Testi introduttivi delle opere di Bene in mostra

1. Cristo '63

 

2. Salomè da e di Oscar Wilde

 

3. Pinocchio '66

 

4. Faust o Margherita

 

5. Il Rosa e il Nero

 

6. Nostra Signora dei Turchi

 

7. Arden of Feversham

 

8. Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa

 

9. Salomè, lungometraggio

 

10. Don Chisciotte

 

 


 

 

Cristo '63

Teatro Laboratorio, Roma 4 gennaio 1963

 

"Non c'è niente che possa smuovere il luogo comune quando diventa aneddoto giornalistico. Quel pissing mi resterà addosso tutta la vita."

Al numero 23 di Via Roma Libera, all'interno di un cortile, dentro una ex falegnameria, si trova la "prima casa da capocomico" di Carmelo Bene: "Un casino più che una casa [...]. Un gradino e basta, cinque metri di boccascena [...]"  Pinocchio, lo Spettacolo-Concerto Majakovskij e Amleto, sono alcuni degli spettacoli che Bene porta in scena al Teatro Laboratorio dal 1962 al gennaio del 1963, quando al termine dell'happening dedicato a James Joyce, Cristo 63, il teatro viene definitivamente chiuso. "C'era chi veniva per sghignazzare di questa specie di povertà mista a guitteria". Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Sandro Penna, Flaiano, sono fra gli intellettuali che fanno da traino a "un pubblico molto snob, molto ricco e molto scemo" variamente maltrattato da Bene e dagli attori della sua compagnia, alcuni dei quali, Manlio Nevastri, le giovani leve Alfiero Vincenti e Luigi Mezzanotte, prelevati  dalla non mai tanto da lui  osannata Compagnia D'Origlia Palmi, ultima rappresentante di un teatro "da repertorio" consumato e graziato dall'afasia e dai vuoti di scena, origine involontaria di quelle "zone contestative del linguaggio drammaturgico tradizionale" attivate da Bene in questi anni. Basato su "alcune belle pagine dell'Ulisse di James Joyce" e su altre "piuttosto scurrili del romanziere francese Genet",  lasciato in parte alla libera improvvisazione degli attori, Cristo 63 è annunciato dallo slogan "Arte-Vivo" coniato  dal pittore performer-situazionista argentino Alberto Greco, premessa a quel che avrebbe pericolosamente traghettato lo spettacolo oltre i confini di una 'normale' rappresentazione teatrale. In scena, Bene nella parte Gesù con "torso nudo, pantaloni neri e frac noleggiato per l'occasione" e Greco nelle vesti  "color verde-azzurro Tintoretto" di Giovanni l'apostolo. Questi poco assuefatto al bere si alza la tunica e comincia a orinare sull'ambasciatore d'Argentina, sulla consorte in visone e sull'addetto culturale proclamando: "Viva Arte-Vivo! Abbasso Argentina!". Non pago, traendo "nuovi diffamanti spunti dalle torte di scena dell'Ultima Cena", rovescia "in creativo slancio a ripetizione manciate di panna, grumi di liquorosa pasta sopra i tre compatrioti inchiodati al loro seggio in una stuporosa, incredula, dignitosa fissità".  Bene, auto crocefisso a terra "in balia delle ultime parole prima di spirare", sussurra alle orecchie dei compagni un ultimo disperato richiamo all'ordine: "'Fate il copione". Carmelo Bene viene denunciato per atti osceni in luogo pubblico, vilipendio e oltraggio, Greco sarà costretto a lasciare l'Italia. In Spagna, dove morirà suicida nel 1965,  riporterà l'episodio su un frammento del Gran Manifiesto Antimanifesto Rollo Vivo-Dito (conservato al Museo Reina Sofia a Madrid). In seguito gli accusati saranno entrambi assolti, testimoni per la difesa di Carmelo Bene le foto scattate da Abate sequestrate dalla polizia durante il famigerato happening: "Benedette foto! Causa della mia assoluzione per non aver commesso il fatto."

 

Cristo 63. Carmelo Bene, Giuseppe Lenti, Alberto Greco presentano uno spettacolo Arte Vivo. Omaggio a James Joyce.


