorpresi della tigre domestica, che quasi sembrava un gatto. I nuovi ospiti del mondo magico erano molto impressionati e volevano esplorare di più questo mondo. Tutti e tre hanno visitato i luoghi più belli di questo posto, hanno cavalcato gli unicorni e volato con il pegaso e i grifoni, hanno giocato con la tigre e altri animali. Ma ad un tratto, incredibilmente, Giulia svenne di nuovo, battendo la testa mentre cavalcava un unicorno. Dopo un po' di tempo lei si alzò e si ritrovò a casa sua, dove una voce dolce gli parlava:

«Giulia, hai finito i compiti? Vieni a fare merenda!» era la sua mamma. A quel punto Giulia si rese conto che tutto ciò che aveva vissuto era in realtà un bellissimo sogno. Quando si alzò dalla sedia, era molto arrabbiata, perché tutto quello che aveva vissuto non era reale, ma all’ improvviso vide un casco verde come quello di Martin... Forse non era proprio un sogno, così Giulia, finita la merenda, uscì di casa con un impermeabile giallo e degli stivaloni, perché aveva paura che piovesse.

Mentre svoltò l'angolo incontrò Martin impaurito. 

«Che cosa hai fatto? Sei pallido!» chiese Giulia.

Martin rispose con un tono cauto: «Ho visto un fantasma». 

Giulia preoccupata e allo stesso tempo incuriosita chiese «Dove?!» 

«Dietro la pasticceria del signor Paolo.» Lei fece uno scatto più veloce possibile, arrivata allo svincolo si fermò, con il fiatone, e si affacciò e all'improvviso si trovò Treb davanti a lei in carne e ossa; Giulia sbalordita disse: «Ma che ci fai te qua?», Treb rispose: «Visto che tu sei venuta a trovarmi nel mio mondo, ora sono venuto io, così mi fai vedere il tuo». Così Treb e Giulia iniziarono a esplorare il mondo, iniziarono dalla pasticceria del signor Paolo. Giulia spiegò: «Fa dei dolci buonissimi, ma non è come nel tuo mondo che non si paga». Una volta preso il cornetto Treb fu sorpreso dall’amarena che uscì dal suo interno, così una volta finito Giulia decise di portarlo in piazza, ma per sua sorpresa incontrò sua madre che appena la vide le corse dietro per sgridarla per non aver finito i compiti; fu subito interrotta da Giulia che gli volle presentare il suo amico, ma una volta finita la frase la madre scoppiò a ridere. Giulia preoccupata le chiese: «Ma perché ridi?» Lei rispose: «Ma di che cosa stai parlando, non c'è nessuno!» «Ma come non lo vedi?» domandò Giulia. 

La mamma si preoccupò: «Ma sei diventata matta?!» Giulia corse verso casa delusa e piangendo. Il giorno dopo, triste, andò a scuola con il foglio in mano. La maestra appena lesse il tema fu sorpresa, gli mise subito 10 e Giulia disse: «L’ho fatto insieme a Treb!»

 
 


 

SCUOLA SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA (VIA DEI CARRARESI 3, ROMA)

CLASSE: II MEDIA

MARCO ALBERTONI, GABRIEL ATIENZA, GIULIA BAGLIVO GIADA D’ARTIBALE, VIOLA DI GIOVANNI, DANYLO NAYDA, ELISA NICOLI, CEDRIC VECINAL, ALEXIA WING
 

CONTEST LETTERARIO “I VOSTRI RACCONTI DEL TAVOLO”

IL MISTERO DEL MEDAGLIONE

Nel 1442 in una caverna senza fondo, c’era una creatura che assomigliava a un cane, camminava senza fretta finché vide qualcosa luccicare e fare strani rumori: era un medaglione speciale, lo indossò e si teletrasportò nel 2080. Trovò tutto diverso. Le verdi e odorose foreste erano state bruciate e la natura aveva lasciato il posto ad enormi e cupi edifici che non aveva mai visto prima. In fondo era un semplice cane, cosa poteva saperne del futuro? Incuriosito e spaventato iniziò a gironzolare intorno, meravigliato di quanto il mondo fosse diverso da come se lo sarebbe mai immaginato. Non sapeva di certo cosa lo avrebbe aspettato di lì a pochissimi secondi. All’improvviso infatti, a tutta velocità, sgommando sull’asfalto rovente, gli si accostò una macchina. La portiera si aprì e ne uscirono tre uomini dall’espressione minacciosa: erano tre viaggiatori temporali, inviati al suo inseguimento per impadronirsi del medaglione. Al suo interno infatti c’era un radar che permetteva la sua localizzazione in qualsiasi momento. Quello che però ancora non sapevano è che il cane era in realtà un mini dinosauro mutaforma, costretto a spacciarsi per un docile cagnolino per poter sopravvivere. Approfittando della sorpresa, la creatura scappò via più velocemente che poteva. Tuttavia durante la frenetica corsa, il medaglione si spezzò in due parti. C’era solo un posto dove poteva essere riparato e per fortuna era il medaglione stesso ad indicare la strada da percorrere. Tuttavia, lungo il cammino, i viaggiatori temporali, che non erano di certo restati con le mani in mano, avevano inserito due prove. Mentre stava camminando arrivò a Yothenaim, una piccola stradina buia e tetra, e trovò una trappola che fece uscire da un passaggio segreto un Crogluid, una creatura brutale e spaventosa. Doveva trovare assolutamente un modo per sconfiggerla, era troppo importante riparare il medaglione. La creatura scoprì che il punto debole del Crogluid era l’acqua. Vide un lago nelle vicinanze così ce lo spinse dentro e il mostro evaporò. La prima prova era stata superata e poteva proseguire il cammino. Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che improvvisamente sotto i suoi piedi si aprì una voragine che lo fece precipitare molto in basso, ai piedi di una maestosa montagna. Per scalarla doveva arrampicarsi su dei sassi, ma alcuni erano una trappola sputafuoco. La creatura provò a scalare la montagna ma era impossibile riuscire nell’impresa. All’improvviso il medaglione aprì un passaggio per entrarci dentro. Si ritrovò così in un negozio di oggetti magici dove incontrò un signore anziano. Scoprì che era il creatore del medaglione. Quello che nessuno avrebbe mai potuto prevedere era che solamente coloro che avessero indossato il medaglione con coraggio e tenacia avrebbero potuto incontrare il suo creatore. Una volta aggiustato, il signore decise di premiare la creatura regalandoglielo così che potesse tornare a far visita all’ anziano tutte le volte che avesse voluto. 

 
 


  
SCUOLA SUORE OBLATE DELLA SACRA FAMIGLIA (VIA DEI CARRARESI 3, ROMA)
CLASSE: I MEDIA  
STELLA CROTTI, ASHLEY DELA CRUZ, SHANELLE GARCIA, GIANLUCA IANNONE, VITTORIA MISSERI, TRISTAN SANGALANG, JAMIELYN SIBAYAN
 

CONTEST LETTERARIO “I VOSTRI RACCONTI DEL TAVOLO”

LA CUCCIOLA KIRA

C’erano una volta due regni in lotta fra loro per ottenere la supremazia sul pianeta Terra, il regno umano e quello dei draghi. La guerra durò molti anni e gli umani erano sul punto di sconfiggere il regno opposto al loro. Nel popolo dei draghi c'erano tre famiglie e ognuna possedeva un potere specifico: la più maestosa era quella della luce, la più popolare quella del ghiaccio e la più ardente quella del fuoco. Ciascuna delle tre famiglie depose un unico uovo in tre luoghi diversi; quello della luce precipitò in una caverna senza fondo, quello di fuoco nel cratere di un imponente vulcano e quello del ghiaccio negli abissi dell'oceano. Tuttavia l'uovo di luce si schiuse prematuramente emanando un forte bagliore nella fossa senza fondo. In quello stesso giorno un gruppetto di quattro ragazzi andò in escursione vicino alla fossa e ad un certo punto vide dal basso sprigionarsi una luce potentissima. I ragazzi, spaventati terribilmente, scapparono. Tutti tranne Priscilla che restò ferma vicino alla fossa per ispezionare al meglio il motivo di questa forte luce improvvisa. La ragazza curiosa di sapere cosa ci fosse lì sotto scivolò piano piano tra i bordi ripidi della fossa. Una volta raggiunto il punto più basso, vide una cucciola di drago che si nascondeva impaurita dietro un enorme guscio. Il suo manto era arricchito da scaglie lucenti, aveva dei dentini sottili e affilati e degli occhi grandi e profondi da cui traspariva la paura che provava verso la ragazza. Priscilla allora cercò di tranquillizzarla dandole delle leggere carezze con la mano sinistra. La cucciola, capendo che la ragazza non era una minaccia, decise di fidarsi di lei ed iniziò a saltellarle dietro seguendola. Appena uscite dalla caverna, situata all'interno della fossa, Priscilla nascose il drago dentro un velo che trovò impigliato tra le rocce. Una volta arrivati a casa corse nella sua stanza e, togliendole il velo, posò la cucciola a terra per cercare di capire quale fosse il suo elemento. La ragazza provò in tutti i modi a farle manifestare il suo potere ma la cucciola sembrò non voler rispondere a comando. Da quel giorno Priscilla trattò la cucciola come un animale domestico, solo perché le voleva troppo bene per trascurarla, come se loro due fossero unite da qualcosa di inspiegabile e profondo. Le diede anche un nome, Kira. Il giorno seguente, non appena si alzò dal letto, vide che Kira non era nella sua stanza, così andò nel panico finché non sentì dei forti rumori provenire dal suo cortile. Era Kira che mandava segnali di luce in cielo formando delle scritte. La ragazza alzò lo sguardo e vide che erano apparse delle frasi che le chiedevano di portare Kira ad un vulcano di nome Kensusci, situato negli abissi dell'oceano. Lei, una ragazza di 14 anni non poteva certo andare in quei luoghi da sola, erano troppo pericolosi! Kira con i fasci di luce le diceva che in quei luoghi c'erano le ultime uova di drago nel mondo. Priscilla doveva assolutamente trovare un modo per portare le uova da lei. La ragazza pensò che dato che l'uovo di Kira si era schiuso allora c’era la possibilità che anche le altre uova si sarebbero aperte. A quel punto Kira con tutte le sue forze sparò in cielo un raggio di luce fortissimo; aveva la forma di un drago luccicante che volava verso il vulcano e l'oceano. Passò un'ora e il drago di luce tornò con due draghetti sopra di lui. La ragazza felice fece correre Kira con i suoi simili. Dopo due settimane di allenamento i draghi erano pronti a volare verso le loro famiglie. Priscilla era triste e Kira voleva restare con lei ma la ragazza, capendo che era il momento di andare, disse addio a Kira stringendola forte al suo petto. La ragazza allora le diede il velo con il quale la avvolse quando, impaurita e indifesa, l’aveva trovata nella grotta. Kira subito dopo si sentì pronta per volare dalla sua famiglia. Da quel giorno Kira conserva gelosamente il velo che gli diede la ragazza.


 


 
Sara
 

C’era una volta, in una caverna senza fondo, una cucciola di drago che dormiva in un sonno profondo. Si chiamava Anna al padre questo nome piaceva perché lei era dolce come la panna. Riposava beatamente quando si svegliò improvvisamente. Sentì come uno sparo, suo padre le disse che era tornato l’ uomo avaro. La cucciola di drago, infastidita d aquesto suo ritorno, chiese al padre di bruciarlo in un forno. Ma il padre le disse: “siamo draghi per bene noi, se te ne vuoi proprio sbarazzare, devi chiedere consigli ai maghi”. Così la piccola volò fino al caminetto del mago Carletto. Il mago sorpreso le chiese: “Anna! Quanto tempo! Oggi sei venuta con tutto questo vento?”. Ho bisogno del tuo aiuto! L’uomo avaro non ha ancora ceduto! Non lo sopporto, vorrei fargli anche io in qualche modo un torto. Speravo che mi potessi aiutare visto che non hai niente da fare” disse Anna. Il mago ci pensò e gli venne un’ idea dopo un po’: “non ci serve la magia, ho ideato un’ infallibile strategia! È attratto dai soldi. Dobbiamo dirgli che in fondo alla grotta  di soldi c’è ne sono secchi colmi! Lui non sa che laa grotta non finirà. Ma talmente è grande la sua passione che non abbandonerà la sua missione!” Anna la trovò un’idea splendida. Risalì dal caminetto del mago Carletto, lo ringraziò e a casa ritornò. Comunicò l’ idea al padre. Il padre approvò e il piano Anna attuò. Convinse l’ uomo  avaro ad andare sul fondo della grotta e gli disse di stare attento a non prendere una botta. L’ uomo senza farselo ripetere due volte iniziò a correre senza neanche prendere qualcosa da bere. Anna, suo padre e la comunità dei draghi poterono da quel giorno in poi affidarsi alle idee dei maghi.


 


 
Roberta Bonati, 12 anni, classe II media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye

 
Estate sotto terra

Seduto sopra il melo, il ragazzino pensava. Si chiamava Ronald e aveva 12 anni. Era allampanato e aveva degli occhiali spessi e a specchio, rotondi, “come quelli di Harry Potter” commentava sua madre. Aveva i capelli rosso ruggine, ma a lui non piaceva usare l'aggettivo ”rosso”, preferiva che si dicesse “ramato”. Così nessuno lo avrebbe preso in giro chiamandolo ”Pel di carota”. Gli occhi erano di un banale verde-marrone. A Ronald piaceva leggere libri di azione, e aveva sempre la testa tra le nuvole. Forse era per questo che gli piacevano tanto le altezze. Era timido e veniva bullizzato da quasi tutti i suoi compagni, se non ignorato completamente.   

Ronald aspettava. Non sapeva bene chi o che cosa, ma aspettava. L’arrivo di un’avventura forse? Ad ogni modo, sarebbe dovuto scendere dal suo amato albero di lì a poco, visto che era quasi ora di cena. Infatti, dopo qualche minuto…

- Ro-oon! La cena è prontaaaa! - era suo padre.

 Il ragazzino scese con un sospiro dal melo. Oh, quanto odiava quel diminutivo, tratto dalla saga di Harry Potter come anche il suo nome intero. Non lo sentiva suo, come se lo avesse preso in prestito.

A tavola, suo padre lo interpellò:

- E così domani vai alla Baita con il tuo amichetto…

- Sì

- Come si chiama poi? Un nome buffo…

- Trille

- Ah ecco, come la fatina…

- Non TRILLIE o TRILLY, si chiama Trille

- E cosa ci andate a fare, alla Baita?

- Un giro, in bici

-  State attenti, mi raccomando…

A quel punto intervenne la madre, ridendo:

- Ma lascialo respirare, per l’amor del Cielo! Hanno dodici anni, sanno cavarsela!

- Sarà… ma se torna a casa con la testa rotta, io non lo porto all’ospedale.

E così la discussione finì.

Il giorno dopo, puntuale come sempre, Trille si presentò davanti al cancello della casa del suo amico. Trille, un ragazzo abbronzato, biondo e con gli occhi blu, era l’unico amico di Ronald e l’idolo delle ragazze di tutto il paesino. Era alto e muscoloso e aveva sempre caldo (forse perché i suoi erano Norvegesi?). Era sportivo e, a dispetto degli stereotipi, anche il migliore della classe. Non se ne vantava, però, ed era sempre pronto a difendere e ad aiutare gli altri.

- Ciao Ronny! - Esclamò tutto contento quando vide l’amico

- Ciao! Ehy, forte la nuova bici che ti hanno regalato!

Si batterono il cinque e Ronald stava per montare in sella quando, dalla veranda, uscì una bambina di cinque o sei anni, con i capelli di fiamma, che si aggrappò alla gamba del fratello iniziando a strattonarla quasi volesse staccarla:

- Voglio venire pure io! - Strillava - Pure io!

Ronny, imbarazzato, guardò l’amico che gli rispose con un cenno della mano, quasi a voler dire “Lascia fare a me”. E lo fece. Prese in braccio la bambina urlante e la tenne sospesa per le ascelle, guardandola negli occhi. Lei smise di scalciare e il suo volto si adombrò.

- Come ti chiami?

- Ariel

- Non ci credo

- Ti dico di sì

- Vabbè, se vuoi essere chiamata Ariel, ti chiamerò così. Senti, tu non puoi venire con noi oggi, perché tuo fratello e io partiamo per un’avventura. Dobbiamo scoprire se lassù - e indicò la vetta di una montagna - se lassù ci si può abitare o no. Ed è molto pericoloso. Per andarci hanno fatto un concorso di coraggio, e io e tuo fratello abbiamo vinto. Infrangeremmo le regole se venissi anche tu, capito?

Lei annuì, controvoglia.

- Bene, adesso ti metto giù e tu vai a giocare con i tuoi peluches, va bene?

Ronny lo guardava ammirato e un po’ sconcertato: non aveva mai sentito l’amico mentire così. Regolato il problema, i due partirono. Ci misero ore ad arrivare alla baita, per cui ci rimasero male quando, sulla loro roccia del  pic-nic trovarono già qualcuno .

Una ragazzina della loro età con i capelli corti e scuri, vestita con un paio di pantaloncini al ginocchio e una T-shirt blu e rossa, voltava loro le spalle, scrutando l’orizzonte. I ragazzi si avvicinarono.

- Possiamo? - domandò Trille.

