Intervista di Cesare Pietroiusti a Miltos Manetas | II parte

 
 

Cominciamo dai dati di fatto. L'inaugurazione era prevista per l'11 maggio. A quella data i tuoi quaranta ritratti, a causa degli inevitabili ritardi nelle spedizioni postali in questo periodo di emergenza, non erano ancora arrivati. Anche su tua indicazione, abbiamo deciso di inaugurare lo stesso e allestire delle stampe che sono arrivate attraverso la posta elettronica. Una volta fatta (e comunicata) l'inaugurazione, la mostra, ufficialmente "c'è".

Quindi, ricapitolando, "Condizione Assange" è una mostra concepita per non essere visitabile dal pubblico ma, come hai detto tu nel nostro precedente colloquio, “NON è chiusa”. Inoltre è una mostra che, anche senza le opere che doveva ospitare, esiste e, per esempio, se ne parla. Qui, e altrove.

Non ti sembra che questi fatti delineano un'operazione in cui l'opera è frutto di un concorso di persone e circostanze diverse in cui tu, l'artista, e le tele, l'opera propriamente detta, sono solo una parte?

Capisco che ogni allestimento richiede un certo uso di colori, luci, sfondi ecc. Ma qui c'è qualcosa di più. Mi sembra di riconoscere, nello spazio, la presenza di uno spirito-dell'attesa, che forse non è soltanto la pura e semplice preparazione di una sede espositiva. Fra l'altro, la mostra, come abbiamo detto, c'è e anche questa colorazione per cui tu hai dato indicazioni, questo nuovo stato del luogo, ne fa parte. Non credi?


Il mio lavoro sul tema Assange, io Io chiamo #AssangePower. Piu che "power", la parola giusta sarebbe "strength": forza. Sento che fare queste pitture mi dà forza, donarle ad altri mi dà forza, e ora condividerle attraverso l'esposizione “Condizione Assange”, di più ancora! “Mostra” per me vuol dire presenza e, in questo caso, presenza di energia visiva, generata da queste pitture in un determinato spazio - la Sala Fontana di Palazzo delle Esposizioni – e in un momento storico nel quale tutti ci troviamo in una condizione simile a quella in cui Julian Assange si è trovato per anni prima del suo arresto, l'11 Aprile 2019: l'autoconfinamento.

La presenza - come la intendo Io – comincia con l’aura dell’attesa: quella che si avverte quando qualcosa sta-per-accadere. Normalmente nelle mostre questo momento di preparazione non è dato al pubblico: le porte si aprono, il visitatore entra in contatto con l’energia dell’opera; può essere uno shock, ma l’attesa della preparazione non c’è più. Nel nostro caso, però, siamo stati fortunati! Il viaggio postale delle pitture è stato ostacolato - come sarebbe stato… ostacolato l'arrivo di Julian Assange, o anche il mio stesso arrivo a Roma da Bogotà.

Questo ci ha dato il tempo di ripensare l'ambiente di “Condizione Assange”: la Sala Fontana, una stanza esagonale con una fontana al centro, dove non scorre più acqua; una sala che, intuitivamente, mi sembrava già quasi pronta a "ricevere” Assange.

Ho visto online due mostre fatte nei mesi scorsi nella Sala Fontana: “Natura in tutti i sensi”, il tentativo di fare "un grande giardino collettivo" con le pareti colorate, brillanti come ci si immagina che brilli la natura fuori dal Palazzo, magari fuori Roma; poi ancora un'altra mostra-laboratorio del 2016 "Sensi unici”, con i pannelli Braille sulle pareti che i bambini (vedenti e non) dovevano toccare per “vedere”. Rappresentazioni del mondo fuori da una sala al cui centro resta, come un’evocazione, una fontana inattiva. Oggi i nostri figli incontrano i loro amici e i professori esclusivamente attraverso il tatto inquietante di cursori e schermi, e quelle due mostre-laboratorio diventano molto significative perché parlano della fisicità e della vera emergenza oggi nascosta sotto quella del Covid-19, la questione del clima - l'elefante nella stanza di tutti I nostri discorsi. Il messaggio di quelle mostre, come i colori di queste pareti, richiamano i "Lamenti di Greta". La storia di Julian Assange dice anche qualcosa sulla proibizione non tanto di parlare di quella emergenza, quanto di svelare gli abusi grandi e piccoli, le manipolazioni e le mistificazioni che stanno dietro i discorsi dominanti, compresi i discorsi "Green" sulle presunte riconversioni produttive "ecologiche". Chi prova a farlo, sarà messo a tacere. Non da chissà quali personaggi "cattivi", non credo nelle teorie della cospirazione. Vedo invece una specie di "offuscamento" della Legge e della democrazia, un incontro fatale tra la burocrazia e i media che crea le condizioni per mettere a tacere chiunque di noi, nell’indifferenza di tutti gli altri.