 

 

Salomè, da e di Oscar Wilde

Teatro delle Muse,  Roma dal  2 al 10 marzo 1964  

 

"Partorita da spensierata sofferenza", Salomè secondo Carmelo Bene "s'impone all'universo provincialismo romanesco e all'italietta critica, d'un balzo". Le scenografie, i costumi e il trucco,  rivelati dalle fotografie di Claudio Abate, sono debitori con pochi cenni dell'estetismo simbolista delle Salomè di Gustave Moreau descritte nel V Capitolo di À Rebours di Huysmans e delle illustrazioni alla prima edizione inglese del testo di Oscar Wilde ad opera di Aubrey Beardsley. Bottiglie di whisky e "cenci Art Nouvevau" disseminati ovunque, un "radiofono-bar-tabernacolo" trasformato in un "altare alla Huysmans", annunciano una scena già esausta sulla quale "nell'odore perverso dei profumi" si aggirano fumando e bevendo  con ostentata indolenza nel "tentativo disperato di uscire dalla noia di ogni giorno attraverso l'artificio del costume", gli ospiti di un  "dramma da camera". Tra questi, Erode Antipa, Carmelo Bene con una "coroncina di rose attorno al capo",  Erodiade,  Alfiero Vincenti en-travesti con in braccio una giovane donna, Cappadocia, Edoardo Florio con "una strana mitra da vescovo", Narraboth, Michele Francis vestito "come il sacerdote di una religione defunta" e la "dea dell'immortale Isteria", Salomè, Rosabianca Scerrino,  "una bambina cresciuta anzi tempo" che si aggira sul palco "in una specie di pagliaccetto-livrea" reclamando capricciosamente la testa del Battista, Franco Citti, un profeta di periferia, "un disgraziato analfabeta" di cui nessuno comprende l'idioma (una  volta riemerso dal pozzo dello champagne non farà altro che ribadire la propria estraneità ai fatti scenici,  "Datemi una bicicletta. Di chi è stata l'idea di farmi salire sul palcoscenico?"). Tutti "Attori spregiudicati e pregiudicati", assieme a Citti sul palco un altro attore pasoliniano con un permesso speciale dal carcere, Alfredo Leggi che canta in cilindro "Se vuoi vivere senza pensieri dalle donne te devi guardà". Finito l'happening inizia la tragedia di Wilde trasformata nel dramma privato di Erode il quale, dopo aver ceduto la testa del profeta  al solo scopo di garantirsi un rimorso, "inventa la paura" e zittisce Salomè con "una curiosa  penna stilografica - rivoltella", come non mancherà di notare Ennio Flaiano.

A questa prima incursione critica ad opera di Carmelo Bene nel dramma di Oscar Wilde seguiranno una  seconda versione teatrale nel 1967, le varianti filmica del 1972  e quella radiofonica del 1975.

 

Salomè da e di Oscar Wilde. Regia di Carmelo Bene e Giuseppe Lenti. Scene di Salvatore Vendittelli. Interpreti: Carmelo Bene (Erode), Franco Citti (Iokanaan), Rosabianca Scerrino (Salomè), Michele Francis (Narraboth),  Alfiero Vincenti (Erodiade), Edoardo Florio (Cappadocia), Alfredo Leggi.


 

 

Pinocchio '66

Teatro Centrale, Roma dal 17 marzo al 2 maggio 1966  

 

