Hommelette for Hamlet operetta inqualificabile [d’à jules laforgue] di Carmelo Bene

regia di Carmelo Bene scene e costumi di Gino Marotta musiche originali adattate e dirette da Luigi Zito con Ugo Trama, Marina Polla de Luca, Achille Brugnini, Stefania de Santis Bari, Teatro Piccinni, 10 novembre 1987


“Ebbene immaginiamo che ogni volta che le membrane si rompono, dalla stessa uscita s’involi un fantasma, quello di una forma della vita infinitamente più primaria, che non sia affatto pronta a raddoppiare il mondo come microcosmo. Rompendo l’uovo si fa sì l’Homo ma anche l’Hommelette”. Jacques Lacan

L’Operetta “inqualificabile” origina dal racconto del poeta francese Jules Laforgue, Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale, compreso nella raccolta di scritti intitolata Moralità leggendarie [1887]. A contrappunto del testo “portante” Bene interpone brevi passaggi dal racconto Salomè, dai Derniers vers, da La chanson du petit hypertrophique, intrecciando la prosa musicale del poeta alle sestine di endecasillabi del poemetto di Guido Gozzano La Signorina Felicita e ad alcuni passaggi letterali da L’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud sul mito di Edipo, prontamente “cestinati” da Orazio. Infine, Jacques Lacan il cui assunto psicoanalitico in estrema sintesi dà il titolo all’opera. Shakespeare è ridotto all’osso, giusto per togliere di scena, cestinandola, anche l’esitazione amletica par excellence, “Essere o non essere”. L’Amleto Laforgue/Bene è stanco di essere Amleto, immagina per lui istrioniche evasioni parigine con Kate, primattrice di una compagnia di guitti, per smarcarsi dal sentimento incestuoso nei confronti della madre, causa del senso di colpa legato alla morte del padre...
Ma come per l’Amleto scespiriano, anch’egli morirà per mano di Laerte dopo aver pronunciato la nota frase attribuita a Nerone “qualis... artifex... pereo!”. A sugello della fine del suo racconto Laforgue commenta beffardo: “Un Amleto di meno; non per questo la razza si è estinta. Diciamocelo Pure!”. Bene orchestra la penultima delle sue versioni amletiche nel gioco della parodia che invade la scena, animata da una complessa partitura di linguaggi che si annullano a vicenda: gli angeli barocchi e la Beata Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini convivono con il monumento a Maria Cristina d’Austria di Antonio Canova sotto un’accecante luce gotica; il monologo drammatico sfocia nell’opera lirica; il tragico nel varietà, il classico nella parodia,
la tragedia di Shakespeare nello struggimento domestico di Laforgue. Per restare a Freud, un fenomenale motto di spirito o, come scrisse Maurizio Grande, un’operetta tombale.