È per questo che ho deciso di passare una mano di gesso sopra i colori residui della "natura in tutti I sensi". Il gesso per pittura è praticamente polvere. Quando, la settimana scorsa, avevamo passato la prima mano di gesso – io controllavo a distanza, con lo smart phone - è uscito fuori un

“effetto Giotto" che non ho avuto il coraggio di distruggere. Sapevo che non andava bene, però mi faceva troppo felice per cambiarlo. Un po’ come i privilegi di cui godiamo.

Nel giorno dell’inaugurazione - che abbiamo fatto via Instagram, scelto tra i vari social media proprio perché inadatto a questo genere di eventi – ho visto chiaramente che, se non “rovinavo” questa bellezza, l'incontro della Sala Fontana con le mie pitture non ci sarebbe stato. Ora lo spazio è cupo al punto giusto e cose imprevedibili possono accadere…


 

E allora torno a farti la domanda: qual è lo statuto di questi ritratti? Tele che vengono fatte da un artista che si trova in Colombia e che vengono distribuite gratuitamente, che in mostra ci possono essere o non essere, che ora si trovano anch'esse in uno stato di sospensione fra attraversamenti di confini, uffici postali o chissà cos'altro. A me sembra che si tratti di oggetti che, al di là anche del loro contenuto e del loro riferirsi ad Assange, stanno assumendo dei tratti molto interessanti e forse inquietanti.
 

Io sono una persona diffidente rispetto alla dimensione spirituale: mi convincono solamente i dati e quel che vedo in superficie. Cerco di prestare però anche molta attenzione alle intenzioni, alle conseguenze, ai collegamenti. Dai miei viaggi in Amazzonia, nei miei incontri con le comunità - quelli che noi stupidamente chiamiamo "indios" - ho constatato che esiste la possibilità di uno sciamanismo totalmente materialista. Che anche noi, gente confusa e persa - i "piccoli fratelli" come ci chiamano loro con tenerezza e tolleranza - possiamo inventare attraverso i nostri computer e network.

La pittura, specialmente quella fatta con l’olio sulla tela, resta per me il computer più potente che la civiltà occidentale abbia prodotto. Questo perché - in contrasto con le altre arti - con la pittura si rivela tutto subito, al primo istante. Basta uno sguardo a una tela di Raffaello, e la tua vita non è più lo stessa. Quel che la pittura invece non può fare, è mettere insieme le persone. Diventa infatti, facilmente, uno schermo: separa e nasconde quelli che la guardano. È forse anche per questo che persone miserabili diventano spesso grandi appassionati di quadri... Oggi però esiste “il network” e questo trasforma tutto. Le pitture, con la loro materialità e attraverso il loro riflesso nel network possono diventare strumenti per un nuovo sciamanismo materialista.

  
 
 
A me viene in mente che I quadri sono un po' una tua protesi fisica (perché tu non puoi viaggiare e venire qui), o l'espansione di un tuo pensiero che però, in questo moltiplicarsi di stati e di luoghi di sospensione, diventa un pensiero diffuso e poco definibile. Te lo posso dire? sembra il modello di un contagio…
 

Esattamente. Si tratta di un contagio, per questo anche rifiuto di essere ringraziato dai collezionisti dei ritratti di Assange per il "regalo" che faccio loro. Non faccio nessuno regalo: il fatto che loro ricevano queste opere, mette in atto un rituale (contagioso) che sarebbe altrimenti impossibile.

Io spero che, a lungo termine, il mio progetto contribuisca alla configurazione di un mondo dove tenere “un Assange" in prigione sia impossibile.


 

Sono d’accordo. L’opera, quando diventa parte di una collezione, separata dall’artista e dal mondo, è in una specie di prigione. Con i riflettori addosso, in sale prive di polvere, ma senza più la libertà di dire ciò che non ha detto finora, e senza più la possibilità di diventare altro.
 
 

 
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