"Nessuno se ne era accorto, nemmeno Pasolini, nel testo c'è una rivoluzionaria avventura del linguaggio, creata dalla perdita della sintassi. In certi punti sembra di sentire Joyce in anteprima." Per Carmelo Bene Pinocchio è un testo rivoluzionario innanzitutto per ciò che riguarda la lingua italiana assunta con rispetto perché portatrice in sé di una teatralità della parola in divenire: "Collodi ha realizzato lo smarrimento della sintassi, in certe scorrettezze: 'la quale', 'cui', messi un po' a caso [...]. È proprio un discorso tutto musicale, fatto solo di mancanze, afasia totale. La tecnica del non respirare mai, per esempio... Respirare solo all'interno di un parola, e non tra una parola e l'altra... La tonica, la dominante spostata... Non c'è mai una sola cesura." Per marcare la rivoluzione copernicana operata da Collodi rispetto al tema trattato, in apparenza un burattino indisciplinato che merita la gloria dell'incarnazione in un bambino "vero" a furia d'inciampi, punizioni e pentimenti, Bene si avvale di alcuni passi tratti da Cuore di Edmondo De Amicis. Rappresentanti "di una certa realtà dell'italietta umbertina", i piccoli eroi deamicisiani incarnano il rovescio immediato del burattino rivoluzionario di Collodi: "Almeno due terzi dei seicentomila morti sulle trincee alpine della prima guerra mondiale avevano nello zaino il Cuore di De Amicis. Son sicuro che se avessero avuto Collodi forse ne sarebbero  tornati almeno la metà". Al fanciullo cui viene sottratta l'infanzia, che muore sacrificandosi per un ideale, Bene  contrappone un fanciullo/burattino che  rivendica la sua condizione di spensieratezza al di qua dei falsi valori professati dalla vita adulta. Lasciati  intatti i monologhi a perdifiato in cui Pinocchio racconta la sua verità, il controcanto fanciullo  si ritrova nella musicalità del dire al di là di ciò che è detto e svela il desiderio dell'essere bambino di proteggere la favola come finzione di fronte alle minacce normative di  cui si fanno portatori tutti i personaggi  del buon senso: Geppetto, il Grillo parlante, il Pappagallo, la  bella bambina coi capelli turchini, destinata a riemergere in forma di Fata  per complicargli la vita, madre-donna-amante.  L'istanza coscienziosamente educativa sarà destinata a riemergere nella costruzione  artificiale di un bambino in carne e ossa obbligato a dire addio alle sue mascherine e alla poesia delle sue invenzioni. Nascita al mondo adulto non meno tragica della fine toccata in sorte al "povero e bravo ragazzo" ucciso dal fuoco degli austriaci mentre si esponeva per difendere la patria, al cui corpo  esangue avvolto nel vessillo patriottico farà eco nella scena finale del Pinocchio secondo Carmelo Bene la morte della fanciullezza accolta da un tripudio di bandiere e fari tricolore puntati sulla platea.

Pinocchio assieme ad Amleto è l'anima del teatro di Carmelo Bene. Presente nella sua opera teatrale, radiofonica e televisiva a più riprese dal 1962 al 1998.

 

Pinocchio '66. Da Carlo Collodi. Adattamento e regia di Carmelo Bene. Maschere di Salvatore Vendittelli. Carmelo Bene (Pinocchio), Lydia Mancinelli (La volpe, La fatina dai capelli turchini), Edoardo Florio (Geppetto, Il grillo parlante, Mangiafuoco, L'oste, Il lumacone, Il pappagallo), Piero Vida (Clown, Mastro ciliegia, Il gatto, Palla di Burro, L'imbonitore, Il compratore), Luigi Mezzanotte (Lucignolo), Valeria Nardone (Ragazzo, Civetta), Manlio Nevastri.


 

 

Faust o Margherita

Teatro dei Satiri, Roma dal 3 al 30 gennaio 1966

 

Concepito tutto in una notte consumando un numero mai precisato di Manhattan, lo spettacolo scritto in collaborazione con Franco Cuomo è "un Faust ispirato ai fumetti". Mefisto (Mario Tempesta) "un disgraziato a cui non gliene va bene una", è l'Uomo Mascherato, "un ragioniere con il libretto Enpals nella fondina invece del revolver". Come ricorda Cuomo "Faust aveva già ceduto la sua anima, e la rivoleva indietro. Ma essendo un fallito [...] non aveva granché da offrire. Tranne l'amore della donna che lo manteneva, una Margherita bellissima e sciocca". Margherita (Lydia Mancinelli) gestisce una boutique di abiti da sposa, cui attendono un certo numero di modelle, tra le quali una giovanissima Manuela Kustermann, confuse tra i manichini di legno d'uno dei quali Faust è perdutamente innamorato. Faust riesce a far disamorare Margherita confessando, allo stremo, di non avere una laurea e alcun diritto al titolo di "dottore". Margherita accetta di sposare il povero ragioniere (Mefistofele/Uomo Mascherato): "Se lo sposo se la sposa", breve citazione da I Promessi Sposi di Manzoni che in pochi riconoscono. Una pratica delle citazioni non manifeste che resterà una costante stilistica dell'opera di Bene, collages molto raffinati raramente ricondotti e riconducibili alle fonti da cui furono tratti. Nella scena finale Faust, "la sua libertà è più di quanto possa sopportare", si porta una pistola scarica alla tempia mentre Mefistofele ascolta, fantomatici, i risultati domenicali delle partite di calcio reclamati dallo stesso Bene su musica portante dal V atto del Faust di Charles Gounod. "I fumi e le fiamme [...] i duelli e i duetti, i si bemolle e i do di petto, le vergini e le prostitute",  il montaggio musicale e rumoristico  che, secondo Corrado Augias, basterebbe da solo "a fare un radiodramma di un certo livello", salvano agli occhi della critica uno spettacolo altrimenti liquidato come farsa goliardica e provocatoria. Prima sperimentazione critica di "teatro come opera d'arte totale" di ascendenza wagneriana, la messa in scena attiva un conflitto tra le arti in luogo di un'alleanza per vedere cosa accade quando il Faust di Gounod sostiene in partitura i risultati di una partita di calcio, o quando, molti anni dopo, nell'operetta Hommelette for Hamlet, un'aria di Verdi entra in cortocircuito con i dissidi interiori di Amleto.

