Arturo Ghergo. Fotografie 1930-1959

03.04__08.07.2012
a cura di Claudio Domini e Cristina Ghergo
Arturo Ghergo. Fotografie 1930-1959 3 aprile__8 luglio 2012
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Immagine mostra

Nel panorama della fotografia “di studio” prodotta in Italia tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, la figura di Arturo Ghergo è certamente quella che meglio incarna la tensione verso quell’ideale di bellezza e di eleganza che nel mondo anglosassone veniva compreso nella nozione di glamour.
Ghergo è l’unico fotografo, in un’Italia in bilico tra provinciali resistenze pittorialiste e timide spinte moderniste di gusto neoclassico, a percorrere coscientemente e insistentemente la via già tracciata negli Stati Uniti dalla fotografia di moda e di cinema, applicando, reinventandoli ad uso e gusto della nuova cultura visiva nazionale, i moduli figurativi di una società progredita e sofisticata, in particolare per ciò che riguarda il soggetto femminile, ridefinito in forme e valori espressivi inediti, spesso in netta discontinuità dai canoni estetici auspicati e propagandati dal gusto conservatore dell’epoca.
Arturo Ghergo nasce nel 1901 a Montefano, in provincia di Macerata e si trasferisce a Roma nel 1929. Qui apre uno studio fotografico nella centralissima via Condotti, dove pratica esclusivamente l’arte del ritratto, rigorosamente nel formato 18x24 cm, in cui il controllo sapiente e maniacale della luce e della posa produce vere e proprie “icone”, espressamente concepite per acuire la distanza insormontabile fra il soggetto effigiato e i “comuni mortali”. Gli espedienti retorici sono esclusivamente affidati proprio alla luce, avvolgente, misterica, a volte vagamente simbolica. Il resto lo fa il ritocco manuale, vero e proprio intervento di chirurgia estetica, materialmente eseguito sulle carni vive della pellicola fotografica e poi dissimulato con ulteriori espedienti pittorici, e sapienza d’alchimista. I fianchi e le braccia si sfinano, i seni si sollevano, la pelle diventa liscia come seta, gli occhi brillano di una luce profonda, soprannaturale...
Nel giro di pochi anni si afferma come il ritrattista più ambito della capitale, conteso da divi del cinema, personaggi della politica, della cultura e, soprattutto, dell’alta società, desiderosa di riaffermare, anche per via fotografica, un primato sociale che la nuova fase storica rischiava di mettere in crisi, e che spesso e volentieri offre il proprio prestigio all’allora nascente industria della moda. Le modelle porteranno così i nomi altisonanti del “gran mondo”, e saranno una giovanissima Marella Caracciolo, non ancora signora Agnelli, Consuelo Crespi, Mary Colonna, Josè del Drago, Irene Galitzine.
Ma è soprattutto il mondo del cinema che affida a Ghergo la rifondazione della propria fotogenia. Negli anni in cui l’Italia imbocca la via dell’autarchia sul fronte cinematografico, le star nostrane, anche grazie al sapiente obiettivo di Ghergo, non fanno rimpiangere quelle d’oltreoceano. Da Isa Miranda a Mariella Lotti, e poi Leda Gloria, Alida Valli, Marina Berti, Assia Noris, Maria Denis, Valentina Cortese, Clara Calamai, Paola Barbara, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti... e, nel dopoguerra e fino a tutti gli anni Cinquanta, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Vittorio Gassman... Sono solo i nomi più eclatanti di un catalogo che non sfigurerebbe troppo con quello del Don Giovanni mozartiano, a cui si aggiunge l’infinita teoria di aspiranti stars, tutte trasfigurate dal Ghergo’s touch, in sofisticate entità semidivine.
La sua formula iconografica gli garantisce una fama e una considerazione praticamente immutata, fino alla morte prematura, nel 1959. Anche con il mutare delle mode, e con l’introduzione di inedite modalità espressive, sperimentate attraverso il colore, la fotografia pubblicitaria e la pittura, Ghergo rimane infatti fondamentalmente fedele al suo stile, continuando a testimoniare il proprio personale e incrollabile culto della bellezza. Una bellezza non necessariamente reale, frutto di analogica registrazione chimico-fisica, ma costruita faticosamente con la luce, artificiosa, sublimata e immaginifica, che sta già nella mente di Ghergo, prima che nella fisionomia dell’effigiato.