Era buffo chiedere se si potevano sedere su una roccia che consideravano come la loro e ben presto si ritrovarono tutti e due a rotolarsi per terra dalle risate. La ragazzina si voltò, stupita, come se li notasse per la prima volta, rivelando un paio di occhi scuri, profondi ed enormi. Contagiata dalle risate, si ritrovò a rotolare anche lei nel prato vicino ai ragazzi. Quando si furono un po’ calmati, si sedettero tutti sulla roccia a gustarsi i panini che si erano portati e a chiacchierare.

- Ma tu chi sei? - Chiese Trille alla ragazzina - Non ti ho mai vista da queste parti.

- Vengo da Londra, ma prima ancora abitavo nel nord Italia. Sono nata lì, e anche i miei genitori. Al momento vivo con la maestra, che si è offerta di ospitarmi finché i miei non compreranno una casa. Sapete, abbiamo già venduto quella di Londra e i miei pensavano di comperare questa. E indicò La Baita.

I ragazzi sgranarono gli occhi.

- Ma come ti chiami? - chiesero all’unisono i tre - E giù di nuovo a ridere.

- Mi chiamo Rona… Ronny.

- E io Trille.

Le labbra della ragazzina si strinsero. I ragazzi capirono che forse avevano toccato il tasto sbagliato.

- Chiamatemi Roby, disse infine lei.

I ragazzi non fecero commenti: come Ronny si era presentato con il suo diminutivo, anche lei poteva benissimo farlo. Ci fu un attimo di silenzio, poi Roby cominciò a raccontare:

- I miei genitori volevano chiamarmi con un nome che avesse come diminutivo Roby. Roberta era il più probabile. Ma mia nonna voleva chiamarmi Berta, mio nonno Betta e via così. Sapete, io di cognome ni chiamo Bertolini… Alla fine, da Roberta si è passati a… promettete di non ridere!  I ragazzi giurarono. Bene, si è passati a Robertina, concluse con un sospiro Roby.

Ronny e Trille  ebbero non poca difficoltà a rispettare il giuramento: Robertina era un nome che non stava proprio bene alla loro nuova amica, figuriamoci Robertina Bertolini. Poi si indignarono: cosa si erano impicciati a fare, i nonni di Roby? E poi, che razza di nome era, Robertina Bertolini? Non avevano saputo trovare niente di meglio?

- Ma cos’è che fissavi, quando siamo arrivati? - Chiese Ronny per togliere la tensione.

- Niente di speciale, solo pensavo che là - e indicò una roccia - che là ci fosse l’ingresso di una grotta sotterranea.

- Be’, a guardare meglio… si potrebbe pensare… andiamo a vedere!

Si alzarono tutti e, correndo, si accalcarono intorno alla roccia. Sotto, c’era davvero un’aperture abbastanza grande perché un ragazzino ci potesse sgusciare dentro .

- Caspita! C’è una grotta lì sotto!

- Prendo la torcia per ispezionare il buco!

Ma la torcia non c’era.

- Devo averla dimenticata a casa!

- Pazienza, tanto non avremmo avuto tempo di esplorarla  a dovere: guardate, il sole sta calando.

Al  che i ragazzi si ricordarono che dovevano essere a casa per l’ora di cena. Si affrettarono quindi a raccogliere le loro cose e a scendere, con Ronny e Trille che portavano le bici a mano.

Lungo il tragitto escogitarono un piano:

- Sentite, chiediamo ai nostri genitori e alla maestra se possiamo fare una gita di due o tre settimane vicino alla Baita; ci portiamo le tende ed esploriamo le grotta. Tanto, ormai siamo grandi, e una vacanza da soli non ci fa male…

Tutti approvarono e approfittarono del resto della camminata per conoscersi meglio. Venne fuori che Roby era figlia unica e che però aveva un gatto, Mao. Ronny raccontò che lui aveva due fratelli maggiori, una sorella maggiore e cinque fratellini minori: due femmine e tre maschi.

- E come si chiamano? - Volle sapere Roby

- Lily, Marcus e Philip che hanno 20, 17 e 15 anni, snocciolò Ronald, poi ci sono io,  Ginevra e  Julian, Anastasia e  George e Dick, di 12, 9, 6 e 4 anni. I gemellini sono pestiferi.

Poi fu il turno di Trille che raccontò di aver avuto un fratello maggiore, André, che però era morto in guerra e del quale conservava un vaghissimo ricordo.

Quella sera, a cena, Ronald ottenne a  fatica il permesso di fare la gita, ma alla fine riuscì a convincere i suoi a lasciarlo andare.

Per Trille fu molto più semplice: gli bastò pronunciare la parola “campeggio” che subito i suoi si dilungarono  in ricordi di scampagnate  e gli accordarono il permesso come se fosse la cosa più naturale del mondo.      

Così l’indomani mattina, si trovarono tutti e tre davanti all’inizio del sentiero che portava alla Baita, con Ronny che quasi era schiacciato dall’enorme zaino gonfio.

- Mio padre ha preparato da mangiare per un reggimento, sbuffò, e poi ho anche coperte e une tenda enorme completa di materassini gonfiabili e fornelletto a gas… per non parlare delle bibite e dei fiammiferi, le batterie della torcia e lo spazzolino da denti…
- Vieni Roby, andiamo a casa e lasciamo lì gli zaini: porta tutto Ronny, rise Trille.
- IO non ho tutta quella roba, solo dei panini che basteranno come massimo per una settimana, una torcia e una coperta.

- Idem

- Ragazzi, potete prendervi qualcosa dal mio zaino, se volete…

Tutti risero e alla fine si suddivisero il peso dello zaino di Ronny, poi si incamminarono.

Lungo il tragitto, i ragazzi ridevano e scherzavano euforici. Dopo tutti i libri di avventure che avevano letto, ecco finalmente che ne capitava una anche a loro.

Arrivati alla Baita, Trille propose di andare subito nella grotta, ma gli altri due gli fecero notare che non era il caso di scendere laggiù nella notte e senza aver mangiato niente. Così decisero di piantare la tenda e di rifocillarsi prima di coricarsi ed accumulare energie per l’esplorazione del giorno successivo.

- Però non so voi, ma a me non piace tanto l’idea di accamparmi vicino a una casa… è come dormire in un sacco a pelo nella stanza dove c’è un letto… - osservò Roby.

- Hai ragione, concordò Ronny, cerchiamo una radura non troppo lontana da qui.

Così i ragazzi lasciarono il sentiero per addentrarsi nel bosco. Dopo pochi minuti di cammino, si imbatterono nel paradiso: il bosco finiva all’improvviso in uno spiazzo di erba morbida, verde e profumata, punteggiata da rocce bianche e chiazze d’edera. Nel mezzo, scintillante e limpido, scorreva un torrente dall’argine di pietra che si allargava in un punto ed era  contornato da una striscia di sabbia da un lato e da scogli bianchi dall’altro. Sembrava abbastanza profondo per farci il bagno. Accanto al ruscello, sull’altra riva, cresceva un arbusto che si sporgeva sull’acqua creando una grotta verde sulla superficie gorgogliante del fiumiciattolo. Come in trance, i ragazzi posarono gli zaini e si avvicinarono al nastro argentato e puro.

- Non so voi, ma io resto qui…

Poi si riscossero: quel posto era fantastico, ma c’era del lavoro da fare. In quattro e quattr’otto, Roby montò la tenda che Trille non era riuscito neanche ad aprire, Ronny raccolse delle pietre e dei legnetti per fare un falò e Trille estrasse dagli zaini le altre cose utili e necessarie. Poi si prepararono i letti con dell’edera mettendo sopra una coperta sottile di protezione e delle coperte più spesse per coprirsi. Inoltre montarono il tavolino e le sedie del papà di Ronny, ma lasciarono nello zaino la cucina portatile completa di forno e frigorifero.

Si sedettero infine stanchi e soddisfatti intorno al fuoco e aprirono le scatole e i sacchetti contenenti il cibo.

- Mmmmh, panini e rouleaux al formaggio, al prosciutto e al tonno!

- Torta salata alla carne, crostata al formaggio, sfoglia all’uovo e pancetta?! Ma quante persone pensano che debbano  mangiare, i tuoi?

- Ve l’ho detto che hanno preparato da mangiare per un reggimento… sarà che sono abituati a sfamare tante persone…

- Cavoli! C’è anche un’insalata di riso, della pasta fredda e dei peperoni ripieni!

- E degli hamburger, con salsa piccante e salsa barbecue

- E piadine, tacos e pizza, focacce e pasta al ragù!

- Cosa attacchiamo per primo?

Alla fine decisero di mangiare la pasta al ragù con una mela per dessert. Terminato il pasto, si sdraiarono sotto le stelle, sazi. Poi entrarono nella tenda e si addormentarono.

L’indomani mattina, alle cinque in punto, tutti i ragazzi si svegliarono. Visto che nessuno riusciva a riaddormentarsi, si alzarono e fecero il bagno nel torrente. Si schizzarono e si divertirono molto, ma poi dovettero uscire dall’acqua perché avevano freddo. Fecero colazione con delle brioches al cioccolato della maestra e una cioccolata calda fatta sul fuoco e poi decisero che era il momento di scendere nella grotta.

- Ci servirà una corda

- Anche due

- E del cibo

- Dell’acqua

- E anche un paio di torce

- È tutto pronto? Bene, andiamo!

E si avviarono verso la grotta. Arrivati all’apertura, Trille volle scendere per primo, ma Roby gli strappò la corda di mano dicendo che era stata una sua scoperta e che quindi doveva scendere prima.

- È tutto buio! Lanciatemi giù una torcia accesa… Caspita! È proprio una grotta! Venite!

-Ecco!

- Wow!!

E l’eco amplificò l’esclamazione di Ronny in modo sinistro.

Il ragazzino rabbrividì. La grotta continuava a destra, mentre a sinistra c’era una parete di terra.  

Chiunque avesse scavato quella grotta, doveva averlo fatto per un motivo preciso. Dovevano scoprirlo!

- Forse è un passaggio segreto!

- O forse è il covo di qualche brigante!

- E se trovassimo dell’oro?

- Sarebbe fantastico!

- È già fantastico!

- Dai, andiamo!

E si incamminarono. Di tanto in tanto c’erano dei bivi e allora andavano sempre a destra per potersi ricordare da che parte andare al ritorno.

Ma dopo ore di cammino, quando avevano già mangiato tutte le provviste e il loro entusiasmo era smorzato, i ragazzi decisero che non era il caso di continuare;

- Torniamo alla tenda, vi prego! - Ansimava Ronny da più di un’ora. Questa volta, però, gli altri due annuirono, stanchi.

- Che delusione, però!

- Già, si direbbe che sia una grotta senza fondo…

- Torniamo

- Sì…

E così si voltarono e proseguirono nel senso inverso.

- Ormai saranno le dieci di sera, sono stanco e ho fame, piagnucolava Ronny.

- E piantala!

Quando aveva fame, Trille poteva diventare aggressivo.

- Piantala tu!

Non litigate, non avete più 5 anni! Sbottò Roby, che era stata zitta per tutto quel tempo.

Anche lei era stanca e affamata, ed era anche molto seccata: aveva scoperto una grotta proprio inutile! Era anche preoccupata: e se le torce avessero smesso di funzionare? E se avessero sbagliato strada? Una marea di domande una più angosciante delle altre le si affollavano in testa. Avrebbe tanto voluto dare sfogo alle sue ansie, ma non le sembrava il caso: c’erano già i ragazzi che facevano i pappamolla, ci voleva pur qualcuno che tenesse in mano la situazione e che avesse un po’ di senno! Però le davano proprio sui nervi, i due piagnucoloni!  

Ma poi tutti iniziarono a sentirsi meglio: riconoscevano le pareti, meno umide e con più crepe,  Roby affermò perfino di aver riconosciuto un buco a forma di banana, cosa che li fece ridere tutti. Rincuorati, i ragazzi passarono l’ultimo bivio correndo. Tutt’a un tratto, Trille si arrestò:

- Stoop! Qui c’è la parete! Il buco dovrebbe essere sopra di noi!

- Cavoli! Fa talmente buio che non si vene neppure il cielo!

- Arrampichiamoci su!

- Ma dov’è la corda? Non l’avevamo lasciata appesa?

In effetti la corda che i ragazzi avevano usato per calarsi nella grotta era sparita…

- Adesso lancio la corda che  non abbiamo ancora usato…

- Aspetta, usa un rampino…

- Hai pure i rampini?!

Beh, almeno tornano utili…

Roby lanciò il rampino, ma questo cozzò contro qualcosa di duro e rimbalzò giù.

- Qualcuno ha chiuso l’entrata della grotta con dei massi!

- Credi che siano dei banditi?

Ronny era terrorizzato. Perché l’ingresso era chiuso? Chi lo aveva chiuso? Certo qualcuno che sapeva che loro erano giù e che li voleva tener prigionieri. Oppure il contrario. Poteva benissimo essere stato un turista che aveva chiuso l’entrata per paura che qualcuno ci cadesse dentro…  I due ragazzi avevano ricominciato a litigare. Roby pensò in fretta.

- Si potrebbe… esordì - I ragazzi si zittirono a metà di un insulto - Si potrebbe cercare di aggirare la pietra…

- Impossibile!

- E come?

- Ascoltate: la parete è di roccia, e noi sappiamo che la pietra che ci sta quasi sopra è larga più o meno un metro, giusto?

- Emmh…

- Se te ne sei accorta tu…

- Siete insopportabili, a volte! Dunque, calcolando che adesso siamo più o meno a tre metri sotto terra e che se scaviamo quasi a metà della roccia, dobbiamo calcolare che dobbiamo scavare di 50 cm a destra e 3 m in alto. Quindi, facendo un rapido calcolo… - Qui Roby si fermò a pensare - quindi dobbiamo scavare un passaggio di 35°! - Esclamò infine. Poi, dando un’occhiata agli amici disse:  - C’è qualcosa che non va?

- No, è solo che pensavo che se mai verrai a scuola con noi, Trille avrà una degna avversaria…

- Sciocchi! Pensate a lavorare!

- Noi?!

- Beh, sì, io sono la mente e voi le braccia, no?

- Ah ah ah , diverteeente.

E i tre si misero al lavoro. I calcoli di Roby erano giusti. Se avessero infatti scavato una galleria meno in pendenza, avrebbero finito dopo ore. Invece, scavando un passaggio ripidissimo, i tre finirono in quarantacinque minuti. Che fatica però!

A mano a mano che si approssimavano alla superficie, dei rumori si avvicinavano, fino a diventare delle voci sommesse, poi sempre più chiare. Erano voci d’uomini, probabilmente due, che sembrava bivaccassero intorno a un fuoco nelle vicinane. I tre riuscivano a sentirne il crepitio.

- Quanto manca, genia? - Domandò Ronny col fiatone.

- A occhio e croce tre centimetri, rispose lei

- Ottimo!

- Shhht! Ascoltiamo cosa dicono!

Dall’altro lato della crosta di terra che li separava dalla superficie, le voci si sentivano ormai parola per parola.

- Ehi John! Passami il vino!

- No Tom, finiresti per ubriacarti!

- E dai, cosa siamo venuti qui a fare, divertiamoci!

- No! Sono io il capo, ricordi? Sono io che ho scoperto la mappa!

I ragazzi sussultarono: una mappa, proprio come in un romanzo!

- Conoscete qualche John o Tom? Domandò Roby.

- No, io conosco tutti in paese, ma c’è solo un nostro compagno di classe che si chiama Tom, che non beve e che ha la voce stridula - rispose Trillle.

Era preoccupato: tempo prima, aveva sentito nominare una mappa che indicava dove fosse nascosto il tesoro del milionario Philip Frederic Thomas Winston, morto anni prima lasciando un’eredità immensa a chi l’avrebbe trovata. Un vecchio squinternato, del quale non era certa neppure l’esistenza. Eppure i due avevano parlato di mappe. Che fosse quella che tutti credevano una leggenda? Trille lesse nello sguardo di Ronny la stessa inquietudine, e decise che era il caso di condividerla con Roby, casomai lei fosse stata al corrente di un qualche pezzo di una qualche storia per completare l’enigma. 

- Roby…

- Eh?

E Trille raccontò le sue paure. Roby ci pensò su e poi disse:

- Sentite, io non so niente di questa storia, ma è evidente che stiamo per finire in un’avventura. Ora sta a noi decidere: o aspettiamo che quei due si addormentino e poi frughiamo tra le loro cose, o saltiamo fuori sfruttando l’effetto a sorpresa, li aggrediamo e ci facciamo dire tutto. Personalmente non credo che la seconda idea sia la migliore: non sappiamo se i tipi sono armati, ma di sicuro sono adulti e potrebbero essere pure adulti massicci, quindi io aspetterei.

- Ottima idea - approvò Ronny, che amava molto di più le avventure vissute in terza persona, piuttosto che quelle che lo riguardavano direttamente. Quanto avrebbe voluto essere rimasto nella sua affollatissima casa, al sicuro e al caldo!

E così aspettarono. Quando alla fine le voci furono sostituite da un russare sonoro e potente, i ragazzi uscirono all’aria aperta, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della notte.

- Forza!  Sussurrò  Roby, perquisiamo i loro bagagli, ma fate silenzio!