 

Faust o Margherita. Due tempi di Carmelo Bene e Franco Cuomo. Regia di Carmelo Bene. Scene di Salvatore Vendittelli, costumi di Carmelo Bene, direttore di scena, Elia Jezzi. Interpreti: Carmelo Bene (Faust) Lydia Mancinelli (Margherita), Mario Tempesta (Mefistofele), Piero Vida (Wagner) e con in ordine alfabetico: Anna Angelucci, Manuela Kustermann, Valeria Nardone, Rosaria  Vadacca.  


 

 

Il Rosa e il Nero da di a M. G. Lewis (versione teatrale n. 1 da "Il Monaco")

Nuovo Teatro delle Muse, Roma dal 7 al 31 ottobre 1966

 

Lo spettacolo, "trapianto del più celebre e geniale romanzo gotico  inglese" Il Monaco di Matthew Gregory Lewis (1796), riportato in auge in ambito surrealista da André Breton e Antonin Artaud, vagamente recepito dalle critiche del tempo come un pastiche di "travestimenti, pratiche magiche, incesti, matricidi, processi, appuntamenti notturni, apparizioni di fantasmi", introdotto "a sipario alzato da un'orgia di effetti musicali più o meno elettronici", è in sintesi, e a ragione, "quel punto morto a cui Carmelo Bene tende da anni: costruire uno spettacolo sradicato dalla realtà quotidiana". Il Rosa e il Nero si presenta come un' orgia sensuale barocca. Attraverso "una sperimentazione di suono-rumore", come nota Giuseppe Bartolucci, "splendidamente adoperata come materiale di scrittura scenica" e grazie alla rielaborazione elettronica della colonna sonora di Vittorio Gelmetti, al synket di Paul Ketoff e alle partiture per voce di Maria Monti composte da Sylvano Bussotti, la parola si fa suono, rumore, canto. "La recitazione diviene essa stessa un elemento non logico ma semiologico" attraverso costumi non "precostituiti" "che prendono parola tutte le volte in cui "una situazione particolare (detta anche 'persona')" interferisce "in una situazione generale o coscienza dello spettacolo", mentre l'illuminazione si tramuta in sguardo "come se ogni scena fosse spiata da qualcuno". Al centro della scena il monaco Ambrosio (Bene) impossibilitato a distruggere l'effige di una Madonna di cui è follemente innamorato, "per cui ha posato il diavolo in persona". Non potrà far altro che strappare dalla parete "l'ornamento inutile di un dipinto", la sua cornice. La sua stessa vanità di santo, "sistemata a cornice di tutti i quadri (in senso teatrale)", diventerà la sua storia e la sua fine.

 

Il Rosa e il Nero da di a  M. G. Lewis (versione teatrale n. 1 da "Il Monaco"). Regia di Carmelo Bene, costumi di Carmelo Bene, scena di Salvatore Vendittelli. Musiche: colonna sonora di Carmelo Bene, partiture per Maria Monti e articolazione da "Il Circo" di Aldo Braibanti, di Sylvano Bussotti, collaborazione elettronica alla colonna sonora di Vittorio Gelmetti, synket di Paul Ketoff, fonico, Elia Jezzi, realizzatore tecnica, Remo D'Angelo. Le canzoni Il re dell'acqua, Ninna nanna, Serenata spagnola sono di Silvano Spadaccino. Le situazioni: Carmelo Bene (Ambrosio), Maria Monti (Agnese), Lydia Mancinelli (Matilda), Silvano Spadaccino (Don Lorenzo De Medina), Ornella Ferrari (Antonia), Max Spaccialbelli (Don Raymond De Las Cisternas), Rossana Rovere (Elvira, madre di Antonia e Sant'Agata), Rita Klein.