- Sì…

Gli uomini erano proprio brutti: uno dei due, il più grosso, aveva barba e capelli ispidi e neri, un nasone arrossato e occhietti porcini e cisposi. Puzzava. L’altro era magro e secco, con un sacco di brufoli pieni di pus, un naso arcuato e appuntito e dei capelli unti e grigi, ma che un tempo dovevano essere stati biondi. I ragazzi storsero il naso, poi si misero al lavoro. Perquisirono ogni tasca degli zaini, gli involucri e persino le calze che indossavano i due omaccioni. Ma niente. Per cui si ritirarono nella tenda, stanchi.

- Per fortuna non si sono svegliati!

- E per fortuna la tenda è ben nascosta dalla vegetazione!

- Di’ un po’, ma tu usi sempre termini scientifici?

- La tenda è mimetica…

- Ma è enorme!

Buonanotte…

E i tre dormirono fino al giorno dopo.

Quanto ai due ceffi, il loro risveglio fu causato da una pioggerellina fitta fitta, insistente.

- Mannaggia a te, che non hai voluto portare una tenda!

- Senti chi parla! La baita è aperta, ma il Signor-non-voglio-attirare-l’attenzione non ha voluto entrarci! Certo, perché nel giardino della baita, di fianco al sentiero, l’attenzione non si attira!

- Se tu avessi portato una tenda!

- Cosa! Adesso la colpa è mia?!

E i due,  pur di non dare ragione all’altro, restarono lì a bagnarsi.

- Almeno controlla che la mappa sia al sicuro!

- Ok, ma il vecchio Winston sa come fare le cose: la pergamena è stata cerata dopo che l’inchiostro si era asciugato, a me mi sa che è al sicuro dalla pioggia.

- Sgrammaticato! Non si dice “a me mi”, ma però per questa volta ti perdono. Ora esegui l’ordine, quante volte devo ricordarti che sono io il capo?!

Tom frugò nelle coperte nelle quali dormivano e tra le quali i ragazzi non avevano osato guardare.

- Ehi John, c’hai tu la mappa?

- Ma cosa ti salta in mente? Certo che no!

- Che strano! Eppure non la trovo…

- Idiota! Adesso la trovo io!

I due uomini si misero a frugare tra le coperte fradice, ma non trovarono niente. iniziavano a inquietarsi.

- Qualcuno è stato qui! Te l’avevo detto di non ubriacarti, vecchio sudicione, ma te niente, e adesso guarda che disastro! Non ti sei svegliato nemmeno quando ti hanno alzato la testa per prendere la mappa!

- Se tu eri così sobrio, perché non ti sei svegliato, te?

- Non si dice “te”, si dice “tu”!

- Anche te l’hai detto!

- Silenzio! Sto pensando! - E John si mise a riflettere:

-  Se della gente è stata qui, deve averlo fatto dopo che ci siamo addormentati, ma prima che iniziasse a piovere, perché sennò verremmo le orme.

- Vedremmo…

- Zitto! Quindi la gente è stata qui tra l’una e le sei di mattina… Ma noi ci siamo addormentati profondamente alle due, quindi sono venti tra le due e le cinque e mezza, perché noi ci siamo svegliati alle sei, quando già il ladro doveva essere andato via da un pezzo…

- Però sembravi scemo, invece…

- Cretino! Non vedi che ormai il ladro sarà lontano! Ed è tutta colpa tua!

Intanto i ragazzi, svegliati dalle grida precedenti, avevano origliato tutto.

- Quindi la mappa esiste davvero!

- E quei due ceffi l’hanno trovata!

- E adesso qualcuno l’ha presa!

- Aspettate! Ronny guardava i suoi amici con gli occhi che brillavano. Ieri notte, quando ho alzato la gamba di quel tipo, Tom, ho trovato tra le coperte una busta. Soprappensiero, l’ho presa. E se contenesse la mappa o un indizio?

- Perché non l’hai detto subito!? Voi maschi non vi capirò mai!

- Dai, aprila!

Ronny prese una busta, normalissima se non  per il fatto che non c’era né mittente né francobollo. Ronny l’aprì con le mani che gli tremavano. Una pergamena cadde dalla busta. Evviva! L’avevano trovata! Sempre con mani tremanti, Ronny raccolse il foglio cerato e lo aprì. Sopra c’erano dei tratti di inchiostro nero e uno rosso, che segnava probabilmente il percorso da seguire. Ronny stava per ripiegarla, sconsolato: non ci capiva niente.

- Aspetta!  - Urlò Roby - Quella sembra la mappa della grotta!

- È vero! Hai ragione!

- Caspita, che avventura!

- Guardate: in questo quadrato in alto a destra ci sono le indicazioni per trovare l’entrata: questo rettangolo  è la baita, questo cerchio è la roccia del pic-nic e quel triangolo è la roccia che nasconde il buco dell’entrata! È cerchiato in rosso!

- Wow! Con questa potremmo orientarci benissimo nel cunicolo!

- Guarda! Alla fine del tratto rosso la caverna si allarga e c’è una X!

- Già, è vero!

Estasiati, i ragazzi non si erano accorti che nella busta era rimasto un foglio. Quando se ne accorsero, capirono che era una lettera. Trille la lesse ad alta voce:

Cari Tom e John,

spero che voi stiate bene. Sarete contenti di sapere che sono riuscita a trovare la mappa nella casa di un antiquariato, a Cardiff. Purtroppo non posso venire con voi, perché mi sono presa in casa una ragazzina londinese, una nuova alunna ( Ronny e  Trille  guardarono Roby, allarmati. Lei era impallidita.) Spero che la mappa vi tornerà utile.

Vostra,

Hanna

- Non è possibile! La maestra, la signorina Lockmeen, non farebbe mai una cosa del genere.

- Ecco perché non voleva mandarmi a fare questa gita!

- Ma come facciamo ad andare nella grotta e a trovare il tesoro?

- Non lo so, per ora restiamo qui nascosti.

- Shut! Arriva qualcuno!

In effetti, dopo poco delle voci echeggiarono nella radura.

- Ti dico che qui saremo più al riparo!

- Io dico di no!

- Zitto! Là c’è una tenda!

- Pfff! Campeggiatori!

- Entriamo a chiedere un caffè?

- Nascondi la mappa, svelto! Intimò Roby dentro una tenda.

Ma Ronny non fece in tempo, perché due secondi dopo, la zip della tenda si abbassava e la testa barbuta di John si affacciò.

- Possiamo? Domandò con falso garbo. Poi la sua faccia cambiò alla vista della pergamena. La pelle divenne paonazza, il naso ancora più grande e la bocca si aprì per lasciare uscire una serie di parolacce e insulti:

- E così siete stati voi! Luridi mocciosi, ve la farò pagare! E adesso ridateci la mappa!

- Mai! - Urlò di rimando Roby, coraggiosamente.

- Ah, è così eh! Bene, allora tenetevela pure, la mappa, ma portateci al tesoro! Così ci risparmieremo la fatica di decifrarla!

- No!

- Ah, sei una ragazzina testarda, eh? I tuoi amici però non sono così coraggiosi… o stupidi.

Infatti Ronny, e persino Trille, stavano tremando dalla paura.

- Vediamo come reagisci di fronte a questa! - E il tipo estrasse un pistola dalla tasca interna del suo impermeabile. Roby impallidì.

- Va bene, vi guideremo nei sotterranei, tanto noi li abbiamo già visitati, ma il tesoro è ancora lì, giuro!

- Lo spero bene, perché se ci state giocando un brutto tiro…

La mente di Roby lavorava in fretta. Se solo ci fosse stato il modo di bloccare quei tipi nei sotterranei… per cercare un’idea, si guardò nervosamente intorno. Lo sguardo le cadde sul tratto rosso della mappa. Bisognava svoltare sempre a sinistra, ma il giro si allungava anche se si faceva destra-sinistra… forse... Era una follia, ma bisognava tentare. Con la scusa di chinarsi ad allacciarsi la scarpa, la ragazzina sussurrò ai ragazzi, ancora pietrificati dalla paura:

- Se faccio o dico cose strane, non reagite. Ho un piano per incastrare quei due e anche la maestra. Mettetevi in tasca dei panini e dell’acqua, ne avremo bisogno.

Trille annuì, poi si riscosse un poco. Ronny era sempre immobile.

- Ehi, Pel di carota, datti una mossa! - Lo schernì Tom.

L’insulto servì a far rinsavire Ronny, che arrossì fino alle orecchie e cominciò a prepararsi.

Quando scesero nei sotterranei, l’ottimismo di Trille era migliorato: aveva piena fiducia in Roby, la quale, invece, era sempre meno sicura: c’erano talmente tante cose che potevano andare male!

Erano ormai cinque ore che camminavano, Roby aveva proibito ai ragazzi di mangiare e permesso loro di bere un solo sorso di acqua. I due uomini erano stanchi, imprecavano, ma non avevano il coraggio di fare del male alla loro guida: avevano il terrore di restare intrappolati lì dentro.

Dopo sei ore e mezzo che camminavano, Ronny era sull'orlo di una crisi nervosa, l’ottimismo di Trille si era smorzato e i due uomini imprecavano sempre di più. Solo Roby sembrava calma, riposata, quasi allegra. Il suo piano stava funzionando alla perfezione! Dopo un’altra mezz’oretta, il cunicolo sfociava nella caverna segnata sulla mappa. Era una caverna scavata nella roccia, normalissima. I due uomini crollarono. Avevano dormito pochissimo e avevano camminato troppo, non avevano mangiato niente e avevano molta sete.

Crollarono esausti per terra, ordinando ai ragazzi di dissotterrare il tesoro.

- Bene! Esclamò  Roby, adesso mangiamo e torniamo indietro, lasciando qua questi ceffi! Scommetto che non si muoveranno da qui!

- Tu sei matta! Geniale, ma matta!

I ragazzi trangugiarono i panini, bevvero l’acqua e in tre ore erano di nuovo in superficie. Bloccarono l’entrata con dei massi e poi filarono giù in paese, intanto che Roby spiegava il resto del piano agli amici.

Arrivati al villaggio, i tre filarono dritti dalla maestra. Entrarono sbattendo la porta e si gettarono, in lacrime  false, contro la maestra.

- Maestra, maestra! È successa una cosa orribile! - Singhiozzò Roby.

- Ditemi bambini, cosa è successo!

- C’era una catasta di pietre…e poi è caduta…sul buco… e poi delle voci da sotto terra…

- Due uomini Urlavano di lasciarli uscire...

- Noi abbiamo provato… ma le pietre non si spostavano… e mamma e papà non ci credono.

- Spiegatevi meglio! Non capisco niente! - esclamò la maestra.

E così Roby raccontò che dei massi erano caduti sopra un buco, nel quale erano probabilmente scesi degli uomini, che avevano gridato per essere liberati, ma che i massi non si spostavano e che i genitori di Trille e Ronny non credevano alla storia.

Così convinsero la maestra ad andare con loro alla Baita. Arrivati lassù, Roby lasciò cadere un foglietto con le scritte “svoltare sempre a sinistra”. Poi Ronny lo trovò accidentalmente.

-  Guardi, signora maestra! Può essere un pezzo di annotazione degli uomini! Magari il buco da su un passaggio… potrebbe seguire anche lei queste indicazioni! - Esclamò il ragazzino con il tono più innocente che riuscì a trovare.

- Bravo Ronald! Seguirò il tuo consiglio, e chissà che io non riesca a trovare quegli idioti di Joh… voglio dire, quei gentiluomini imprigionati là sotto!

I ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa.

- Possiamo venire anche noi?

- No, meglio di no. Potrebbe essere pericoloso.

I ragazzi si fecero l’occhiolino. La maestra scese aggrappata alla corda con la torcia tra i denti, cosa che fece quasi soffocare Ronny e Trille, nel loro tentativo di celare le risate.

Quando la luce della torcia fu scomparsa dalla loro vista, i ragazzi rimisero a posto le pietre e poi si sorrisero.

- Bene! La nostra avventura è quasi finita! Anche se la maestra sa come tornare indietro, non penso che ci metteranno meno di tre ore. Forza, alla polizia!

Quando tre ragazzini senza fiato irruppero nell’ingresso della stazione di polizia, il carabiniere alla reception fu stupito di capire che la richiesta di quei ragazzi era vedere il commissario. Ma la ragazza, che sembrava il capo, era talmente sicura di sé che il poliziotto li accompagnò nello studio del commissario Smith.

Roby prese la parola, salutò rispettosamente e si mise a raccontare. Mostrò le prove e quando arrivò alla parte dell’imbroglio alla maestra, Smith rise. Era proprio un tipo simpatico. Aveva ascoltato con pazienza e attenzione, e si era stupito dell’abilità dei ragazzi. Alla fine della storia, esaminate la lettera della signorina Lockmeen e la mappa che sembrava proprio un pezzo di antiquariato, il commissario pensò che valesse la pena di credere ai ragazzini: se fosse stato uno scherzo, avrebbe saputo lui come sistemarli, i bambini!

Ma non era uno scherzo. La polizia guidata dal commissario in persona salì sulla montagna, e vide subito gli oggetti di Tom e John. Poi i ragazzi mostrarono loro il buco, e insieme scesero nel cunicolo. Roby faceva strada, mentre Trille chiacchierava allegramente con un poliziotto amico di suo padre e Ronny mangiava un panini offertigli da una poliziotta bionda. Incontrarono i malviventi a metà strada. Come aveva previsto Roby, i tre erano stati colti con le mani nel sacco, e non provarono nemmeno a inventare scuse. Hanna si limitò a lanciare un’occhiataccia ai suoi ex allievi mentre il commissario le metteva le manette.

- E cosa ne facciamo del tesoro? - Domandò un poliziotto al suo capo. Il commissario  sorrise ai ragazzi e poi rispose: - Credo che questi ragazzi lo meritino più di chiunque altro, tanto più che sono stati loro a scoprirlo!

E così i ragazzi dissotterrarono l’eredità, se la divisero equamente e diventarono gli idoli di tutti i loro compagni.

La loro vita cambiò: i genitori di Ronny, apprese le sue avventure, diventarono meno assillanti e protettivi, mentre quelli di Trille, spaventati e ammirati, decisero che d’ora in avanti sarebbero stati un po’ più attenti al loro unico figlio.  I genitori di Roby, d’altro canto, acquistarono la Baita e diventarono i maestri della scuola del paese. Ma loro non rubarono mai delle mappe importanti.
 
 


 
 

 


 

RICCARDO PELINI, 12 ANNI
I.C.S. ACQUASPARTA - SCUOLA SECONDARIA I GRADO GALILEO GALILEI
 

INVENTA UNA STORIA

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.  Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… 

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.”  Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere: 

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Poi, come in una giungla, un ruggito. Forse era un leone. Sopra un albero, una scimmietta saltellava su una grande foglia, facendo cadere le goccioline di rugiada che vi erano sopra. Poi, scattante come non mai, un’antilope rincorsa da un feroce lupo.

Giulia lasciò che la penna perdesse lo scontro contro la gravità. Mentre cadeva a terra, lei capiva che Treb aveva ragione. La fantasia, per quanto straordinaria, non è altro che un modo diverso di sognare. Sognare significa guardare il mondo da un punto di vista diverso e più ampio.

Perciò lasciò scrivere la storia al gatto, alla signora, all’urlo ormai scomparso, al ragazzo preda e al cane. Quando avranno finito, Giulia non farà altro che filtrare il racconto che nascerà. Lo renderà più epico, più fantasioso. Infine, l’impulso oculare verrà trasformato in realtà grazie alla mano armata di penna. 

Et voilà: ecco che un mondo di inchiostro si sarà generato su un pezzo di carta che prima era bianco. 

Ma aspettate! Giulia sta tornando a scrivere!

Attenzione! La scimmia, quel dì, sempre scherzosa e ignara del mondo circostante, stava continuando a bagnare di rugiada il terreno.  Ma ecco qui che commette un errore madornale: una moltitudine di goccioline d’acqua si abbatterono sulla tigre. No, non era più una tigre: era una bestia, feroce come il fuoco, scaltra e sfuggente come le ombre, forte come la roccia, ma incapace di fare un salto di tre metri, da una grondaia arrugginita nella giungla ad una foglia che aveva la forma di una tovaglia, per attaccarla.

Non potete immaginare cosa successe dopo…

La tigre fece un balzo, ma cadde e atterrò sul lupo. Erano entrati in un duello aperto. Il premio sarebbe stato l’antilope. Il lupo balzò sulla tigre, ma mentre si stavano azzannando, di nuovo un ruggito. Avete mai sentito dire a un leone “Mamma lasciami in pace ormai sono grande!”? Io no. Nonostante ciò, il tono con cui era stato detto spaventò tutti. Scena ancora più strana è quella che è venuta dopo: i tre sembravano anche arrabbiati con il leone misterioso. Perciò salirono sulla montagna, fino ad arrivare alla caverna da cui proveniva il ruggito. Purtroppo, malgrado bussassero alla porta, l’essere misterioso non la aprì… 

Scusate, meglio dire che non spostò la pietra che dava libero accesso alla caverna.

Giulia continuò a scrivere.

Nelle storie i narratori hanno sempre la panoramica di ciò che accade. Ma siccome io sono alle prime armi, mi limiterò ad inventare come si svolse il combattimento di quei tre.