 

 

Nostra Signora dei Turchi

Teatro Beat 72, Roma dal 1 dicembre 1966 al 16 gennaio 1967

Teatro delle Arti, Roma dal 10 ottobre al 4 novembre 1973

 

Nostra Signora dei Turchi nata nel 1964 in forma di romanzo è un'opera che ha conosciuto due varianti teatrali e una trasposizione filmica, vincitrice del Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia nel 1968.  La prima edizione del 1966 va in scena in un locale storico dell'underground romano, il Beat 72, la ripresa dello spettacolo nel 1972  segnerà il ritorno di Bene al teatro dopo la parentesi cinematografica che  lo aveva tenuto lontano dalle scene per cinque anni.  "Bisogna sempre tener conto" afferma Lydia Mancinelli "che Carmelo Bene ha in ogni spettacolo un'unica idea centrale. In Nostra  Signora dei Turchi è quella della quarta parete, chiusa, in vetro, oltre la quale il pubblico spia". Spia le tracce di un racconto autobiografico immaginario che le cronache, all'epoca della prima edizione, smarrite nell'impossibilità di rintracciare una trama, definiscono "non privo di feroce autoironia", intriso, tra ribellione e nevrosi, di sesso, religione e senso del macabro. "Visione d'un sud dei santi (il barocco fatto in casa)", Nostra Signora viene letta come la "parabola di una riluttante vocazione al martirio" il cui protagonista, "forse" uno dei martiri otrantini vittima cristiana del lontano massacro ad opera dei Turchi, "senza pace di tomba, a mo' dei vampiri", "diviso tra due Margherite", "l'una carnale e placidamente borghese, l'altra eroica e aureolata". Quest'ultima una "umanissima Santa Margherita che fuma, prende il caffè, dorme e si risveglia, concede e pretende perdoni. Bene, "tra dimensione terrena e affinata spiritualità", si trucca, si strucca, si fa una iniezione, corteggia una serva, si sdoppia in un altro sé subendo le avances di un frate sodomita, cucina spaghetti sulla ribalta e, infine, "al culmine di un'orgia gastronomico sessuale", muore "perdendo a pezzo a pezzo l'armatura indossata per l'occasione".  Una scena che Aggeo Savoli recensisce paragonandosi a un inviato sul fronte guerra: "affermazioni perentoriamente contraddicentesi, movimenti regolati da disegni occulti, frasi smozzicate e cancellate da rumori, da boati, da fragori".  Per Carmelo Bene Nostra Signora dei Turchi è un fatto autenticamente privato in cui l'io del protagonista "va a sfinire dappertutto, si frange", esibendo un corpo "sempre acciaccato, ferito, bendato, malconcio, tumefatto". La divisione tra scena e platea a distanza di circa cinque anni torna a far cronaca, sintomo, secondo Maurizio Grande, di "quella crisi della identificazione tra spettatore e materiale drammatico che si pone come specchio della propria irrevocabile condanna ad essere solo spettatori, eppure, e insieme, ad essere trasparenza della scena riflessa sulla trasparenza di chi guarda". 

 

Nostra Signora dei Turchi. Di Carmelo Bene. Regia di Carmelo Bene. Scenografia di Antonio Caputo. Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Margherita Puratich, 1966. 

Nostra Signora dei Turchi. Di Carmelo Bene. Regia di Carmelo Bene. Scena di Gino Marotta. Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Imelde Marani, Isabella Russo, Alfiero Vincenti, Bruno Baratti, Franco Lombardo, Gerardo Scala. Direttore di scena Mauro Contini, 1973.