La tigre bagnata scattò all’inseguimento dell’antilope. Il lupo, invece, iniziò a rincorrere la tigre. Così si sviluppò una spirale animata che si muoveva scendendo per tutto il palazzo-montagna. In tutto questo, l’attenzione della scimmia si concentrò sul gigantesco rumore che facevano i tre. Iniziò a tirargli una moltitudine di cose per farli zittire: bucce di frutta, noccioli di pesca e di albicocca, qualche mollica di pane e dei giornali usati. Non immaginate che baccano si creò! Ma piano piano l’agitazione diminuì, come quando si esce di casa lasciando il fuoco senza brace.

Alla fine, tutti si calmarono e se ne andarono via. 

L’aspetto più importante di questa storia, che è lasciata in sospeso, è l’esperienza che hanno vissuto tutti e cinque. Questa è la vita. È come se ognuno di loro avesse attaccato al proprio corpo un filo invisibile che si allunga ad ogni loro passo. Dovete pensare a come cinque esseri viventi siano riusciti ad intrecciare i fili delle proprie vite con gli altri: in questo modo si è creato un legame che rimarrà per sempre. 

Ecco. Il messaggio è che in ogni nostra azione o esperienza noi stabiliamo dei contatti e dei legami con l’ambiente circostante. Il nostro mondo è ricoperto dagli intrecci di questi fili, che possiamo distinguere soltanto grazie all’immaginazione.

Sembra che questo pomeriggio sia stato superfluo ed inutile per le loro vite, ma non è così: la nostra esistenza è caratterizzata da moltissimi aspetti diversi. E tra loro non ci sono discriminazioni: momenti di felicità e di gloria si alternano a momenti di rabbia e paura, tristezza e vergogna. Ma il bello è che ognuno di loro, poco o tanto importante, rende la nostra esistenza sempre più colorata e complessa. Ogni momento sa lasciare il segno.

È così che Giulia finì il suo testo. Lo dedicò al suo amico immaginario. In quel pomeriggio lei aveva capito molto sulla vita. 

Quando sembra che tutto vada storto… inclina un po’ la testa. Quell’inclinazione è l’immaginazione. C’è bisogno di cambiare il nostro sguardo da “orizzontale” a “obliquo” almeno una volta al giorno, perché sognare significa uscire fuori dagli schemi. Così si cambia il mondo. 

Tutto ciò lo ha raccontato Giulia alla maestra. L’insegnante vorrebbe un autografo dai cinque protagonisti, anche se le basterà quello di Giulia, la pontefice dell’immaginazione, l’intermediaria dei sogni.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.
 
 


 

Riccardo Brunetta, 9 anni
Classe IVB
Scuola Primaria “G. Pascoli” Bassano  Bassano del Grappa
 

Il regno dei draghi

Sui rami di un albero un cucciolo di drago riposava beatamente, quando vide uno stormo di draghi, scese dall’albero e spiccò subito il volo. Quando li raggiunse avvistò sua madre e le corse incontro velocissimo. Poi, quando fu vicino alla testa, la madre lo vide e disse al capo dei draghi di scendere. Atterrarono sulle montagne del nord che erano invisibili agli umani. Furia Buia, il nome del nostro piccolo grande guerriero del futuro, si chiamava così perché non sputava fuoco ma raggi al plasma. 

Dopo una breve sosta ripresero il volo e si diressero nella regione di Kandrax. La regione di Kandrax era un’isola nel cielo dove gli umani potevano introdursi. Quando la raggiunsero era piena di draghi di ogni dove, cuccioli e adulti. 

Furia Buia fece subito amicizia con un altro draghetto di nome Furia di Fuoco. Era suo fratello. 

Furia di Fuoco si chiamava così perché lanciava fiammate potentissime. Lui e suo fratello giocavano insieme ogni giorno, anche con altri draghetti. Giocavano al tiro al bersaglio e alla lotta. I giorni passavano e i piccoli fratelli erano diventati dei draghi adulti. Ormai avevano delle ali molto grandi e possenti. 

Un giorno un temporale potente gli fece rintanare nelle varie grotte nella regione di Kandrax. Il giorno seguente Furia Buia, Furia di Fuoco e i loro amici andarono a esplorare la montagna della regione di Kandrax. La montagna, in realtà, era un vulcano inattivo da secoli risalente all’epoca dei draghi colossali. I draghi colossali sono draghi giganti e molto rari da avvistare. 

Ma torniamo all’avventura dei nostri amici… Arrivati in cima al vulcano videro un drago colossale che gli disse: “Siete destinati a un grande futuro” e poi scomparve nelle tenebre…

 

 


 
Riccardo, Viola, Caterina

 
STORIA DI NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.  

Durante la notte, proprio nel momento in cui se ne andava con le lacrime agli occhi, la pasta risalì dalla terra. Non aveva il solito colore giallastro, era verdognola con macchie marroni e degli occhi rosso fuoco con sfumature verdi, viola e blu. Era così brutta che era impossibile paragonarla a qualcuno o qualcosa. Era un vero e proprio mostro! E poi sembrava una melma! Da quell'insieme di acqua e farina, sui fianchi, si crearono delle braccia. Da ciò che doveva essere il polso uscì ancora impasto. Contemporaneamente alla creazione del polso anche il viso stava mutando: tutto l’impasto attorno agli occhi si stava spostando creando una bocca dal ghigno malefico, un naso enorme e un sacco di rughe sulla fronte e sulle guance. Poi altra pasta risalì da sotto la fabbrica, spaventosa come la prima. Questa si trasformò prima in un pallone, diventando sempre più grande fino a creare una mongolfiera. Di melme se ne crearono altre 10, 50, 100! Erano tantissime. Gran parte dei mostri andò verso le entrate della fabbrica per creare i panettoni e gli altri salirono su mongolfiere appena create. Non partirono subito, aspettarono l'uscita dei pasticcieri-mostri, poi volarono alti nel cielo fino al centro della città. C'era un via vai di mongolfiere, di pasta madre e di panettoni. Al giovane pasticciere tornando a casa, proprio sulla soglia di casa, cadde in testa un panettone. Aveva lo stesso marchio della fabbrica in cui lavorava, ma era più piccolo dei panettoni che faceva lui. Stava nel palmo di una mano. Tolse la plastica che lo ricopriva e lo divise a metà. Dentro c'era un “nucleo” verdognolo. Si girò, andò verso il marciapiede e guardò in cielo. Un cane molto grosso, correndo, gli rubò il panettoncino e corse via. Il pasticciere ormai stanco dalla giornata lo seguì. Dietro l’ angolo c’era il cane che stava mangiando il tesoretto. Quando il ladruncolo si girò aveva occhi e naso verdi. Il giovane si avvicinò per calmarlo, ma il cane cadde a terra in un sonno profondo. Questa era la prova che doveva fermare quei mini-panettoni e i loro creatori. Anche se era un abilissimo pasticciere, volle chiedere aiuto al padrone della fabbrica, che era suo padre. Gli raccontò tutto e insieme decisero di fermare ciò che creava quegli strani panettoni. Andarono alla fabbrica. Appena arrivati davanti al cancello si nascosero dietro al muretto e, vedendo tutte le melme all'opera, presero un colpo. Al padrone dell'edificio venne un’ idea, entrare o dal retro o dalla botola sul tetto. Entrare dal retro era molto pericoloso, quindi decisero di entrare dalla botola. Il figlio, oltre a essere un grande pasticciere, era un appassionato di droni e aggeggi volanti. Portava sempre con sé il telecomando del suo drone preferito che tirò fuori dalla tasca. Pigiò alcuni tasti e il drone arrivò con un ronzio. Attaccarono delle corde al robot volante e si legarono in vita le altre estremità. Mentre fluttuavano in direzione del tetto erano accompagnati dalla colonna sonora delle urla di paura del padre. Quando toccarono le tegole il padrone si ricompose e notò meravigliato quanto fosse semplice entrare nella sua fabbrica. Sul tetto c’era una botola di legno con una maniglia di ferro. Dopo averla sollevata, entrarono e si ritrovarono in un corridoio molto lungo, con pareti, soffitti, pavimenti e oggetti così bianchi da accecare. C'erano due cartelli, su uno era scritto

”uscita”, sull’altro “centro”. Optarono per andare nel “centro”. Appena arrivarono, un enorme insieme di panettoni era sparso sul pavimento. Nel mezzo c’era una grande macchina da dove uscivano un sacco di panettoncini incartati. Di fianco alla macchina c’era un cubo di metallo con sopra delle leve, completamente circondato da panettoni. Il giovane pensò di spegnere la macchina abbassando le leve con il suo drone. Prese il telecomando e mise in atto il suo piano. Delle melme erano nascoste nella montagna di panettoncini e iniziarono ad inseguire i pasticcieri.

Anche il drone si spaventò e cadde a terra con un sonoro “baam”. Tutti, padri, figli e mostri, iniziarono a correre. L’inseguimento durò per molto, ma le melme furono seminate in un labirinto di corridoi bianchi. Senza farlo apposta finirono davanti ad una porta candita con appeso un cartello “import export”. Proprio il luogo che cercavano. Quando entrarono furono sorpresi dalla vista di quella stanza; pensavano di trovare un sacco di melme, ma c'erano soltanto due portoni sulla parete in fondo e qualche scatolone al centro della stanza.  Nessun movimento. Fino a quando i portoni in fondo alla stanza si aprirono leggermente con un cigolio. Uscì un’enorme melma che guardò prima i pasticcieri poi la stanza. Sembrava che fosse cieca perché, probabilmente, non aveva visto gli inaspettati ospiti che gli passarono proprio di fianco uscendo dalla stanza. Dovevano trovare un modo per impedire alle melme di portare quei panettoncini avvelenati a tutta la città. Attraversarono ancora un paio di corridoi e arrivarono nel corridoio che portava all'uscita. C’era una finestrella dove, per caso, il giovane buttò un attimo l'occhio: c’era una mongolfiera che stava per partire e nel cestello c’era scritto “La mongolfiera del re”. Senza perdere tempo ordinò di saltare all’interno del pallone di pasta madre. Quando partirono si dovettero appiattire per non abbrustolirsi con le fiamme vivaci del bruciatore. Arrivati sopra la periferia della città si decisero a buttarsi in un combattimento con le melme. Le melme dalla paura caddero dal cestello creando dei laghetti di pasta madre sui tetti delle aziende industriali. Il proprietario della fabbrica se la cavava a guidare la mongolfiera e il giovane a osservare dove avrebbero potuto essere le altre melme. Notarono un gruppo di mongolfiere in una stradina. Stranamente solo uno dei tanti mostri stava portando i panettoncini, ma c'erano tanti panettoni davanti alle porte. Al giovane venne un’idea. Chiamò i suoi droni, mentre, il padre, fece degli strani versi per ”contattare” dei suoi vecchi amici. Arrivarono dei giocatori di wrestling in groppa ai droni. Il padre sorrideva mentre il figlio era preoccupato che i droni, sotto un sacco di muscoli, potessero cedere. Era una visione comica, ma non era il momento per ridere e scherzare. Dovevano impedire l’addormentamento di tutta la città. Si divisero: i droni con il figlio e gli atleti di wrestling con il padre, per la sicurezza di quei droni.

Anche divisi lavoravano velocissimamente. I droni mettevano i panettoni dentro grandi sacchi, invece i giocatori di wrestling li spezzavano e toglievano il nucleo.

Stranamente entro la mezzanotte riuscirono a sbarazzarsi di tutti i panettoncini. All’alba del giorno di Natale idroni,  utilizzando dei tubi di aspirapolvere, risucchiarono tutta la pasta madre sparsa nella città. Poi la buttarono dentro i forni della fabbrica dove si trasformò in panettoni salutari, questa volta. Li incartarono e li distribuirono a tutti. Come ringraziamento, il sindaco della città volle dare ai salvatori un allargamento della fabbrica. Il padre, però, decise in andare in pensione e lasciò l'azienda nelle mani del figlio.


 


 

Di Praiseaiyosagie Okunwague
Scuola Secondari di Primo Grado – I.O Carsoli

 
IL PANETTONE E LE MAGIE DEL NATALE

Natale si avvicinava, ma la fabbrica di panettone non sembrava voler riaprire i battenti. Due mesi prima il padrone, con il cuore stretto, aveva annunciato ai dipendenti di essere costretto a chiudere l’azienda di famiglia, lamentando la crisi del settore e la forte concorrenza dei dolci allo zenzero di origine nordica. Per due mesi, ignorando i divieti di ingresso appesi alle porte, un giovane pasticciere si era introdotto di nascosto nei locali della fabbrica, per mantenere in vita la pasta madre necessaria alla lievitazione del panettone. Ma la vigilia di Natale, persa ogni speranza, con un gesto tanto triste quanto simbolico, il giovane pasticciere decise di seppellire la pasta madre sotto la fabbrica stessa.

Durante la notte inaspettatamente, scese un angelo che toccò la pasta madre e la rese magica recitando queste parole: “Con il potere da me conferito, o pasta madre, diventa magica per ogni persona che ti toccherà e che nello stesso tempo crederà nel Natale!”.

Nel lungo andare, passarono giorni e ormai il proprietario della fabbrica, di nome Arnold Smith, aveva già firmato le carte in cui si dichiarava che la fabbrica non fosse più sua; dopo questo fatto, quindi, si trasferì altrove.

Ma, se la sua fabbrica aveva chiuso, ce n’era un’altra, quella dei dolci allo zenzero, che stava facendo molti soldi: i dolci allo zenzero erano ovunque.

In quei giorni, vicino alla fabbrica di panettoni gironzolava una bambina che amava curiosare. Un giorno, dal momento che la fabbrica era ormai abbandonata, insieme con i suoi amici andò ad esplorarne l’interno. Si divisero la struttura in piccole frazioni così da sondarne ogni angolo. A lei spettò il primo piano. Lo esplorò tutto. Ad un tratto, vide qualcosa per terra illuminarsi; si chinò e scoprì che era solo una moneta da 10 centesimi. Ma, poi, rialzandosi, dritto davanti a sé, vide un'alta cosa illuminarsi: credeva fossero altri 10 centesimi, ma, invece, trovò una pasta illuminata. Allora, per lo stupore e la meraviglia, la prese con sé, e decise di tenerla, come un segreto da custodire in silenzio senza metterne al corrente i suoi amici.

Tornata a casa, scoprì che era già pronta la cena. Mentre era seduta a tavola, la bambina si accorse che i suoi genitori non erano contenti, quindi, per rompere quel gelo, chiese loro come fosse andata a lavoro e i genitori risposero un po’ affaticati e svogliati: “Bene figliola, ma questo lavoro è molto impegnativo e non ci appassiona sempre…”. Allora subito la figlia capì  che la fabbrica di panettoni, che era il luogo del loro vecchio posto di lavoro, mancava loro molto. La bambina, poiché il discorso era avviato, emozionata, tirò fuori la pasta madre che aveva con sé e disse che l’aveva trovata sotto la fabbrica. Chiese poi ai genitori se la vedessero illuminata e loro, sempre molto tristi, risposero di no. La bambina rimase scioccata. Nella sua mente vorticavano mille pensieri. Dopo cena andò subito a letto perché il giorno seguente aveva deciso che avrebbe perlustrato la zona della fabbrica un'altra volta. Mentre dormiva, le apparve un angelo che le disse: “Se terrai con cura la pasta madre, avrai tante soddisfazioni. Mi raccomando, promettimi questo: che crederai sempre nel Natale!”. Lei rispose convinta con un tono da vera avventuriera: “Si, lo farò!”. Dopo l’accaduto, andò dai genitori e disse: “Mamma, papà: credete nello spirito del Natale?” e loro risposero con in bocca un pezzo di dolce allo zenzero: “Non tanto. Abbiamo qualcos'altro a cui pensare, cara.” Ma lei, convinta di ciò che faceva e dell’obiettivo da raggiungere, non si arrese e continuò: “Mamma, papà: facciamo l’albero di Natale! Facciamolo insieme”. I genitori risposero che non avevano voglia, né interesse, ma lei insisté:” Fatelo per la vostra unica figlia!”. Così si convinsero e fecero l'albero con tante luci, palline e decorazioni varie. I genitori, dimenticando le preoccupazioni degli adulti e riscoprendosi bambini, si divertirono moltissimo e piano piano, dedicandosi a realizzare quelli che erano i simboli del Natale, cominciarono a vedere la pasta madre illuminarsi. Era il segno che la bambina aspettava! La figlia, dopo tutto questo, chiese un unico favore ai genitori: “Per favore, con questa pasta magica potete farmi un panettone, proprio come facevate una volta a lavoro?” e i genitori, contenti, risposero di sì. Lo realizzarono ma questa volta aggiungendo l'amore del Natale che avevano acquisito. Fecero quindi un nuovo tipo di panettone che chiamarono “Pandoro” e lo dedicarono alla figlia. Lei, mangiando questa squisitezza, ebbe un'idea: disse ai genitori di spendere i risparmi accumulati per il suo futuro scolastico per riniziare la loro attività di pasticcieri di dolci natalizi. Loro, all’inizio indecisi, ci pensarono un po’ e poi dissero: “Ok! Lo faremo per te”.

E così aprirono un di nuovo la fabbrica, vendendo sia pandoro che panettone.

Scoprirono che, ogni volta che una persona del mondo credeva nel Natale, la pasta madre si moltiplicava: quindi, avevano pasta madre infinita! Dopo l'apertura, scoprirono, inoltre, che sul piano economico mondiale avevano superato in dolci distribuiti e venduti la fabbrica dei dolci allo zenzero. E così ebbero finalmente una famiglia felice, con un lavoro felice, ingredienti fondamentali per poi avere una vita perfetta, cioè… felice!