 

 

Arden of Feversham

Teatro Carmelo Bene, Roma dal 13 al 28 gennaio 1968

 

Il Teatro Carmelo Bene ricavato da una cantina romana in vicolo del Divino Amore apre al pubblico presentando la rivisitazione di un anonimo dramma inglese del 1590. Protagonisti, la "giovanissima e bellissima" Alice (Lydia Mancinelli), suo marito Arden (Giovanni Davoli), l'amante di Alice, Mosbie (Franco Gulà), il suo amico Franklin (Manlio Nevastri), "tutti con un'età non inferiore ai novant'anni" e Alfiero Vincenti, cui fanno da sfondo il figlio di Giovanni Davoli, Ninetto, secondo attore pasoliniano dopo Franco Citti al suo debutto teatrale con Bene nelle vesti di un assassino e Susanna (Bernadette Kell), "modella e amante indisponibile" del "pittore più ingegnoso della Cristianità". La vera dominante di questa "pattumiera deprimente, ossessiva e traboccante di passioni, amorazzi, tradimenti coniugali e delittuosi", è la crisi del pittore Clarke (Carmelo Bene) "che sbarca il lunario confezionando quadri e crocefissi dai colori venefici, destinati ad uccidere chi attentamente li fissa", sostenuta dalle citazioni "fuori campo" di alcuni passi tratti da La Cucina ornamentale di Elle del semiologo francese Roland Barthes, da Le oscillazioni del gusto di Gillo Dorfles e da Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde. Brani che analizzano il senso, l'utilità , l'inutilità  e la funzione dell'arte, rispetto al gusto, alla moda, alla società, alla storia, citati durante la cena in cui Alice e Mosbie provano ad uccidere  Arden decorando le pietanze con i tubetti di colore avvelenato ("fuggire la natura grazie a una sorta di barocco delirante [...] tentare di ricostruirla mediante un artificio strampalato"), durante le scene in cui il pittore è all'opera ("pittori, che pur avendo qualità tecniche di prim'ordine sono di un valore artistico assai discutibile"), protratti fino a sconvolgere lo statuto degli elementi scenografici del dramma di cui lo stesso Clarke è artefice: "Tutta l'arte è completamente inutile."  La scenografia diventa inagibile, pura visione pittorica. Gli attori fino a quel momento "così finti in un ambiente vero" si ritrovano "veri", smarriti con "la loro età di vecchi, ingiustamente protratta", sfrattati "dal loro ambiente quotidiano", esiliati "nella rappresentazione senza mondo". Come dichiara Bene, in Arden si è tratto di verificare l'impossibilità del teatro "e dell'unica possibilità rimasta di raccontarne l'impossibilità".

 

Arden of Feversham. Di anonimo elisabettiano. Riproposto da Carmelo Bene e Salvatore Siniscalchi. Regia di Carmelo Bene. Interpreti: Giovanni Davoli (Arden), Manlio Nevastri (Franklin), Lydia Mancinelli (Alice), Franco Gulà (Mosbie) Carmelo Bene (Clarke), Ninetto Davoli (Un assassino), Bernadette Kell (Susanna), Alfiero Vincenti.


 

 

Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa

Teatro Beat 72, Roma dall' 11 al 18 aprile 1967

 

In una intervista rilasciata durante le prove dello spettacolo, Bene, "capelli sugli occhi e pantaloni rosa", dichiara: "E' la prima volta che allestisco uno spettacolo senza cambiare una virgola al testo. È rischio grosso, grossissimo. Ciò a cui miro è che lo spettatore, uscendo di qui, sia tanto disorientato che riesca solo a chiedersi: ma questo Giuliano, veramente, chi era?'". La messa in scena del testo di Nino Massari si avvale della presenza di tre personaggi: Salvatore Giuliano (Luigi Mezzanotte), la madre (Lydia Mancinelli) e la sorella di lui  (Carla Tatò). Il testo, desunto da materiale "inedito e scottante" sul conto di Salvatore Giuliano raccolto da Nino Massari durante sette anni di ricerche svolte sul campo: "E' spettacolo e basta. Ma è anche uno spettacolo che vuole romperla con certi miti su questo 'eroe' alimentati dai giornali". Il luogo dell'azione "un rigurgito di carta stampata" è, infatti, invaso "dai detriti di una alluvione di notizie futili e durevoli" attraverso le quali si alimenta la storia del mito riportata dalle cronache dei giornali di cui sono rivestite le tre pareti della pedana in stile elisabettiano, cronache dalle cui pagine emerge Giuliano "in chiave astratta". "Dell'ambiente storico in cui la sua vicenda si è sviluppata, la Sicilia, si avverte il clima di oppressione, il clima di un paese senza storia". Lo spettacolo si articola, attraverso "una gran concitazione di a solo, di duetti e di terzetti" e sovrapposizioni di battute  di "difficile ascolto", tra il "quadro storico ambientale e la psicologia del bandito" in cui prendono forma le velature edipiche della relazione ancestrale madre/figlio "declinanti risolutamente verso l'incesto  cavando da un esame postumo", osserva Aggeo Savoli, "più di quanto un seguace di Freud o Jung avrebbe potuto sperare da una lunga serie di sedute con il proprio paziente". La presenza di Bene "che si sente ma non si vede", in voce over rispetto ai dialoghi serrati dei personaggi implicati direttamente nella vicenda  incentrata sulla strage di Portella della Ginestra, intesse l'epica del racconto. Racconto rispetto al quale Bene, "dopo essere stato accusato di volta in volta di anarchismo, sinistrismo ed altro ancora", non si dichiara estraneo.