Con questo racconto abbiamo imparato che il Natale, il giorno della nascita del Signore, è quel giorno in cui possiamo e dobbiamo stare di più in famiglia per accudire l’amore reciproco con l’aiuto e la solidarietà.


 


 

Paloma Bertoncello, 9 anni 
Classe IVB Scuola primaria “G. Pascoli” Bassano del Grappa
 

C 'era una volta sui rami di un albero un bambino con gli occhiali a specchio, riposava beatamente quando sentì un rumore che proveniva da un cespuglio dietro l'albero, il bambino si avvicinò al cespuglio, controllò e si accorse che c'era una piccola creatura. Era di un colore violaceo, il bambino prese la creatura e la portò a casa. Pensava che sua madre non gli avrebbe mai fatto tenere la creatura allora la mise dentro una scatola e la nascose nell'armadio. Si chiese cosa mangiasse, gli venne in mente che da qualche parte avrebbe dovuto avere un libro che parlava di tutte le creature del mondo. Trovò la pagina giusta, il nome preciso era Ocxamy. Il libro diceva che la creatura si cibava di insetti e piccole piante. Passarono gli anni, il bambino con gli occhiali a specchio era ormai diventato un ragazzo anche l'Ocxamy cresceva sempre di più. 

Un giorno però la creatura non entrava più nell'armadio. Così il ragazzo fu costretto a prendere una decisione molto triste: decise di portare la creatura nel posto dove l'aveva trovata, ossia nel bosco vicino a casa sua. Prese la bicicletta e l'agganciò a un vecchio carretto, fece salire la creatura e la copri con un telo. Partirono per il bosco, arrivarono, al ragazzo cominciò a far scendere  qualche lacrima e  gli disse: "Verrò a trovarti tutti i giorni dopo la scuola" e dopo un minuto sparì nel fitto bosco.


 


 

Pablo Cacace, 9 anni
Classe IV B Scuola Primaria “G. Pascoli” Bassano del Grappa
 

Giulio e il mondo magico 

Giulio era un bambino avventuroso e coraggioso, aveva sette anni e viveva in un paesino vicino al mare con mamma e papà. Giulio indossava un cappello di lana e degli occhiali a specchio molto buffi, ogni volta che andava in passeggiata col suo cane di nome Dragon. Un bel giorno di sole Giulio andò in passeggiata in centro col suo cane, a un certo punto, gli venne fame; in fondo alla strada vide un negozio di caramelle e decise di andarci. La proprietaria del negozio era molto misteriosa, gli aveva raccontato un sacco di storie fantastiche finché era rimasto lì e, alla fine, prima di salutarlo gli aveva regalato un sacchetto di caramelle dicendo erano magiche. Giulio incuriosito le mangiò subito e finì catapultato assieme a Dragon in un mondo magico! Dragon il suo cane era diventato un cucciolo di drago e per i due comincio un’avventura indimenticabile! Pensate che erano diventati amici di un unicorno e una ciambella che aveva gambe e mani proprio come lui. Sapete come li avevano conosciuti? Li avevano conosciuti durante un’avventura bellissima quanto importante. l’avventura consisteva nel prendere la pietra lunare per il sindaco che era ammalato, essa si trovava nella cima del Monte Luna. Partirono subito a passo svelto e la loro avventura cominciò. A metà strada conobbero il Signor Ciambella, con il quale si fermarono a fare una bella chiacchierata. Lui era molto simpatico proprio come Giulio, erano molto simili e diventarono grandi amici. Il signor Ciambella chiese a Giulio se poteva unirsi a loro ed ovviamente lui disse di sì! I tre ripresero il cammino; erano quasi in cima ma la strada era bloccata da massi e sassi enormi come elefanti. Ad un certo punto, comparve un unicorno, era spettacolare. Il Signor Ciambella lo conosceva, quindi lo presentò a Giulio e Dragon. I quattro diventarono amici per la pelle, ed a Giulio venne un’idea geniale per superare gli ostacoli: il Signor Ciambella salì in groppa a Dragon e Giulio sopra l’unicorno. Spiccarono il volo sorvolando i massi, raggiunsero la cima in un batter d’occhio e presero la pietra lunare. Tornarono a gran velocità dal sindaco che grazie ai poteri magici della pietra guarì. 

Alla fine della storia il nostro protagonista fu proclamato dal sindaco il protettore ufficiale della città magica. 

 


 
classe 3 A della scuola primaria di Volargne ( IC Dolcè Peri)
 

Inventa una storia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante.” Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere…

Un giorno sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Era possente con delle grandi zampe, il pelo striato, nero e arancione, luccicava al sole. Sembrava molto curiosa di esplorare il tetto della casa.
La tigre si aggirava fiutando l'aria e ad un tratto sentì un buon profumino di costine. Guardò in basso e vide un signore che grigliava della carne in giardino. Così la tigre con un balzo afferrò le costine alle spalle del signore e se ne andò con la pancia piena. Quando il signore si voltò per cuocere delle salsicce, si accorse che mancavano metà costine! Si guardò attorno incredulo e intravide la coda della tigre! Cercò di raggiungerla ma in quel momento passò nella via un ragazzo che correva all'impazzata in bicicletta inseguito da un cane. La tigre vide la scena e presa dal suo istinto predatore, con un salto scavalcò il cancello e si lanciò all'inseguimento.
Il signore della griglia, sorpreso e confuso, portandosi le mani alla testa
urlò: -Una tigre ha rubato il mio pranzo!- A quelle parole sua moglie al secondo piano iniziò a gridare.
Una signora al primo piano, scuotendo la tovaglia, non si accorse del mattarello che cadde proprio ai piedi del signore della griglia il quale, arrabbiato per non aver mangiato, raccolse il mattarello e uscì inseguendo la tigre. La signora al primo piano, gelosa del suo mattarello, scese le scale e corse dietro al suo vicino.
Così il ragazzo in bicicletta si trovò inseguito da un cane, da una tigre, da un signore con un mattarello e una signora con lo sguardo piuttosto infuriato. Girato l'angolo, quei bizzarri corridori, passarono davanti all'entrata dello zoo "Parco Natura Viva". Il custode del parco si accorse della tigre scappata. Iniziò a tremare e a sudare freddo e preoccupatissimo gridò: - Oh no, la mia tigre Laila! Devo assolutamente catturarla! -  così salì sul suo monopattino elettrico e con la strada in discesa si unì velocemente alla corsa.
Il ragazzo, il cane, la tigre Laila, il signore della griglia, la signora del primo piano e il custode in monopattino correvano all' impazzata e non si accorsero della macchina della polizia parcheggiata a lato della strada. I poliziotti, stupefatti, accesero la macchina e con la sirena altissima partirono a tutta birra per fermarli.
 I “corridori” correvano così veloci che non si accorsero di essere entrati in una gara di corsa campestre. Superarono gli atleti professionisti e in lontananza scorsero il traguardo. Il ragazzo in bicicletta vide il nastro rosso, tentò di frenare ma tutti i suoi compagni di corsa gli ruzzolarono addosso alzando un gran polverone e… vinsero la gara! 
Il pubblico applaudì con entusiasmo.
Arrivò a premiarli, con una coppa d'oro, il presidente della corsa. A quel punto la polizia lasciò perdere e decise di non multare nessuno.
Finalmente tornarono a casa: il ragazzo fece amicizia con il cane, la tigre Laila tornò allo zoo con il custode e il signore della griglia decise che avrebbe invitato tutti per una buona grigliata. La signora del primo piano, tutta contenta, tornò a casa per sfornare i suoi deliziosi biscotti.

Giulia era molto soddisfatta e ringraziò il suo amico per i consigli.

La sua storia fu un successo. Prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 

Ottavia Briganti, 8 anni
classe 3A Scuola Primaria “F.lli De Carli” di Tiezzo I.C. “Novella Cantarutti”di Azzano Decimo (PN)
 

                                                              L'INCONTRO

In una caverna senza fondo un bambino con gli occhiali a specchio camminava senza fretta finché sentì un verso, simile a quello di un pipistrello, così si spaventò e voleva scappare, ma non poteva: era in trappola.

 L'entrata era sparita, e la cosa si stava avvicinando a lui sempre di più, poi urlò “Restituiscimi quello che mi hai rubato”. Il bambino con gli occhiali a specchio era sorpreso, ma sempre più spaventato, poi si fece coraggio e finalmente chiese “cosa?”. La cosa sempre più infuriata disse “il mio riflesso”, allora il bambino capì cosa voleva la cosa, ma non sapeva come fare per ridarglierla...  “Scusa. Non volevo far male a nessuno” disse il bambino con gli occhiali a specchio, la cosa si riaddolcì un secondo, ma poi diventò di nuovo seria, arrabbiata e malinconica, e disse “Lo so. Dopo tutto sei un bambino, ma adesso, senza il mio riflesso nessuno può vedermi, e nemmeno tu”. Il bambino con gli occhiali a specchio annuì, poi la cosa aggiunse “Secondo me non avrebbero dovuto inventare gli occhiali a specchio”, il bambino annuì di nuovo.

 Allora i  due si incamminarono in quel buio fitto, all'improvviso videro una lucina “sono fiori di luna” spiegò la cosa, mentre il bambino iniziò a prendere simpatia di quella cosa, anche se non sapeva cosa fosse, ma era sicuro che l'avrebbe scoperto... Anche la cosa iniziò a prendere simpatia per il bambino, anche se involontariamente gli aveva preso il suo riflesso rinchiudendolo nei suoi occhiali a specchio, e diventarono amici.

 Mentre camminavano spensierati ridendo e parlando, il bambino con gli occhiali a specchio si ricordò del riflesso e anche la cosa se lo ricordò e insieme, nello stesso momento, dissero “Oh no, mi sono dimenticato il riflesso”. Scoppiarono a ridere, poi il bambino disse “Tu sai come iniziare la nostra ricerca?” “No, ma so che sono nei tuoi occhiali” rispose la cosa. “Questo lo so anch'io. Purtroppo” dichiarò il bambino con gli occhiali a specchio, sconsolato.

 Poi però gli venne un'idea: scaraventò i suoi occhiali a specchio e ci saltellò sopra finché si sgretolarono e degli occhiali rimasero solo briciole. “È semplice” disse il bambino d'un tratto. “Grazie, ma ora co...” la cosa non riuscì a finire la frase, quando il bambino si trovò davanti una bellissima civetta che fece uno strano verso in segno d'affetto e volò via.  É stata una bellissima avventura, pensò il bambino.


 


 

Il vecchio Bil di 

Nicola Palmisano, 10 anni

 

Il sindaco del paese era salito sui rami di un albero per riflettere, era in crisi perché il vecchio Bil, uno dei più cattivi fuori legge del far west, uno che rubava il denaro di tutti i negozi era tornato in città.

Il sindaco chiamò Pasquale, un suo caro amico e questo lo aiutò a scendere dall’albero.

I due andarono nella locanda chiamata “Il terrore del far west”, dove incontrarono il vecchio Bil.

Il vecchio Bil sfidò ad un duello il sindaco, dando appuntamento su un’isola circondata da mare tempestoso.

Per raggiungere l’isola il sindaco navigò per giorni senza mangiare e pensò che se avesse visto un cucciolo di drago lo avrebbe fatto al forno con le patate.

Arrivato all’appuntamento vide il vecchi Bil che riposava beatamente sotto un albero e russava.

“Bil, Bil è il tuo momento” gridò il sindaco.

Bil si svegliò e camminando senza fretta andò verso il sindaco, con la pistola carica e funzionante. Il sindaco ebbe paura ma si fece coraggio…

Bill sembrava perfettamente a suo agio, eppure scoppio in lacrime e disse che non avrebbe più rubato ai negozianti del paese, lo aveva fatto solo per attirare l’attenzione della proprietaria di un negozio di caramelle di cui era innamorato.

Il sindaco ne uscì vittorioso e il vecchio Bil promise di non rubare più e dichiarare il suo amore alla signore delle caramelle e vissero tutti felici e contenti.
 
 


 
Niccolò 8 anni
 

Il popolo dei Corvacks

In una caverna senza fondo nello spazio angusto e ripugnante, un’ombra spaventosa avanzò nell’oscurità. Nella casa accanto un ragazzo di nome Jack Ormson era ormai a letto da molte ore ignaro del pericolo immane, infatti quell’ombra era una creatura molto pericolosa  chiamata  Corvacks ed era golosa di carne e sangue umano. La mattina dopo Jack camminava senza fretta finché uno fruscio attirò la sua attenzione.  Quando Corvacks passò si sentì un freddo innaturale, disumano e le piante si seccarono però Jack non sentì niente e disse “Bah, sarà stata la mia immaginazione”. Poco dopo Jack era quasi arrivato a scuola ma stranamente quella mattina si trovava a disagio, non perché l’altro giorno aveva preso un brutto voto ma perché… non lo sapeva neanche lui il perché, proprio allora, ma proprio allora notò un corpo umano disteso a terra, si avvicinò e… gli scappò un grido di terrore! Quel  bambino era morto! Era un bambino con gli occhiali a specchio, capelli neri ed occhi verdi e, per di più aveva appena circa  sette anni. Jack, corse subito ad avvisare i genitori e il Tenente Giorgio Shellow della polizia, poi si rifugiò in camera sua ragionando sulla morte di quel bambino. “L’assassino non può aver ucciso quel bambino prima delle 7:30 ma chissà per quale motivo era a scuola così presto?”. Jack il giorno dopo fece colazione un po' più tardi del solito perché aveva rimuginato tutta la sera del delitto commesso la scorsa mattina. Proprio allora notò sul tavolo il “Startown journal” il giornale della città, che, infatti si chiama Startown. In prima pagina c’era un titolo stampato a caratteri cubitali. Il titolo era:

“Secondo omicidio in due giorni. La polizia brancola nel buio”. “Ancora!!” urlò Jack. Quando lesse l’articolo scoprì che la vittima era stata Natasha Gringold. Era stata trovata verso le due di notte dai vicini Greta e James Auros. La strategia che aveva seguito l’assassino/a è chiara: entrato dalla finestra del soggiorno, lasciata aperta per distrazione da Natasha Gringold, per poi arrivare nella camera da letto e assassinare nel sonno Natasha Gringold. Però era il metodo usato che era strano. Natasha Gringold non sembrava morta con un colpo di pistola o pugnalata ma sembrava dissanguata. Il che era molto strano visto che nessun essere vivente riesce a succhiare sangue. Dopo quel fatto Jack decise di lavorare in proprio. Mentre andava a scuola si ricordò di un particolare importante: anche Antony Christ sembrava dissanguato e pure smangiucchiato ma non erano denti umani o animali. “ Dopo, per prima cosa andrò dal Tenente Shellow e gli chiederò di farmi vedere i corpi delle vittime del cosiddetto “mostro” poi andrò dal miei amici Chris Flystorm e Anna Moor e gli chiederò se possono aiutarmi con il caso a cui sto lavorando” pensò Jack mentre si incamminava verso scuola. “Potrei vedere i corpi dei defunti Tenente Shellow?” chiese Jack appena arrivò al commissariato. “Certo ma perché vorresti vederli, Jack?” gli chiese il Tenente Shellow. “Perché,” rispose Jack “ho deciso di indagare da solo a questo caso che nessuno riesce a risolvere” rispose Jack con un’aria molto decisa sul volto. “Ma… perché ti senti così deciso a risolvere questo caso?” chiese il tenente. “Bé in verità non lo so. E come se avessi un  legame brutto, molto brutto con l’assassino che ha ucciso queste due persone innocenti. Ah, vi ho mai detto che sono orfano?”. Jack rispose alla domanda del Tenente Shellow e contemporaneamente fece una domanda.  “No, veramente?” “Sì.” ”“Bah, sei strano ragazzino ma mi stai simpatico quindi vedrò di accontentarti.” “Grazie tenente” disse Jack. “Di nulla” disse il tenente accompagnandolo verso la scientifica. I corpi erano distesi su dei lettini operatori e gli esperti li stavano esaminando. “Potrei vederli?” chiese Jack. “Ma certo” rispose il tenente. Jack si avvicinò e notò su tutti e due i colli, dove i denti dell’assassino erano stati affondati nella carne, del terriccio color bordeaux e lo prese senza dare nell’occhio poi lo messe in un sacchetto. “Trovato nulla di interessante?” chiese il tenente. “Ehm….no, niente” mentì Jack. “Adesso devo andare” disse. Incamminandosi verso la casa di Chris, Jack pensò che Chris e i suoi ordigni tecnologici potessero aiutarlo. Mentre la mamma di Chris apriva la porta della casa, Jack urlò “Chriiiis, sei in casaaaa?” “Bah, sarà nel suo laboratorio” disse Jack scendendo con le scale che portano verso la cantina. Appena finì di scendere le scale gli apparì un mondo fantascientifico: esperimenti di ogni tipo, lampade fluorescenti e tante altre cose. “Ehilà, Jack!” “Ciao, Chris. Ti spiegherò il motivo della mia visita appena arriverà Anna. La chiameresti per favore?” chiese. “Certo.” Cinque minuti dopo arrivò Anna, quando Jack spiegò loro la situazione Chris e Anna accettarono subito di aiutarlo. “Mhhh… vediamo un po' questo terriccio” mormorò tra sé e sé Chris quando prese il sacchetto fra le mani. Poi si avvicinò a un microscopio digitale, sopra mise il terriccio e guardò attentamente dentro la lente. “Questo terriccio si trova solo nelle cave di marmo, qua a Startown c’è solo un posto che corrisponde a questa descrizione. Sapete quale?” chiese Chris. “La caverna accanto alla casa di Jack!” risposerò in coro “andiamoci subito!” esclamò Jack. “Va bene. Ma almeno armiamoci” disse Anna. Poco dopo i  tre amici marciavano verso la grotta. Quando ci entrarono Jack si sentiva perfettamente a suo agio, eppure aveva una strana inquietudine buttata addosso. Quando arrivarono al centro della caverna iniziarono a sentire uno strano sibilo sinistro. Verso le otto di sera Corvacks sbucò fuori. Era alta come un uomo adulto la sua pelle era olivastra e al posto dei capelli aveva dei corvi che gracchiavano continuamente. Appena Corvacks saltò fuori dalla penombra Jack urlò: “Ma che diavolo? Attenti ragazzi!” ma non li avvisò in tempo. Corvacks si era già avventata su Anna, che la scacciò con un colpo di fucile ma Corvacks, velocissima si avventò su Chris che non veloce come Anna, non riuscì a sparare e quando finalmente Corvacks lo lasciò giaceva a terra morto, dissanguato e mezzo smangiucchiato. Jack spinto dalla rabbia mirò con il suo fucile verso Corvacks, però Corvacks avvertendo il pericolo disse “Zurai-moon” e si aprirono tanti portali da cui uscirono altrettanti Corvacks. Anna e Jack decisi a vendicare Chris si aprirono un varco fra i molti Corvacks. Arrivati al Corvacks originale lo prenderono per la gola e gli dissero: “Pronuncia le tue ultime parole.” “Tu sei Jack Ormson?” chiese il Corvacks. “Sì” rispose Jack. “Ascolta bene: sono stata io a uccidere i tuoi genitori.” E queste furono le ultime parole del Corvacks. Subito dopo che il Corvacks pronunciò queste parole le dita di Jack premettero sempre di più sulle arterie del Corvacks finché si afflosciarono e il Corvacks cadde a terra morta. “È finita” disse Anna a Jack. “Sì, è finita” e là, proprio in quel momento si baciarono.