 

Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa. Di Nino Massari. Regia di Carmelo Bene. Interpreti: Luigi Mezzanotte (Salvatore Giuliano), Lydia Mancinelli (La Madre), Carla Tatò (La Sorella).


 

 

Salomè, lungometraggio, 1972

 

Le foto di Claudio Abate scattate durante le riprese ci restituiscono la densità iconica di un film, come nota Cosetta G. Saba, "che non vuole vedere e neppure vuole essere visto". Articolata in seimila inquadrature in poco più di 70 minuti, la Salomè cinematografica  stravolge il corpo filmico di cui si serve come condizione stessa del suo apparire. L'arte delle immagini in movimento diventa per Carmelo Bene, tra il 1968 e il 1973, lo strumento più idoneo per verificare fino a che punto sia possibile mostrare "l'immagine dell'immagine in se stessa". Oscar Wilde e Jules Laforgue sostengono l'impianto drammaturgico del film su un piano testuale puramente visivo. Come dentro un affresco di Gustave Moreau, tra le luci delle candele e "piante esotiche trapiantate a sproposito", tra "ventidue milioni di rose in plastica [...] tinte al fluoro, una per una", dentro un set galleggiante fatto di puro colore-luce, sovraccaricato dall'uso dei materiali adesivi rifrangenti, prendono forma i personaggi di Wilde come "doppi" già consumati. Cogliendo nell'altro il segno di una potenza umiliante che ne segnerà la fine, inventano per sopravvivere, ciascuno a proprio modo, ciò che percepiscono. Salomè (Donyale Luna) inventa il suo desiderio di fronte a Jokanaan (Giovanni Davoli), un muratore analfabeta vestito da calciatore che ignora quel che va profetizzando. Erodiade  - "eterna contraddizione fatta donna", sdoppiata in "una angiolona con le ali alla Bernini" (Lydia Mancinelli) e in un personaggio en travesti (Alfiero Vincenti) - ribadisce ossessivamente fuor di metafora che "la luna è la luna e basta". Il giovane siriaco amante non corrisposto di Salomè (Piero Vida) si uccide per eccesso di onanismo. Il carnefice (Dakar), condannato alla ripetizione di un atto atrocemente inutile, spacca iteratamente un cocomero. Erode Antipa (Carmelo Bene), intento a progettare la propria disfatta è destinato a mancare la messa in scena del suo stesso festino. Ingranaggi di una macchina inutile, sono le vittime di una scena predisposta con cura e spiata da un giovane "sui trentatré anni [...] avvolto in un mantello scarlatto", un Cristo-Vampiro (Franco Leo) che, nell'atto di deporre ai piedi di Erode una giovane donna nuda, "negazione dei valori terreni rifiutati e vietati dalla religio celeste", si annuncia come il portatore della fine del mito e di "ciò che è rimasto di Cristo". Alla sua presenza si contrappone la visione di un Cristo-uomo nell'atto impossibile di auto crocefiggersi. Eliminati i contenuti manifesti del dramma - la decapitazione del Battista, la danza e l'uccisione di Salomè -  al film non resta che esaurirsi come artificio formale, fino a sfinire l'immagine per restituirla, sulle note del secondo movimento dell'Ein Deutsches Requiem di Brahms, finalmente graziata dalla rappresentazione senza concetto.