 


 

Milena Cajozzo, 11 anni
classe I media, Sezione italiana del Lycée International Saint Germain en Laye 
 

La storia di Giulia

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino. Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un cane con il guinzaglio rotto…

In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari. Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: “Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, ogni singolo istante.”

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a scrivere:

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. Essa guardava una vecchia signora mentre scuoteva un tappeto magico sul terrazzo. Vedendo la tigre la vecchietta urlò di spavento. Giulia guardò da un’altra parte della finestra e vide un ragazzo in bicicletta che svoltava l’angolo correndo all’impazzata, inseguito da un leone scappato da uno zoo. Poi Giulia riguardò dov’era prima la tigre e vide che era diventata un gattino. Infine notò che tutto era stato trasformato: il tappetto magico in tovaglia e il leone in un cane col guinzaglio rotto.

Giulia consegnò il suo compito alla maestra e la sua storia fu un successo: prese dieci. E lo divise a metà con Treb.


 


 
Matteo, 13 anni

 
Tanto tempo fa in un luogo oscuro a tutti c’era una caverna, ora starete pensando che ne avete viste moltissime di grotte ma aspettate e vedrete, in cui viveva una creatura, ora starete pensando ma ne ho viste molte di creature ma aspettate e vedrete, anzi un uovo, non dirlo di nuovo… lo so già che hai visto delle uova, fammi finire!

Non si può avere un minimo di tranquillità di questi tempi. Vabbè dicevo in quest’uovo c’era un drago, lo so benissimo che non esistono per questo ho detto che nessuno conosceva quel luogooooo!!!!!!!!!! Calmiamoci, questo drago cresceva di giorno in giorno diventando sempre più grande, ora che ci penso forse era una femmina, non mangiava mai dormiva e si riposava dalla mattina alla sera e diventava sempre più grande, enorme, granorme, enonde, va bè avete capito che era gigantesco. Un giorno, si alzò in volo e andò posarsi sopra un ramo così fine che neanche da 1 metro sarebbe stato possibile vederlo ma non si ruppe, e rimase li per giorni finché una mosca si posò sul suo naso. Con una mossa da ninja aprì la bocca e… la lasciò andare come se avesse voluto ucciderla ma qualcosa glielo avesse impedito.

La mosca continuava a ronzarle intorno per ore e lei continuava ad aprire la bocca senza ucciderla cacciarla o chissà che. Continuarono così per ore finché ad un certo punto uscì dalla bocca del fuoco; ora finalmente era chiaro doveva imparare a “sputare” fuoco.

 


 
Alunna: Forte Matilde

Classe I G  I.C.R.Giovagnoli Via Ticino 72 Monterotondo
Prof.ssa Valentini Alessandra  Prof.ssa La Loggia Luigia.

INGREDIENTI:

  • Nello spazio angusto tra due case molto alte
  • La proprietaria di un negozio di caramelle
  • Camminava senza fretta, finchè

 

UNA CARAMELLA PUO’ FARE MIRACOLI 

Nello spazio angusto tra due case molto alte, la proprietaria di un negozio di caramelle camminava senza fretta, fino a quando incontrò, in una stretta via, un ragazzino con capelli tutti arruffati, una maglietta strappata, senza pantaloni e con solo un sandalo, sporco e rotto. Pareva strano, stava seduto a terra, nascosto dietro ad un cassonetto. La negoziante di caramelle, Denise, una donna sulla quarantina, dallo sguardo dolce e profondo, decise di avvicinarsi al bambino strano. Fin da subito lui non aprì bocca, fino all’arrivo di un gruppo di ragazzacci più grandi di lui, vestiti con indumenti eleganti e di marche costose che lo presero per un braccio in modo violento e lo trascinarono in un angolo appartato della via. Denise intervenne senza esitazione strillando ai bambini e per far fare la pace con il gruppetto, offrì a tutti delle caramelle. I ragazzi dopo aver finito di mangiare, scapparono senza neanche ringraziare. La venditrice provò a parlare con il bambino ma lui teneva sempre la bocca sigillata e lo sguardo basso. Fu tutto inutile e allora Denise si incamminò per raggiungere il suo negozio. Il giorno dopo, percorrendo la stessa strada, la donna incontrò nuovamente il bambino nello stesso punto. Quel giorno cominciò a darle qualche piccola informazione. Lei venne a sapere, quindi, che si chiamava Nasir e veniva dalla Nigeria, un paese in guerra. A quel punto le venne un dubbio però: dov’era la sua famiglia? La donna riuscì a convincere il ragazzo che, ad ogni caramella che riceveva, rispondeva con un’informazione. Così, nel giro di pochi giorni, caramella dopo caramella, Denise riuscì a scoprire molto del misterioso Nasir. Egli era migrato in Italia con un barcone per via della guerra nel suo paese di origine, insieme alla sua famiglia che però poi, non avendo i soldi per nutrirlo, decise di abbandonarlo per strada al suo destino. Era parecchio che stava lì, quasi un mese, e ogni giorno veniva quel gruppetto di ragazzacci a picchiarlo e ad insultarlo per il colore della pelle. Il dì seguente però, Denise, percorrendo sempre la stessa identica strada, non trovò più il bambino. Panico! Cominciò a chiedere a

tutto il paese di Nasir, ma ogni concittadino rispondeva con indifferenza. Dove era andato a finire? Era scappato? La famiglia era tornata a prenderlo? La donna non ragionava più e presa dall’ansia e dalla stanchezza, ad un certo punto cadde a terra. Al suo risveglio notò una faccetta, simile a quella del ragazzino...aspetta, ma era proprio Nasir! Denise subito cominciò a fare mille domande, e lui, spaventato, si mise a piangere. Raccontò che quel gruppo di ragazzi lo aveva portato in un casolare abbandonato e il più grande della banda aveva cominciato a picchiarlo violentemente. Questo spiegava tutte le ferite che aveva sul corpicino. Lei, molto arrabbiata per l’accaduto, decise di andare a fare la denuncia alla polizia, ma anche lì l’accoglienza fu freddina. “Ma su signora, sono cose che accadono tra coetanei di quella età, e poi, il ragazzo di colore li avrà provocati e loro avranno avuto pure ragione a difendersi!”. Denise, a quella risposta, andò su tutte le furie e decise di portare Nasir con sé, nella grande casa della sua famiglia, in modo da poterlo proteggere da persone razziste. C’era un problema: i parenti della donna non gradirono l’ospite. Non ce la faceva più, era delusa da tutti, nessuno voleva il bambino solo perché era di un altro Paese e praticava una diversa religione. Era stanca di tutto questo, ma non poté fare niente. Dal giorno seguente, ogni mattina, continuava a passare per la stessa strada, per controllarlo e dargli un sacchetto di dolciumi, nuovi vestiti, dell’acqua, pane e frutta fresca e, soprattutto, un po' di amore materno. Denise decise di acquistare una piccola casa tutta sua con i suoi risparmi e di portare Nasir a casa. Stavano bene insieme, erano sereni, ma un giorno qualcuno bussò alla porta. “Ma chi può essere a quest’ora Nasir? La vicina che si lamenta delle nostre risate rumorose?” Il bambino corse ad aprire la porta, ma si trovò davanti i servizi sociali. “Cosa volete da me?!” strillava il bambino mentre tentavano di prenderlo. “Andatevene via immediatamente, lasciate il mio piccolo”. “Signora, stia calma. Lei è stata denunciata per detenzione indebita di minori. Per di più è un bambino nero, magari è uno zingaro. Vogliamo solo proteggerla, quindi ora ci dia questo bambino, non si sa mai, potrebbe anche derubarle casa”. “Togliete le mani da Nasir! Lui è buono! Sono tutti buoni! Quelli lì, come li chiamate voi, sono umani proprio come noi! Non è il colore della pelle, o la città da cui si proviene a determinare la personalità di ognuno di noi quindi, ora, togliete quelle manacce dal mio piccolo!”. I due assistenti sociali, non curandosi della donna portarono via Nasir. Denise urlò così tanto da perdere la voce e pianse tutta la notte. Denise nei giorni seguenti cercò di vedere il suo amato Nasir. Ormai era scomparso, nessuno sapeva dirle niente di lui, per tutti era come MORTO. Denise però non si arrendeva, lei sapeva che era vicino, da qualche parte, impaurito. Lei era stanca di tutto l’odio che vedeva nelle persone e decise di scrivere una pagina nel giornale del paese che un suo caro e vecchio amico giornalista le pubblicò. “E’ stata una banale caramella che mi ha fatto conoscere il mio Nasir. Grazie ad una caramella ho conosciuto quel magnifico piccolino intelligente e gentile. Le persone lo odiano per il suo colore della pelle, per il suo Paese di provenienza. Ma lui è un essere innocente. Dovete smetterla! Tutti siamo esseri umani, abbiamo emozioni, tutti abbiamo il diritto di vivere in pace. La scorsa settimana i servizi sociali sono venuti a casa mia a portarmi via Nasir. Ora non so dov’è ,ma so anche che lui è tanto spaventato. Quindi, voglio chiedere a tutte le persone che stanno leggendo questo articolo e che hanno un cuore, di aiutarmi a ritrovarlo e di aiutarmi a mettere fine a questo odio verso le diverse civiltà”. Questo scrisse Denise, pian piano conquistò il cuore di una bella squadra di amici e sostenitori con cui, nei mesi a seguire, riuscì a vincere la battaglia dell’indifferenza e delle leggi ingiuste. Quando riuscì ad incontrare di nuovo Nasir, lo trovò di nuovo ammutolito come il primo giorno, dimagrito e spaventato dalla solitudine senza amore in cui era piombato un’altra volta. Era insieme ad altri bambini della sua stessa provenienza, ma non riusciva a liberarsi dalla paura dell’abbandono. La donna, insieme ai suoi sostenitori, riuscì a prendere in affidamento tutti quei bambini, ricevette dei soldi grazie alla beneficenza ricevette dei soldi ed aprì un centro di accoglienza. Certo, per lei non fu facile, ma venne aiutata da tanti suoi concittadini che le donarono soldi, cibo e vestiti ed anche dalla sua famiglia che prima le era ostile. Si comprò un’azienda ormai andata in disgrazia e ci fece costruire una struttura in cui, tutti i bambini poveri, si sarebbero potuti rifugiare. Nella città trovò un maestro e un dottore. La fece diventare una scuola, un ospedale e allo stesso tempo un luogo in cui i bambini potevano seguire le loro passioni e divertirsi. Passati anni ed anni i ragazzi si costruirono una bella famiglia e ottennero un lavoro. Nasir seguì la strada della madre e, dopo la laurea a pieni voti, costruì altri centri di accoglienza per bambini poveri e

rifugiati politici da paesi in guerra. Divenne famoso nel mondo. Un giorno però, mentre stava con i ragazzini in giardino a giocare a nascondino bussò qualcuno alla porta. “Fatimah vai tu!” Gridò Nasir. “Ma chi sarà mai…” Pensò tra sè e sè. “Papà! Chi è questo omone alto e robusto sopra ad un cavallo? Ho pauraa!!” Gridò il piccolo. “Chi siete?!” Domandò subito Nasir. “Buonasera. Lei è per caso un certo Nasir? Bè suppongo di sì, la via era questa…” “Come fate a sapere il mio nome, il mio indirizzo!??” Si innervosì. Chi erano quegli uomini. Cosa ci facevano a casa sua? “Abbiamo una lettera da parte del re della Nigeria per lei. Gliela lasciamo.” “Una lettera da parte di chi? Un re? O Dio mio. Arrivederci e grazie per la consegna! Scusi la mia scortesia”. “Stia tranquillo maestà. Arrivederci” Maestà? Perché lo chiamava così? Nasir cominciò a leggere: “Buonasera Maestà. Abbiamo scoperto che il principe Nigeriano Nasir III della dinastia Niakatè svanito trent’anni fa è proprio lei. Nessuno ha mai smesso di credere che lei fosse vivo. Finalmente investigatori internazionali hanno scoperto tutto l’accaduto. Una famiglia povera e di malviventi ha deciso di prenderla per chiedere il riscatto, ma sono dovuti fuggire improvvisamente dalla Nigeria perché perseguitati e così in seguito hanno preferito abbandonarla. Le hanno sempre mentito su tutto per tenerla buona ed evitare rischi di fuga! Ma la triste verità è che lei è stato rapito! Solo recentemente siamo venuti a sapere che lei è stato salvato da una donna di nome Denise. Volevamo donarle una grande ricompensa per il suo gesto, ma siamo venuti a sapere che ormai non c’è più… Con questa lettera, le volevamo comunicare che lei è il principe Nigeriano scomparso trenta anni fa.” Dalla lettura di quella lettera Nasir rimase sconvolto. Rifletté giorni e giorni, ma alla fine decise di non partire e di non tornare al suo paese di origine, anche se lì lo avrebbero ricoperto di ogni ricchezza. Il suo posto ormai era un altro, era quello che il destino quel giorno aveva riservato per lui. Il suo dovere era quello di continuare il sogno e la battaglia di Denise, era di lottare contro il razzismo e l’indifferenza delle persone, era di aiutare i bambini poveri come era stato lui un tempo. 

Prese una caramella, come faceva ormai ogni sera, la mangiò chiudendo gli occhi  rivide Denise, sentì la sua voce , le sue carezze e gustando tutta la dolcezza della vita vissuta andò a letto sereno. 
 



 
Martina, 13 anni
 

Paola, una ragazza sveglia, proprietaria di un negozio di caramelle, riposava beatamente sul divano dopo una lunga giornata di lavoro. 

Ad un tratto si svegliò. 

Non era più sul suo divano ma dentro una caverna. 

Era buio. Si sentivano solo le gocce dell’acqua cadere ripetutamente sulle rocce. Faceva freddo. 

Disse: “c’è qualcuno?”

Nessuna risposta.

Così dovette cercare la via di uscita dalla caverna.

Si mise a camminare. Non vedeva nulla.

Allora si mise a pensare alla sua vita. 

Quante cose erano andate storte. Quanti sforzi aveva fatto per raggiungere i suoi obiettivi.

Quante difficoltà aveva attraversato. Erano pensieri insistenti…

All’improvviso Paola vide una luce fioca, poco lontana. Così si diresse verso di essa.

Dentro la caverna si era creato un piccolo laghetto. 

Paola si specchiò ma, invece di vedere il proprio riflesso, vide la Paola del passato. La Paola spensierata. La Paola che aveva 14 anni e non pensava ai soldi che non bastavano per arrivare a fine mese. Per pagare l’affitto del negozio, i costi per le caramelle e tutte le altre spese.

La Paola che passava i pomeriggi con le amiche. Che spesso a pranzo andava dai nonni. La Paola che si divertiva a cucinare biscotti nel tempo libero. 

Le fece strano rivedere sé stessa, del passato. Felice e bella. E non preoccupata e affaticata come oggi.

Incuriosita chiese, specchiandosi nel lago: “sei la me del passato… parli?” Dopo pochi secondi la giovanissima Paola rispose di sì e chiese lei chi fosse….

Così iniziarono a parlare.

La Paola di una volta aveva pensieri leggeri, pieni di stupore e di allegria. La Paola di oggi era consapevole e profonda, ma preoccupata e pensierosa.

Le mancava il passato, quando i nonni erano ancora vivi. E quando era circondata solo da amici e da persone che le volevano bene.

Dopo una lunga conversazione, Paola si chiese: “forse se mi tuffo nel lago posso tornare ad essere la Paola del passato, la Paola spensierata dei 14 anni”.

Era molto combattuta sul da farsi. Ma poi si decise e si tuffò.

Perse i sensi….

Ma poi si risvegliò sul divano del salotto. 

Era solo un sogno!
 

 


Maria Valentini, 10 anni
I C Francesco d’Assisi

INVENTA UNA STORIA

IL TEMPIO DEI RUBINI DANZANTI

Era sabato pomeriggio e Giulia era in ansia davanti al foglio bianco. Il compito diceva: “Inventa una storia”. A Giulia non piaceva inventare storie. Le sembrava di non avere fantasia. Si sentiva il cervello vuoto e la mano pesante. Guardò fuori dalla finestra, sospirando. Un piccolo gatto tigrato camminava in equilibrio sulla grondaia del tetto di fronte. Dalla finestra del secondo piano qualcuno urlò. Al primo piano, una signora scosse una tovaglia dal terrazzo, lasciando cadere qualcosa sull’erba del giardino.                                                                

Un ragazzo in bicicletta svoltò l’angolo correndo all’impazzata, seguito da un cane con il guinzaglio rotto… In quel momento accanto a Giulia comparve Treb, uno dei suoi amici immaginari.

Era molto tempo che Giulia non lo vedeva. Treb le sorrise e sussurrò: "Sai come dicono i grandi scrittori? Non inventare: guarda. Guardati attorno e prendi spunto da quello che vedi. Il mondo è pieno di storie, in ogni singolo istante."

Giulia guardò di nuovo fuori dalla finestra. E cominciò a

scrivere:                                                                                              

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre.

Un giorno, sul tetto di una casa, in equilibrio sulla grondaia, comparve una tigre. 
Questa aveva il pelo azzurro e le strisce blu e uno zaffiro in mezzo alla fronte: non una voglia, ma una pietra materiale, blu e splendente ; stava lì da quando la creatura era nata. 
Come c’era finita la tigre in cima ad una grondaia, vi starete chiedendo: ebbene, era in grado di teletrasportarsi, grazie alla sua gemma magica, da un luogo all’altro e in qualunque momento. La grondaia dove stava in equilibrio era quella della panettiera, la signora Edna Ashton-Meier, quindi immaginate che  il felino stesse per prendere cibo.
La signora, che stava uscendo sul balcone a prendere una boccata d’aria, gettò lo sguardo verso l’alto e cacciò un urlo assordante, quando vide quella creatura feroce sopra la grondaia di casa sua!                                                       

"Andiamo, Libera! Non infastidire la povera signora Ashton-Meier, non ti ha fatto niente di male!" la chiamò una voce femminile.                                                            

La panettiera guardò la proprietaria di quella voce in maniera furiosa, squadrando prima lei e poi il suo essere affamato di pane.                                                         

"Allora, Diana! Quando ti deciderai a dire a quest’essere che non si infastidiscono le persone per mangiare? Capisco un neonato, ma una tigre… ah, ti ricordo inoltre che la tua cara amica Nadya deve pagare le novanta pagnotte che si fa mettere da parte per la comune!" urlò Edna, inferocita più di un leone.                                                                         

Ok, scommetto che ora vi state chiedendo due cose: chi è questa ragazza, Diana? E la tigre… è sua?

Diana aveva i capelli lunghi, castani e ondulati, il naso carinissimo, gli occhi grigi che mostravano a tutti che quella ragazza era la reincarnazione del coraggio; era alta e magra e il suo sogno più grande era quello di diventare una guerriera in grado di combattere con spade infuocate e di avere superpoteri. Indossava una t-shirt bianca da chissà quanto tempo (che comunque lavava sempre), dei jeans e calzava delle Sneakers un po’rovinate.

Viveva in una comune abbandonata con ottantanove ragazzini, ognuno dei quali svolgeva un compito e faceva parte di un gruppo: Le Pulitrici dovevano fare le pulizie e lavare gli indumenti al fiume che scorreva oltre la foresta, I Robin Hood dovevano andare nei negozi e rubare viveri... Questa banda di ragazzini era comandata da Nadya, chiamata da molti Sovrana.

La tigre era sua più o meno da sempre, o almeno si ricordava di avercela da quando era nata. Il suo nome l’aveva scelto proprio lei. Quel nome le ricordava un fiume che scorreva impetuoso e visto il colore del pelo del suo “animale domestico” era perfetto. 

Avevano un legame speciale, quelle due: la ragazza voleva bene alla tigre ed era l’unica persona al mondo ad essere in grado di addestrarne una anche se, in alcune cose, Libera non l’ascoltava.                                                                    

"Non sono ancora passati i tuoi amici che vengono a prendere il pane, ho osservato. Vuoi prenderlo tu o vuoi che li attenda?" chiese Edna Ashton-Meier.                               

"Sì, meglio che li attendiate, signora Ashton-Meier. Friedrich si arrabbia moltissimo se non porta a termine il suo compito, perché è innamorato di Nadya e vuole fare colpo su di lei" disse in modo spiritoso la giovane.

La panettiera fece un sorrisetto ironico e trattenne a stento le risate e, proprio in quel momento, arrivò Friedrich. Aveva un ciuffo di capelli biondo grano, aveva gli occhi azzurri e profondi come il mare, il naso aquilino, la corporatura magra ed era dell’altezza giusta per la sua età. Indossava una t-shirt con Bruce Springsteen e degli shorts in jeans corti e, da una vita, girava a piedi scalzi.
"Ehi, togliti di torno! Cedi la merce se la vuoi passare liscia, altrimenti Nadya ti mette al fresco coi topi!" minacciò.

"Friedrich, ti conosco da quando sono nata: vuoi che non sappia che non sopporti che gli altri membri degli altri gruppi della comune ti freghino il pane! Vero, signora Ashton-Meier?" disse Diana.

"Concordo con Lady Tiger! Puoi prendere il tuo pane, sai che non lo cedo a nessuno e lo tengo in cassaforte fino al tuo arrivo!" confermò la panettiera.                                           

"Sì, ma voi sapete che nel mondo ci sono tanti ragazzini ricchi, viziati e stupidi che ci fregano il pane da sotto il naso! Non sopporto che i ricchi rubino le cose appartenenti alle persone con meno soldi o, come le chiamano i Figli dell’Oro, le poor people" spiegò il ragazzo.

"Friedrich ha ragione. Signora Ashton-Meier, perché non proponete al sindaco di impedire le cose che fanno i ragazzini ricchi? Dovrebbero pagare una multa di ben quattrocentomila euro!" propose Diana.
"Sì, magari mi credessero! Io, che fino a quando me l’hai fatto notare tu, scacciavo sempre i bambini poveri che chiedevano un pezzo di pane e l’elemosina! Figurati se mi crede, quel vecchio spilorcio!" sospirò la panettiera.

"Voi tentate, che non si sa mai! Chissà, magari vi darà un’altra opportunità!" la incoraggiò Diana.
Il coraggio era il suo maestro di vita, la cosa per cui viveva, la sua musa, la sua ispirazione, la sua qualità più potente… era tutto per lei, lei che sognava di diventare una guerriera dotata di poteri sovrumani che utilizzava una spada vinta in battaglia, piena anch’essa di magia…

Alla comune, l’aspirante guerriera incappò in Nadya in persona. Era alta e magra, gli occhi azzurri, il naso aquilino e i capelli lunghi e rosso fuoco. Indossava una tunica nera e in pochi avevano visto la sua faccia, poiché lei andava sempre in giro con una maschera bianca.              "Qual buon vento ti porta qui, Lady Tiger? Friedrich mi ha riferito tutta la conversazione che avete fatto con quell’odiosa della panettiera. Hai avuto una bella idea, è vero, ma l’hai proposta alla persona sbagliata. Non l’ho mai vista cedere i suoi amati soldi ai ragazzi di strada. In più, con loro si è sempre comportata male, quindi non sperare che ti accontenti" disse Sovrana.

"Probabilmente la tramontana, eh, eh! E tu non sperare troppo che la panettiera non mi accontenti! Com’è il tuo rapporto con quel ragazzo?" chiese la ribattezzata Lady Tiger.

"Basso. È simpatico ma non provo veramente nulla per lui, tranne un leggero sentimento di amicizia. Quando si arrabbia con me tratta male gli altri, chissà per quale motivo…"                                                                 
Diana trattenne un sorrisetto divertito e riuscì nel suo intento.

"Ah – aggiunse Nadya – c’è posta per te. Stamattina qualcuno ha bussato alla nostra porta e ha lasciato un pacchetto con una lettera allegata, ma del mittente nessuna traccia. Tieni."

Alla giovane guerriera venne consegnato un pacchetto avvolto in una carta regalo azzurra con stelle argentate ed un fiocco in tinta unita pieno di fronzoli, grande come un libro. La busta sembrava bruciacchiata e il suo sigillo di acquamarina raffigurava una rosa.                                                    

Diana ringraziò ed andò in camera sua, dove aprì la busta.

Che bella grafia aveva colui o colei che l’aveva scritta!

Ciao, Diana!  Io mi chiamo Erenide e sono la regina del

Regno Selenico, il luogo che dovrai salvare dalle grinfie del terribile Daemonium, il Mago del Fuoco. Durante il tragitto per salvare questo regno dovrai compiere alcune missioni e ritrovare i Quattro Talismani di questo territorio, combattendo come la guerriera che vuoi diventare. 

N.B.: Nella scatola ci sono un libro, la Chiave del Regno Selenico forgiata da Selene, un membro dei Malachitiani, i saggi del mio regno e le Gemme Sacre che dovrai utilizzare non appena verrà il momento.  Il libro si aprirà quando scoprirai qualcosa di nuovo e comparirà un settore dedicato a quella scoperta.  
Erenide

"Non ci posso credere! Io diventerò una guerriera! Una vera guerriera coraggiosa che combatte per difendere dimensioni parallele!" esultò la ragazza, stringendo a sé quel pezzo di carta che per chiunque sarebbe stato insignificante.
Non perse tempo e scartò il pacco, decise di conservare la carta stellata assieme alla lettera. Dentro c’era il libro, la cui copertina raffigurava una mano bianca aperta e, sopra

di essa, c’era lo stesso simbolo del sigillo che chiudeva la busta, ma anche una scatoletta marrone avvolta da un nastro bianco: sicuramente era la custodia della Chiave del Regno Selenico e le Gemme Sacre.                                        

“Gemme… Sacre… chissà quali sono!” pensò Diana.   In quel preciso istante il libro si illuminò e si aprì alla primissima pagina: parlava proprio di quelle Gemme.

Le Gemme Sacre, in lingua Malachitiana Saecras Jema, sono le sette pietre magiche che rappresentano i Sette Animi Nobili del Regno Selenico. Esse sono: 

  • Granito, rappresentante l’amore
  • Acquamarina, rappresentante la calma
  • Topazio, rappresentante i sentimenti
  • Quarzo Rosa, rappresentante la libertà
  • Perla, rappresentante il servizio
  • Rubino, rappresentante la malignità
  • Opale, rappresentante la bellezza

Tu, Diana, sei l’Animo Nobile dell’Acquamarina. 

La ragazza era affascinata da quelle parole: lei rappresentava la calma, aveva dei poteri probabilmente legati all’acqua… ma non aveva idea di quale fosse il suo nemico. Il libro girò le pagine e, dopo averne superate circa una cinquantina, si fermò. Mentre queste giravano, Diana si accorse che erano tutte… bianche! Perché?

Avrebbe risposto a quella domanda, ma non in quell’istante.

Ora era più importante scoprire qualcosa sul nemico.                       

Quando il Regno Selenico nacque, ci fu una specie di Big Bang: una massa di magia VagaVa nello spazio. Non appena troVò il punto doVe creare l’esplosione, si diramò: una massa creò il Regno, l’altra… un essere malVagio, fatto di fuoco e di odio, Daemonium. Sentitosi trascurato dalla Vita e dagli abitanti del Regno Selenico, questi decise che si sarebbe vendicato. Così, una notte, andò al magnifico palazzo di cristallo bianco di Erenide e rubò i Quattro Talismani che nascose in quattro territori di quel regno.                                                                      

Egli è uno dei Sette Animi Nobili e nessuno dei restanti, sicuramente molto più puri, è mai riuscito a rendere questo cattivo più buono e a riportare al loro posto i Talismani che mantengono l’armonia del Regno Selenico.
"Trascurato. Come hanno fatto i miei genitori con me, credo. Non so se li ho mai avuti o se sono nata, come Daemonium, da un secondo Big Bang" disse a voce molto bassa, più di un sussurro, la ragazza.
"Ora devo solo girare quella chiave… un momento, vediamo com’è fatta!" aggiunse, quindi aprì la scatoletta che le sembrava molto raffinata.                                                      

La chiave era d’oro e raffigurava sempre la rosa e, attorno ad essa, c’erano delle piccole conche: magari era a quello che servivano le Gemme Sacre! Esse avrebbero attivato la magia che avrebbe permesso a Diana di andare a combattere nel Regno Selenico, che lei stessa doveva salvare!                 

"Libro incantato, dimmi: in che modo devo mettere le Gemme Sacre nella chiave, sempre se lì le devo mettere?" chiese al tomo, sicura che avrebbe ricevuto una risposta.     Ma non successe niente, nemmeno un misero indizio scritto su un altrettanto misero post-it.

Tornò alla primissima pagina del libro e la osservò bene:

doveva partire dal Granito e doveva concludere con l’Opale. Ecco spiegato il motivo per cui il tomo non avesse aperto bocca (anche se non ce l’aveva): la soluzione ce l’aveva sotto il naso o, ancora meglio, sotto agli occhi!

Guardò la chiave per qualche secondo… una conca si era illuminata, quella in cima. Poi s’era illuminata quella sotto, sulla destra. La prima corrispondeva al Granito, la seconda all’Acquamarina. Diana prese le gemme e le infilò una ad una, ordinandole come nel libro. Quando tutte le Gemme Sacre vennero infilate, la chiave si illuminò e sopra di essa comparve una scritta per nulla fantasy, anzi, più fantascientifica:

BRAVA! HAI COMPLETATO LA PROVA! ORA GIRA LA CHIAVE ESATTAMENTE NEL PISTILLO DELLA ROSA E POTRAI ENTRARE, FINALMENTE, NEL REGNO SELENICO.

VELOCE, TI ATTENDIAMO!

La giovane guerriera si guardò attorno un’ultima volta: avrebbe abbandonato per sempre il luogo in cui era cresciuta, il suo ruolo, le persone che le avevano tenuto compagnia, che l’avevano sgridata, maltrattata e, altre volte, mandata a letto senza cena, al massimo con un po’di pane raffermo. Be’, quello davano da mangiare a coloro che non eseguivano gli ordini, non rispettavano Nadya e il capo del loro gruppo.  Diana afferrò la chiave e la girò al centro del simbolo aureo. Una luce accecante invase il dormitorio e lei, assieme alla chiave e al libro, scomparve.

Daemonium, nella sala del trono dalle pareti in rubino, stava istruendo la sua schiava prediletta, Morgana, su come ostacolare Erenide e creare nemici che avrebbero messo in difficoltà la sua allieva, scatenando terribili battaglie. Morgana, l’Animo Nobile della Perla, agitò i lunghi capelli bianchi e cominciò a danzare leggiadra, aggraziata e tranquilla: sapeva già quali passi doveva fare per creare il primo nemico di Diana.                                                          

Davanti a lei comparve una figura olografica immobile e, ai suoi lati, una serie di bottoncini raffiguranti delle parti del corpo: occhi, bocca, naso, capelli e l’icona di una maglietta, una con l’immagine di un pugno che significava “poteri” ed una con uno scettro. Doveva creare l’avatar del nemico, che lei stessa avrebbe gestito.                                                        

Venne fuori un uomo arabo con gli occhi marroni che emanavano uno scintillio maligno, alto e meno muscoloso di un culturista. In testa aveva un turbante bianco con un rubino: il logo di Daemonium. Indossava un gilet azzurro con ricami blu, una maglia color porpora e dei pantaloni rossi, con la stessa fantasia della maglia. I suoi poteri erano quelli di scatenare tempeste di sabbia e di utilizzarla per creare scudi, armi, scariche e sfere. Era furbo, strategico e forte, ma di livello uno, diciamo. Ciò significava che era il meno forte dei quattro cattivi da creare con gli ologrammi, ma qualche strategia ce l’aveva. La sua arma magica era fra quelle: con essa poteva creare persone di sabbia e di potenziare i suoi superpoteri, rendendoli quindi più letali. L’altra arma era Morgana in persona: lei sarebbe andata, vestita di volta in volta diversamente, ad aiutarlo: avrebbe creato altri avatar e li avrebbe controllati mentalmente.  