 

Salomè (liberamente tratto da  Salomè  di Oscar Wilde). Regia, scene e dialoghi di Carmelo Bene, interventi speciali: Gino Marotta,  fotografia (Super 16, gonfiato a 35mm): Mario Masini, operatore alla macchina: Silvano Tessicini, montaggio: Mauro Contini. Con la partecipazione straordinaria di Veruschka (Myrrhina) e Donyale Luna (Salomè). Con Lydia Mancinelli e Alfiero Vincenti (Erodiade), Carmelo Bene (Erode Antipa/Onorio), Piero Vida (Narraboth il capitano siriaco), Franco Leo (Cristo-Vampiro), Giovanni Davoli (Iokanaan), Tom Galleés, Roberto Gnozzi, Marco Carelli, Dakar, Juan Fernandez, Ornella Ferrari, Luciana Cante. Assistenti alla regia: Monica Maurer e Michele Francis, Direttore di produzione: Paolo Mercuri. Effetti speciali ottenuti con materiali rifrangenti 3M. Girato a Cinecittà. Sincronizzazione Istituto Luce. Produzione: Carmelo Bene, Italia, colore, 1972.


 

 

Don Chisciotte

Teatro Carmelo Bene, Roma dal 26 ottobre 1968

 

Don Chisciotte è uno spettacolo-racconto nato dall'opera di Cervantes "in strettissima collaborazione con Leo De Berardinis che stimo l'unico italiano possibile di idee teatrali, soprattutto per il fatto che mi  è diverso [...] e quindi capace di collaborazione". Come ricorda De Berardinis, lo spettacolo va in scena senza prove, sono sufficienti solo pochi accordi preliminari per strutturare  la scena, l'uso del microfono, i vetri a terra. "Irritante ma non troppo", la lettura del testo di Cervantes delude la critica, la stessa critica che solitamente lamenta gli eccessi "dissacranti" degli spettacoli di Bene, registra una recitazione prossima ai modi del "teatro all'antica  italiana" caricata da "sfacciati birignao" alternati a "guitte inflessioni", coadiuvata dalla generale "esasperazione fonetica" degli altri protagonisti che, "a prescindere dalla educata dizione di Lydia Mancinelli presente però solo ai margini", "masticano e triturano e salivano e inghiottono" uno "spettacolo-concerto-narrazione"  che se pur fedele al testo lo riduce a "pura concitazione verbale" contaminandolo "qua e là di parolacce". Di fronte alla totale crisi di chi guarda e alla generale mancanza di analisi critica che caratterizza le recensioni del tempo rispetto ad uno spettacolo che si  presenta come "teatro saggistico" rispondono lo stesso Bene, in polemica con alcuni critici, ed  Edoardo Fadini con uno  rigoroso saggio analitico sulle pagine della rivista Sipario. Sulla scena, decorata da carta stagnola sulle tre pareti di  fondo si trovano in primo piano De Berardinis (Sancio) e Bene (Don Chisciotte). Seguendo l'analisi di Fadini, mentre Bene si serve degli elementi scenici "esterni al racconto" (vetri rotti calpestati, aste spaccate sul ginocchio armato, le bende e gli stracci di cui si veste) per raccontare "il bestiale farfugliamento" della ragione, De Berardinis  opera con distacco manifestando in una "lettura fredda" condotta su spartito, la sua "follia mascherata". Gli interventi di Mancinelli e Perla Peragallo avvengono su un piano lirico, in senso didascalico la prima, musicale memorativo la seconda, intonandosi alla struttura jazzistica della dizione di De Berardinis.  Al "racconto del racconto" di Don Chisciotte presiede la "tecnica dell'anacronismo deliberato e delle attribuzione erronee", sulla base di una definizione di Borges,  che consiste nella riscrittura critica di un'opera fatta rivivere, integra, oltre il proprio tempo, emancipata, quindi,  dai confini storici e autoriali entro cui fu concepita: "riscrivo soprattutto perché lo sento e mi sento inattuale."

 

Don Chisciotte. Da Cervantes. Adattamento di Carmelo Bene e Leo De Berardinis. Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Leo De Berardinis, Perla Peragallo, Clara Colosimo, Gustavo d'Arpe, Claudio Orsi.