"Come lo chiamerai, servetta prediletta?" chiese quell’essere nato da un secondo Big Bang. "Lo chiamerò Saendorium! Sì, sì, suona bene come nome per un nemico che ha il potere di utilizzare la sabbia a suo piacimento! Presto, grazie a me, riuscirete a dominare il Regno Selenico, ad uccidere Erenide e Selene e a fare di loro quello che avete sempre voluto fare: trasformarle in astri grandi quanto un granello di Yunaemis!" rispose la serva.                                                                                      

La sua armatura, verde acqua scuro con dettagli d’argento puro e una ninfea verde chiaro al centro, scintillava come gli occhi di Saendorium, i suoi occhi verde acqua erano chiusi e la sua corona d’oro con una perla in centro luccicava. Da quella gemma, riusciva a tirare fuori la sua Spada della Saggezza, la quale le consentiva di lanciare scariche, sfere e scudi di luce.

Diana vagava nello spazio: era una cosa impressionante. Migliaia di piattaforme, ognuna con un territorio sopra, stavano attorno a lei, probabilmente per essere visitate. Erano collegate da scale di cristallo bianco con ringhiere d’oro e quella più in alto, nonché quella più vasta, brillava di una luce arcana e bianca: sicuramente c’era il Castello di Erenide, sempre se un castello ce l’aveva. Quello appena meno vasto, invece, aveva una specie di tempio verde acqua ed emanava un fumo azzurro intenso: secondo la ragazza, quello era il luogo in cui i Saggi si radunavano per organizzare guerre, scoprire cose, creare teorie e giochi e, a volte, ospitavano Erenide, la perfezione. Solo una di quelle magnifiche terre brillava di rosso ed emanava un fumo dello stesso colore: sicuramente era il primo fra i quattro territori che doveva visitare. 

Dal nulla apparve Libera: obbligò la sua padrona a saltarle in groppa e la tigre corse: sapeva la direzione da prendere ed era quella che immaginava anche la Guerriera dell’Acquamarina. Il suo animale da compagnia fece una cosa assurda: le parlò e le disse quali erano i suoi poteri e le descrisse il territorio: come si chiamava, quale nemico avrebbe affrontato lì… questo genere di cose, insomma. "Questo è il Crystal Saendoric, il Territorio dei Topazi. Dovrai affrontare Saendorium: lui può utilizzare la sabbia a suo piacimento. Non è molto forte, è un nemico di primo livello, ma può potenziare i suoi poteri facendo roteare il suo scettro d’oro. Non so dirti se questi è un avatar creato dalla serva di Daemonium, Morgana, che lo può fare, oppure se è una persona materiale, come te. Pronta a combattere?" disse.                                                             

"Certo, ma… come faccio ad evocare i miei poteri? Sono una guerriera da pochissimo tempo e già pretendi che sappia lanciare incantesimi?" rispose Diana.

"Pensa a che genere di attacco vuoi lanciare, per esempio un uragano acquatico. La tua mente ti suggerirà di fare un movimento, in questo caso roteare, si impossesserà del tuo apparato locomotore e te lo farà fare, riuscendo nell’attacco. La mente di un guerriero non può sbagliare, tranne nei casi di quarto livello, ossia l’assoluta debolezza per l’eroe. Durante questa battaglia non ti potrà succedere, te lo assicuro!" rispose Libera.

"Quale fra i Talismani devo recuperare?"                               

"Visto che è la capitale, diciamo, della regione di Thopaxius, dovrai recuperare l’Orecchino dei Sentimenti: non appena sconfiggerai Saendorium comparirà davanti a te quell’oggetto ed avrai dieci secondi per prenderlo. Fatto ciò, si applicherà all’orecchio da solo, anche senza che tu abbia il foro per gli orecchini, ok?"

Non appena ebbero varcato quel fumo velenoso e Libera ebbe “parcheggiato”, si scatenò una tempesta di sabbia e da essa apparve Saendorium. A seguire, una perla danzò nel cielo e atterrò, poi si aprì: ne uscì una ninfea luminosa che emanava una luce bianco-rosa e comparve anche la serva preferita di Daemonium.

Giulia si fermò a pensare. Sapeva chi far vincere, fra i buoni e i cattivi, ma non trovava le parole per rendere avvincente e fantasy quella battaglia. Guardò fuori e… l’ispirazione le venne come se niente fosse.

Diana pensò velocemente a quale attacco poteva usare per primo: sfere d’acqua. La sua mente s’impossessò in modo molto rapido dell’apparato locomotore e dalle mani della ragazza scaturirono ininterrottamente quelle sfere, ma Saendorium fu più svelto e le bloccò con uno scudo di sabbia. 

Morgana passò all’attacco: una raffica di sfere di luce, tutte direzionate verso la sua nemica. Istintivamente, quest’ultima creò uno scudo e, facendo il gesto del cuore con le mani, lanciò una violenta scarica contro Perla, che sparì senza sapere come, dalla capitale della regione di Thopaxius.                                                                        

Saendorium passò all’attacco: lanciò delle sfere di sabbia e, come se non bastasse, fece rotare il suo dannato bastone: Diana ne materializzò uno fatto d’acqua e rispedì gli attacchi al suo nemico che, finalmente, s’era indebolito.

La ragazza e il nemico attivarono le loro scariche e quest’ultimo fece roteare il bastone con una mano: lei sembrava indebolita, ma… l’uragano d’acqua! Subito roteò su sé stessa con una velocità impressionante e Saendorium scomparve, senza lasciare tracce di sé.
Libera esultò e anche Diana, poiché era riuscita in quella sua prima missione. Comparve l’orecchino, lo afferrò delicatamente ed esso si agganciò al lobo del suo orecchio sinistro.                                                                               

Attorno alle due compagne di avventura comparvero un sacco di case di topazio e delle creature, tutte donne. Non erano troppo alte ed erano magre, avevano la testa a goccia con un topazio sulla fronte. La loro pelle era tutta gialla e anche i loro occhi e i loro vestiti, delle “uniformi” simili a quella di Diamante Giallo in Steven Universe.

"Ciao, noi siamo le Topaziane, le creature che popolano la nostra regione. Io sono Haneyelas, la loro regina, voglio parlare con te. Sai, vero, che non puoi uscire dal Regno Selenico fino a quando non lo avrai salvato, combattendo i nemici dal primo fino all’ultimo?" chiese una di esse.

"No, Libera, la mia tigre, non mi ha detto niente. Questo vorrebbe dire che non potrò tornare alla mia comune fino a quando non porterò a termine la mia missione da guerriera fantasy?" domandò Diana, anche se sapeva di avere ragione.           

"Non te la prendere, cara, ma sì, è così. Sarai stanca, suppongo, quindi dovrai riposare… tieni, mangia questo e dormi. Siamo brave persone, noi Topaziane, fidati, anche se fosse l’ultima cosa che fai. Vero, Libera?"
La tigre azzurra annuì solennemente: ciò voleva dire che c’era da fidarsi.

Haneyelas diede alle due amiche inseparabili lo stesso cibo:

del purè fatto con chissà quali patate con dei pezzetti di topazio in mezzo e un bicchier d’acqua. La regina aveva spiegato che quell’acqua era il regalo di una divinità nella quale credevano, chiamata Domenicana. 

C’era una storia, dietro. Un giorno, un avventuriero chiamato Saynvil, partì verso la regione di Thopazius: aveva sentito dai suoi amici della sua bellezza e quindi voleva 15 vedere com’era. Quando, dopo pochi giorni, fu a metà strada, si rese conto che non aveva mai mangiato né bevuto. Così si accasciò per terra, ma non arrivò nessuno a soccorrerlo. Domenicana se ne accorse e prese dal Mare della Serenità l’acqua sacra e la gettò su Saynvil. Egli ne bevve solo dieci gocce, mentre tutto il resto finì nelle altri regioni. In pratica egli aveva sacrificato la sua vita per la scienza. Oggi si crede che Saynvil sia morto, perché non fu più ritrovato e, addirittura, alcune persone ritengono di averlo conosciuto davvero, dicendo che era un uomo simpatico e determinato…

Daemonium, seduto sul suo trono su cui solo lui poteva stare, era infuriato come non lo era mai stato prima:

lanciava sfere di fuoco in ogni angolo della stanza e ognuna di esse era rivolta verso Morgana, che correva spaventata di qua  e di là e creava firewall pur di non farsi colpire: sembrava di essere in un videogioco in cui la protagonista era lei. Se non vi è ancora chiaro, aveva il potere della tecnologia, con la quale poteva fare tutto, dagli avatar agli attacchi.                                                                                   

Il nemico, ad un tratto, si fermò a pensare: aveva senso colpire la sua serva? La sua preferita? No, non era sensato, anche perché Saendorium era un nemico di primo livello, ma… c’era un ma: era troppo cattivo e ,in quanto tale, doveva punire i fallimenti altrui.                                                       

"S’è guadagnata un talismano, maledizione! Morgana, sai dove ho nascosto il secondo, vero?" chiese.
"Certo! A Granithian! L’Anello dell’Amore l’ho spezzato, cosicché quegli esseri blu e rossi scatenino il più grande femmine contro maschi che si sia mai visto nella storia! Sono stata geniale, non è vero, sommo Animo Nobile?" rispose l’Animo Nobile della Perla. Poi cominciò a danzare, facendo più movimenti della volta precedente: era pronta a creare un altro avatar, stavolta una femmina.
Era alta ed aveva un abito corto colorato con vari rosa. I suoi capelli corti erano di un rosa molto pallido e i suoi occhi erano di un rosso magenta molto scuro, quasi viola. Il suo sguardo si faceva malvagio ed acido quando si rivolgeva alle persone che si ribellavano e gentile con le persone a lei amiche. Ma a Daemonium non piaceva: quindi la serva fu costretta ad apportare qualche modifica. Le mise delle ali da angelo bianche e il potere dell’amore. La sua arma era una spada di cristallo rosa, in grado di raddoppiare, triplicare o quadruplicare la sua altezza e quindi i suoi superpoteri. Sembrava un boss finale di un videogame, anche se era solo un “enemie” di secondo livello.
"Questa donna si chiamerà Quartz Queen, visto che è rosa come i quarzi! Sapete, padrone, che questa qua può frantumare un pianeta semplicemente sfiorandolo con l’unghia?" spiegò la ragazza.               
"Mi piace! Mi piace moltissimo! Non farmi un regalo né per Natale né per il compleanno: è questo, quindi non sforzarti. Ho un’idea: non appena creerai un terzo avatar, potremo fondere tutti i nemici di quella ragazzina insolente e crearne uno con le sembianze di Saendorium, il corpo di Quartz Queen e i poteri della “new entry”! Non sarebbe magnifico? In questo modo, l’universo sarebbe mio! Ah, già che ci sei: ti donerò un nuovo potere, visto l’aiuto che mi stai dando!"                                                                               

"Entrambe le idee mi piacciono tantissimo, sapete? Quindi vi accontenterò. Quale sarebbe il mio nuovo potere, sommo padrone?"

"Ti dono il potere di fonderti ai nemici che crei, in modo tale da fortificare sia i tuoi poteri che quelli degli avatar per lo scontro finale. Se accetti, mangia questo frammento di diamante. Se non accetti, cancellerò il nemico che hai appena creato per sempre e anche i tuoi poteri".
"Accetterò senz’altro! Dammi qua e dammi il tempo di spaccare tutto!" disse Morgana. Prese quella scheggia e la mangiò di gusto. Qualsiasi gemma, purché fosse fra quelle Sacre, se mangiata, donava nuovi poteri, indipendentemente dal guerriero, sempre diversi fra loro. Ad esempio, l’Animo Nobile della Libertà, mangiando un granito, avrebbe potuto ritrovarsi il potere dell’amore. E nel cuore di Quartz Queen c’era un rubino ad alimentarne i poteri.

"Andiamo a portare un po’di sconquasso in quel territorio!" gridò Morgana. Lei e l’avatar dallo sguardo acido andarono in meno di un nanosecondo su Granithian, dove si unirono:

Morgana controllava Quartz Queen da dentro e lei obbediva…

Libera e Diana erano partite da Thopazius: si erano accorte che il fumo era tornato e stava avvolgendo la regione di Granithian. La tigre con lo zaffiro in fronte che, in un tempo che sembrava lontano ma era vicino, s’era arrampicata sopra alla grondaia per poi fregare di nascosto un tozzo di pane alla povera Edna Ashton-Meier.  Raggiunta la meta, videro questa gigantessa rosa da capo a piedi e si spaventarono: sembrava minacciosa e odiosa, infatti lo era: tutto quel rosa la faceva sembrare antipatica più di una bambina di cinque anni ricca sfondata, capricciosa e riverita come una divinità e che come risposta ha solo "Sì".

"IO – urlò, con la sua voce forte e antipatica – SONO QUARTZ QUEEN, L’UNICA, VERA, REGINA DI QUESTO MONDO! ALTROCHÈ ERENIDE CON TUTTE LE TENTAZIONI! NO, LASCIATELA PERDERE! UBBIDITE TUTTI A ME!"
Diana passò subito all’attacco, facendo un doppio turbine d’acqua, il quale non sembrò fare nemmeno un graffio alla gigantessa, che  cominciò subito a scagliarle contro cuori a raffica, il che la faceva sembrare la protagonista di un manga in stile Sailor Moon. L’eroina lanciò  sfere d’acqua all’impazzata e creò uno scudo per difendersi da tutti quei cuori. Esso faceva uscire solo gli attacchi d’acqua e la sua creatrice, in modo tale da difenderla da ogni attacco. Però Quartz Queen non sembrava contenta di come stavano andando le cose e, dopo aver ruggito (diciamo), duplicò la sua altezza.Continuò a scaricare raffiche di cuori, saette, cuori infranti e, non contenta, cominciò anche a parlare mentalmente alla sua avversaria: "Ti piace Friedrich… non riuscirai mai a salvare il Regno Selenico… Erenide ti schiaccerà con il suo piede, perché è della mia altezza… unisciti a me… io ti voglio bene…". E fu questo a far incattivire l’Animo Nobile dell’Acquamarina: "ARPA ACQUATICA!" gridò e, in mano, le comparve un’arpa fatta d’acqua. Cominciò a suonarla: da essa uscivano note soavi e ammalianti, quasi seleniche, le quali spinsero Quartz Queen ad utilizzare lo stesso attacco: fu una gara a colpi di note e la nemica sembrò avere la meglio, fino a che Diana, mentre suonava, creò un turbine d’acqua che vorticava velocissimo. Poi si sentì la terra tremare e una mano d’acqua con un’acquamarina incastonata al centro del palmo prese per il collo la gigantesca donna rosa e la buttò a terra… sfiorandola con l’unghia. In quel momento successe una cosa assurda nel migliore dei modi.

Diana venne travolta da una massa d’acqua che prese le sue sembianze e che venne controllata da lei, nei movimenti e nelle parole da utilizzare. E disse: "Quartz Queen, la terribile e cattiva donna rosa che aiuta Daemonium e la sua serva, Morgana, nella loro missione, ti ritengo ufficialmente bandita dal Regno Selenico!"
"Chi sei tu per dirmi se sono bandita, eh? Chi? Ah, forse lo so: una bambina grande quanto il palmo della mia mano che gioca a fare la supereroina!" ribatté la nemica.
"No, non lo sai! Sei grande e grossa, tu, ma il tuo cervello rimarrà per sempre una caccola! E ora, se mi permetti, l’acqua ti trascinerà nello spazio e ti disintegrerà, o meglio, spargerà l’energia di cui sei fatta!"

"Fermati! La puniremo, certo, ma non in modo così crudo… basta solo che la sgridi, nessun castigo. Essere rosa, riduci le tue dimensioni e vieni a vivere con noi. Torna alla tua altezza originale" disse una figura blu, affiancata da una rossa.

La prima aveva la pelle blu chiaro, i capelli lunghi e turchini, gli occhi azzurri e un abito lungo e blu notte, bianco e nero ed era alta come una Topaziana. La seconda aveva i capelli castano scuro corti e la pelle rosso chiaro, gli occhi rosso carminio, una maglietta nera e i pantaloni in tinta con gli occhi ed era alta come l’altra creatura.  

"Io – disse – mi chiamo Zealan e sono un Granitiano. Lei, invece, è la mia migliore amica Oranel. Nel vostro mondo li tradurreste come Zeno e Ornella, ma chiamateci coi nostri nomi non tradotti. Sappiamo tutto di tutti perché crediamo in Amoriana, l’equivalente di Afrodite. Abbiamo tenuto noi due il Secondo Talismano, perché egli ce l’ha concesso. Non pensare che siamo strani, ma siamo in sintonia con tutto" disse Zealan.                                                                               

"Non abbiamo una regina ,ma la stiamo cercando da una vita e oggi si è presentata l’occasione giusta. Quartz Queen, volete diventare la nostra sovrana oppure no?" chiese Oranel. 

Morgana era uscita dal corpo dell’avatar e l’aveva fatto diventare una persona materiale: una buona azione se la poteva concedere, una volta ogni tanto, all’insaputa del padrone.                                                                           

Quartz Queen scosse la testa come se si fosse appena svegliata da un incubo e si fece spiegare dai due Granitiani l’accaduto. Raccontò che il suo corpo era stato posseduto da una persona molto cattiva di nome Morgana, una creatrice di avatar che aveva dato vita anche a lei stessa.    "Allora, accetterete di diventare la regina tanto attesa di questa regione? Se ve la sentite, altrimenti…" ridomandò Zea